Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo I, 2005, n. 4 (68) ottobre-dicembre
NOTA EDITORIALE , p. 2-4
(Versione
integrale - di Paola Bono)
Ho proposto alla redazione questo numero – e il successivo, che
ne riprende il tema – alla vigilia della mia partenza per l’Australia,
dove mi accingevo a trascorrere parte di un sognato
anno sabbatico come Visiting Research Fellow presso la School
of Languages, Cultures and Linguistics della Monash University
di Melbourne. Sapevo che lì, senza impegni di sorta che non
fossero studiare, fare ricerca, pensare e scrivere, avrei avuto
finalmente il tempo di dedicarmi a questo progetto, da tempo
confusamente ma fortemente presente al mio desiderio: l’individuazione
di alcune figure di donne contemporanee significative
nelle arti performative, e di altre donne capaci di far emergere
la politicità del loro lavoro in termini parlanti per la nostra sensibilità.
Per nostra intendendo quella di donne, ormai di diverse
generazioni e sicuramente di diverse esperienze, accomunate
però da una appartenenza di genere scelta e non subita, autonomamente
significata nella relazione con altre, e dall’amore
per la libertà femminile e per quella trasformazione di sé che
chiama in causa il mondo.
La redazione mi ha dato fiducia, e nella lontananza degli antipodi
ho quindi tessuto rapporti con le autrici dei pezzi raccolti
in questi due numeri di DWF, avendo prima identificato le artiste
di cui mi sembrava interessante interrogare la storia e la
produzione – una scelta non facile, inevitabilmente soggettiva e
discutibile, giacché nella ricchezza di presenze di donne nel
campo delle arti performative molte altre me ne sono venute in
mente… Artiste di formazione diversa, provenienti da una
varietà di luoghi e di culture, non necessariamente femministe
(anzi, in alcuni casi – Sarah Kane, Ariane Mnouchkine – quasi
infastidite dalla possibile imposizione di una connotazione sessuata
al loro lavoro), donne di spettacolo in una accezione
ampia del termine: drammaturghe, registe, attrici, artiste della
performance, da “leggere” a nostro vantaggio, per quel di più
del linguaggio artistico che sa dire oltre le intenzioni di chi dice
e che – soprattutto nelle arti performative, dove il corpo è segno
e significato – non può mantenere una opaca neutralità.
Intanto avevo partecipato alle prime riunioni di discussione per
il numero Aggiunta e mutamento, e avrei poi continuato a
seguirne gli sviluppi scambiando messaggi di posta elettronica
con le altre della redazione: hanno così viaggiato tra Roma e
Melbourne gli appunti delle riunioni, le diverse stesure di “Per
la pratica politica”, le ipotesi dei vari pezzi. Una relazione
segnata dalla distanza (sappiamo che lo scambio in presenza
non è mai pienamente sostituibile) che però lavorava dentro di
me oltre la mia stessa consapevolezza, permettendomi al mio
ritorno di prendere parte – quasi come se niente fosse – alle
ultime fasi di completamento del numero.
Per cui, leggendo i pezzi che avevo commissionato, ho avvertito
con naturalezza che c’era un legame, che quel che emergeva dai
ritratti, dalle interpretazioni, dalle analisi che inseguendo il mio
progetto originario avevo chiesto e “contrattato” con le autrici,
aveva molto a che fare con quella sfida al pensiero politico da
parte dell’arte individuata in Aggiunta e mutamento, con il riconoscimento
della capacità – oggi molto rara e invece così necessaria
– propria della pratica artistica di “comunicare ed esprimere
il bisogno di senso e di cambiamento del mondo in modo
molto efficace, aprendo all’ascolto e allo scambio”.
Guardando al lavoro delle artiste di cui si parla in questi due
numeri: Julia Varley – attrice dell’Odin Teatret; Odile Sankara e
Werewere Liking – eclettiche donne di spettacolo africane;
Sarah Kane e Caryl Churchill – drammaturghe inglesi di due
generazioni successive; Ariane Mnouchkine – regista geniale e
innovativa; Marina Abramovic´, performer e figura di primo
piano nelle arti visive, si vede bene la loro “forza nell’indicare
con precisione”, nell’esprimere il mondo in cui viviamo e nel
modificarlo nominandolo, in un intreccio tra vita e arte che non
significa superficiale (auto)biografismo ma radicamento nell’esperienza
e sua ripresentazione in modi che ne conservano l’intensità
del sentire soggettivo ma anche la allargano al mondo.
Dono prezioso nel momento attuale, segnato da una dolorosa
“individualità” del rapporto con gli eventi terribili che quotidianamente
ci feriscono come singoli corpi e singoli pensieri, “implosione
nell’intimo di ognuno/a, nel ventre molle del privato”.
Citare da “Per la pratica politica” nell’introdurre
casuale; è come se la riflessione iniziata in Aggiunta e mutamento,
il volgersi alla pratica artistica per coglierne la forza
costruttiva contro “la miseria che schiaccia le singolarità in individualità
[…] rendendole incapaci di autorappresentazione e di “mondificazione”, si esemplificasse – oltre mio il progetto iniziale
– nel lavoro di queste donne, che davvero ci aiuta “ad elaborare
il dolore, a farne lutto, a superarlo come anche ad alzare
la soglia dell’insopportabile” e a spezzare “il senso d’impotenza
e di avversione per questo mondo” con un altro “stato delle
cose” e con i segni della loro ricerca.