Aggiunta e mutamento/2: linguaggi di artiste, 2006, n. 2 (70)
Nota editoriale
(di Patrizia Cacioli e Federica Giardini)
Sono passati alcuni mesi da quando abbiamo cominciato a riflettere a
voce su un’intuizione: l’arte e la sua efficacia simbolica - quella che la politica delle donne ha sempre voluto e coltivato per sé, la capacità di trasformare sé e il mondo attraverso il linguaggio – poteva essere una
fonte, una sfida, per rimettere in movimento la nostra stessa politica,
tanto più di questi tempi, pressate, come siamo, dalla quotidiana inefficacia di tanta parte del discorso politico tradizionale. Di fronte a questo paesaggio contemporaneo ci siamo poi accorte che quell’intuizione
significava anche in qualche modo tornare e rielaborare le origini del
femminismo, quando i primi gruppi politici avevano l’arte ben presente
e praticata tra loro, pensiamo ad esempio a Rivolta femminile con Carla
Lonzi, Carla Accardi e Cloti Ricciardi che scrive qui.
L’intuizione è diventata un viaggio che finora si è articolato in quattro
numeri-tappa (DWF 67-70).
Il primo Aggiunta e mutamento – preceduto
dall’esortazione: “impara dall’arte e non metterti da parte” – è il risultato
dei pensieri scambiati tra noi della redazione e alcune invitate. Ciascuna
è partita da sé, dunque, per dire del suo rapporto con un’espressione
d’arte – dalla letteratura, al cinema, alla danza – per interrogare
il rilancio che poteva darsi per la politica. Noi, non artiste ma donne
appassionate di politica, di più, di una politica che mette al centro l’aggiunta
e il mutamento della realtà a partire dalla pratica delle relazioni.
Nell’editoriale “Per la pratica politica” dicevamo che il fatto nuovo da
cui partiamo non tiene in conto la sola capacità di comunicazione della
parola/linguaggio artistico, che c’è sempre stata, ma le sollecitazioni
che rivolge a noi donne femministe.
Il secondo e il terzo numero sono strettamente legati nel “mostrare il
cambiamento” che molte donne portano avanti nelle arti performative.
Qui la pratica di pensiero si sposta: alcune donne svolgono la loro riflessione
in stretta relazione con l’opera di altre, attrici, drammaturghe, registe, donne di spettacolo nella più ampia accezione del termine – Julia
Varley, Odile Sankara, Ariane Mnouchkine, Marina Abramovic, Werewere
Liking e Caryl Churchill. Si ritrova, negli scritti e/o nel concreto farsi e
offrirsi delle messe in scena di sé e del mondo da parte di queste artiste,
quella capacità di esprimere il bisogno di senso e di trasformazione che anche noi avvertiamo, e a cui il linguaggio artistico sa dare forma efficace
nel confronto attivo con chi ne fruisce.
In questo numero a prendere la parola, si fa per dire, sono le artiste
stesse, in risposta ad alcune nostre sollecitazioni*. Cerchiamo di capire
cosa possiamo imparare dalle loro pratiche, ascoltandole. E così, come
ogni incontro degno di questo nome, facciamo una scoperta: l’arte ha
a che fare con il linguaggio, certo, anzi con linguaggi, ma questo non
sempre significa condividere immediatamente un medesimo e identico
rapporto con la parola.
È per questa ragione che in apertura ci si è imposto lo scritto di Marilù
Eustachio: parola scarna di un testo quasi letterario che diventa segno
visivo, e quindi immagine emozionante, dove l’unica parola autorizzata
è quella dentro l’opera stessa, non quella organizzata come un discorso
su di essa. Ancora tattile, fisica, l’opera e la parola di Cloti Ricciardi, che
con il corpo compie una rimappatura del tempo e dello spazio, della
storia e della città, che è la sua impresa di risignificazione del mondo.
È un racconto per lampi emotivi quello di Cristina Liquori, che con descrizioni
suggestive riesce a “situare” il suo percorso femminista negli
spazi che abita e che lei – architetta che si definisce artigiana – immagina
e costruisce. In questa parte del numero, in cui l’opera fisica prevale, o
perlomeno alimenta in modo imprescindibile la parola, trova la sua piena
collocazione Ida Gerosa, pioniera del legame tra linguaggio informatico e linguaggio estetico, che ci prepara alle sue intense e coloratissime
invenzioni al computer.
Con queste artiste siamo messe di fronte a una distanza certa tra chi
fa l’opera e chi ne gode, distanza feconda perché può rispondere alla
nostra ricerca di vie e di invenzioni linguistiche che nutrano le nostre
pratiche politiche. Nel caso delle artiste successive, donne che lavorano
direttamente con la parola – poetica, narrativa o critica che sia – le rispettive
posizioni sono differenti. Attive da tempo nel femminismo, sul
loro rapporto con l’espressione artistica hanno un discorso già riflessivo. Anna Santoro fa emergere l’urgenza di chi fa arte, che di per sé è già
l’annuncio di un percorso di aggiunta e mutamento, e del vincolo che
stabilisce tra arte e presa di parola attraverso l’espressione: “scrivere,
recitare, creare, vivere è fare politica”. Maria Rosa Cutrufelli ci racconta
– richiamando in qualche modo le considerazioni di Simone de Beauvoir
rilette da Françoise Collin (DWF 4, 2005) – della tensione originaria
che lega una donna all’arte, la “prudenza emotiva” da superare vitalmente
insieme ad altre. Rachel Blau DuPlessis, infine, che nel parallelismo
virtuoso con cui vive il suo femminismo e la sua scrittura, ci offre
un contributo prezioso per registrare le differenze di pratiche nel legare
arte e politica.
“La distanza tra arte e politica si accorcia solo se i linguaggi che ci
riguardano non si limitano all’interpretazione, ma hanno la forza di restituire
le cose e i soggetti a loro stesse o a loro stessi, per aprire al desiderio d’infinito dell’arte e al desiderio di felicità nella politica”, abbiamo
scritto nel numero di apertura di questo ciclo. Le artiste interpellate non
hanno dato una risposta diretta, e tanto meno definitiva, hanno piuttosto
mostrato un percorso singolare di mutamento che ha potuto contare
sull’aggiunta portata dal femminismo. A noi, oggi che l’aggiunta sembra
avere corso con più ricchezza nei linguaggi artistici, di farne qualcosa. “Come (re)imparare la politica da queste pratiche artistiche?” Nel gesto
d’arte di ciascuna emergono alcuni elementi: senz’altro la forza che
deriva dal perseguire con determinazione un desiderio di espressione,
dall’assumere per sé la posizione di chi inventa o scopre nuove forme e
di chi cerca, non meri riconoscimenti, ma comprensione e condivisione
dell’urgenza di ridisegnare il mondo. A guardare queste artiste, le loro
opere, si riconferma che il partire da sé, dal proprio desiderio, rimane
la condizione prima di qualsiasi ricerca che miri a dare e ridare senso
alle cose, al mondo.
Ma questo movimento singolare - che nulla ha a
che fare con l’individuo triste e isolato cui ci portano questi tempi – si
alimenta e si potenzia di un corpo a corpo che queste artiste mantengono
con la loro opera, dunque con il loro desiderio e le sue forme. A
questo punto del percorso possiamo allora prendere alcune indicazioni:
la singolarità dei linguaggi, dei luoghi e delle pratiche da cui nascono,
non è un ostacolo. Anzi, vanno interrogati e mantenuti nella loro irriducibilità
che una vera ricchezza per attingere a un nuovo senso della
realtà.
Insomma, siamo tante e in tanti luoghi - su un palcoscenico tra
la Danimarca e Verona, tra il Burkina Faso e Milano, tra l'"Angelo Mai" e Parigi, negli spazi dell’arte contemporanea che si allargano da Roma
al mondo - ascoltiamoci per quel che le nostre singole vite ci portano a
scoprire e a dire. Ma non è tutto qui. Questi scambi devono avvenire tra
donne che stanno nella pienezza di un corpo a corpo con la loro vita, con
quel che capita loro, nell’urgenza di raccontarlo.
DWF, tra il volontario e l’involontario, ha già avviato il lavoro. È dall’inizio
di quest’anno che stiamo discutendo su come, con quali pratiche
di relazione, fare rete con donne che praticano “aggiunta e mutamento”
in forme diverse ma con la stessa urgenza. Non che questa, del fare rete,
sia un’esigenza nuova – abbiamo all’attivo i numeri di sperimentazione:
con il gruppo Balena, Stanche di guerra (48) e L’algebra della prevenzione (61-62), con la nascente Matri_x, Genealogie del presente (50-51), con la
discussione allargata a Maria Luisa Boccia, Chiara Zamboni, Vita Cosentino,
Laura Gallucci, Donatella Alesi, Spazio (57) e con Rosetta Stella, Bufera canto V (65) - da oggi però lo intendiamo come un vero e proprio
progetto politico. A risentirci al prossimo numero.
*Le domande della redazione alle autrici
Puoi raccontarci brevemente il tuo percorso di artista e di donna per
presentarti alle lettrici e ai lettori di DWF?
C’è stato / quale è stato – e c’è ancora? – un nesso tra femminismo,
pensiero delle donne e la tua pratica artistica?
Il “partire da sé” è un elemento fondante della pratica femminista, anche
perché associato alla ricerca e fondazione di un linguaggio; è stato /
è così anche per te rispetto all’arte? Ci sono stati cambiamenti nel corso
del tempo?
Guardando all’arte nella desolazione del panorama politico attuale,
esprimiamo un’urgenza di “aggiunta e mutamento” condiviso – che è
per noi un’urgenza politica; nel fare arte, quale è oggi la tua urgenza?
Ha a che vedere con la responsabilità politica, con il bisogno di modifi -
care il mondo?
La politica e l’arte – quelle che ci piacciono – sono secondo noi un fatto
di relazioni; tra chi fa politica, tra chi fa arte, ma anche con chi viene
toccato dalla politica e dall’arte. Per produrre “aggiunta e mutamento”
bisogna essere – almeno – in due. Quanto conta nella tua ricerca e costruzione
di senso, la relazione con un’altra, le altre?
Quale restituzione ti aspetti dalla tua opera o dalle fruitrici della tua
opera?
L’arte che ci piace tende non a rappresentare, ma a ri-presentare la verità
del mondo, per aprire lo spazio a una giustizia poetica; risuona in
te questa affermazione, la condividi? E come si può muoversi per realizzarla?
L’atto artistico ha una sua forza, che chiama in causa chi la esercita e
chi la avverte. Che tipo di forza, di energia è? Come si alimenta in te?