Voci miranti , 2006, n. 3 (71-72)
Migrazione come utopia
(di Raffaella Fiori)
Viaggi per rivivere il tuo passato? era a questo punto la domanda del Kan,
che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il
viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha
avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
Sono nata in India, adottata a poco più di due anni da una coppia italiana
– per me sono mia madre e mio padre – e da allora ho vissuto in Italia; qui
sono cresciuta e mi sono formata, frequentando le scuole italiane, avendo
l’italiano come “lingua madre”, senza davvero consapevolezza di una
diversa origine. Se solo pochi anni fa qualcuno mi avesse chiesto di scrivere
sui migranti, avrei pensato a una lunga dissertazione sul significato
della parola, sulle sue implicazioni sociali e storiche, sul modo di essere
migranti degli italiani e sul loro rifiuto e disconoscimento attuale, quasi
attuassero una rimozione: l’avrei pensato da ragazza italiana di meno di 25
anni, bianca.
Oggi mi guardo allo specchio e mi riconosco nera.
Questo mi porta ad un approccio tutto nuovo alla domanda: “Scrivi sui
migranti?”. Mi costringe a chiedermi io cosa sia, in un girotondo estenuante
di riconoscimenti e sovrapposizioni.
C’è un intrusione costante del mondo esterno, da quando riesco a ricordare,
che ha cercato con perentorietà di riaffermare una mia estraneità
– che io invece non sentivo – all’Italia dei miei genitori, dei miei
nonni, della mia vita. Sono passata da maestre delle elementari
che pretendevano conoscessi la situazione politica indiana a sei anni,
a compagni di classe che con un po’ di confusione ululavano davanti
a me scimmiottando pose da nativi americani, passando per le domande
di extra-comunitari che si riconoscevano nel mio colore ma
non nel mio modo di portarlo, per la curiosità maleducata di chi, credendosi a casa propria, pensa che perché diversa probabilmente non
saprai neanche leggere, fino alla violenza verbale di un poliziotto.
Sarà stato questo affastellarsi di eventi, questo cogente richiamo esterno a
dar voce a qualcosa che mi ribolliva dentro, a farmi compiere quest’estate
un viaggio, una migrazione contraria ai consueti flussi, verso il luogo dove
tutto era cominciato.
L’India mi ha accolto sconcertandomi e infastidendomi come se ci fosse
qualcosa di troppo doloroso da cui mi si dava l’ultima occasione di scappare.
Sarà che lì per lì non l’ho capito, sarà che dentro la voglia era più
forte, sono rimasta.
Per chi la conosce sarà facile immaginare il clima di Mumbay a fine luglio,
ma per chi non vi avesse mai messo piede si immagini il caldo di alcune
serre con l’umidità delle piscine in quel piccolo corridoio che di solito
porta dagli spogliati alle vasche, tutto molto, molto amplificato. Mumbay
alle cinque di mattina si è aperta ai miei occhi appiccicosa, inospitale,
povera e dolorante.
Neanche cinque ore dopo eravamo a Cochin. È lì che è cominciata la mia
storia personale ed è lì che è cominciato il mio migrare per una terra immensa
e fino ad allora vista da lontano, senza sapere né voler sporcarmi le mani.
A Cochin ho cominciato subito a cercare tante piccole me camminare per
strada, cercavo di riconoscermi nei sorrisi e negli occhi di chiunque incontrassi,
camminavo per mano al compagno di viaggio e di vita che ho la fortuna
di avere, sperando di incontrarmi casualmente sul lungomare della
città.
Era stranamente simile quel lungomare a quello su cui ho passato le
mie estati, cu sui mi sono emozionata e sono cresciuta in Italia, un lungomare
come immagino qualunque nel mondo, con gli scogli a ridosso della
strada su cui parlano amici, si perdono nell’orizzonte innamorati, corrono
vocianti i bambini sotto lo sguardo benevolo e accorto dei genitori, imboniscono
i passanti venditori di qualunque mercanzia.
E fra questa varia umanità passeggiavamo curiosi, stanchi ed eccitati, in
quello stato tipico da turisti, lui ed io. Coppia mista, strana qui e anche lì.
Lui chiaramente europeo, come la sua pelle e i suoi occhi, io… io strana
come indiana con i miei capelli corti, i miei jeans, la mia maglietta.
Per tutto il nostro piccolo ed enorme percorso di diciotto giorni sugli autobus
indiani con lo zaino in spalla, con le piogge che incombevano e un
malessere nello stomaco che non era dovuto al cibo, siamo passati su quella
terra. Curiosi e incuriosenti verso chiunque ci vedesse.
Sui pullman abbiamo potuto fare scorpacciate di esperienza visiva ed emotiva su ogni dosso, lentamente impiegando quattro ore per fare sessanta
chilometri ma girando fra parchi e monti, vedendo scimmie sulle strade e
bambini seriosi nelle loro divise che, ufficiali, portavano ancora più il
segno di quella povertà diffusa che passava per i maglioncini bucati, i pantaloni
troppo grandi, i faccini sporchi; donne e uomini che caricavano su
quei grossi trabiccoli a quattro ruote qualunque tipo di mercanzia, a qualunque
ora, per viaggi che li portavano in posti che garantivano la speranza
di una stentata sopravvivenza.
Un giorno un bambino mi ha chiesto di dove fossi e alla mia risposta:
“Sono italiana”, mi ha guardato stupito e arrabbiato come se lo stessi deridendo
– “ma se hai il mio stesso corpo?” – e lasciandomi con una sensazione
di frustrata incapace possibilità di spiegare se n’è andato sulla sua
bici arrugginita.
E io ho continuato a cercarmi, lasciando che piaghe dolorose fossero aperte
da ogni frase che mi riguardava, da ogni spiegazione, da ogni accerchiamento
curioso di bambini che non avevano mai visto un uomo bianco, in
un paesino fuori dalle strade principali nell’immenso centro sud dell’India,
sorridendo all’imbarazzo infastidito di lui che improvvisamente era il centro
calamitante di ogni attenzione, lui che fino ad allora era la consuetudine
e che diveniva in un altro mondo l’eccezione. In un mondo in cui io non
ero più così differente, lui, il più simile a me di tutti i presenti, era contemporaneamente
il più estraneo a tutti, me compresa.
Da quando sono tornata l’India mi manca molto, non come fanno altri luoghi
che ho girato, ma come se avesse ancora molto da dirmi, molto che non
ho capito e che sarebbe stato importante capire, un irrisolto che senza stare
in quel luogo o nel mio stare come passaggio fra due luoghi non mi sarà
possibile comprendere.
Dopo questa migrazione dentro di me e dentro la terra dei miei colori e dei
miei sorrisi ho scoperto con maggiore stridore quanto sia impossibile per
me definirmi in qualche modo. Se culturalmente sono italiana perchè formata
qui, resto apparentemente e per sempre straniera e questa estraneità
resta il mio più grande premio.
Fin da piccola ho imparato a rispondere e a
prevenire le domande di chiunque in una litania che come ogni rituale mi
salvaguardasse dall’entrare completamente nel conflitto fra il mio corpo e
il suo dirsi, la mia ragione e il suo farsi. Oggi, lascio che le domande e gli
sguardi non mi attraversino ma che restino e si depositano su di me.
Sono in Italia con il dissidio tipico delle seconde generazioni dei migranti,
quell’essere apparentemente qualcosa e culturalmente altro, ma ho come deficit nei loro confronti un’appartenenza a quel luogo che è l’origine
che non potrò mai compensare, e un debito di gratitudine e di amore
infinito verso la mia famiglia che non voglio disconoscere.
Al convegno dell’associazione internazionale delle filosofe, svoltosi l’estate
scorsa, sono stata particolarmente colpita e sollecitata dall’intervento
della psicoanalista Manuela Fraire che sosteneva che nel rapporto preverbale
fra madre e figlio/a si giocasse una prima formazione dell’identità.
E la mia allora? Mi sono riconosciuta migrante anche in quel particolare
periodo della mia vita, perché fino ai due anni e mezzo non c’è stata alcuna
figura di solida e immutata certezza ma sono passata fra più donne, che
in modi diversi e con diverse occupazioni impiegavano il loro tempo con
me, pagate. Sottolineo questo aspetto per dire che questa mia migrazione
fra i loro corpi non era neppure data con gratuità simile al rapporto madre/
figlia, ma era un mero assolvimento del compito a cui erano state delegate.
Come quindi io ho potuto costruirmi una qualche identità? Come quei
primi due anni e mezzo della mia vita e i nove mesi precedenti, che la psicologia
infantile scopre come fondanti e necessari per un individuo, hanno
un peso in me? Sollecitata in questo stesso scrivere e dalle esperienze che
ho fatto nel piccolo del mio lavoro come mediatrice culturale, mi delineo
in modo sempre più preciso nella figura di una “migrante” che ha costruito
nel viaggio il modo di esserci.
Il viaggio che come per tutti mi ha portato da un ventre, che sento problematico
definire sicuro e accogliente, a una luce fuori, per un abbandono
non stemperato dalla centralità di nessun abbraccio ma mediato e rimesso
in scena dai corpi di donne che occupavano il mio, per trovare finalmente
chi non mi avrebbe lasciata. Ma per conquistarmi questo stato di non
abbandono ho dovuto compiere un ulteriore viaggio, sia simbolico che
fisico, fra l’India e l’Italia.
La mia memoria inizia da quel viaggio, da quell’aereo di cui ricordo il
cielo percorso e il bagno spaventoso, dai sorrisi di chi mi aspettava all’aeroporto
e in quella che per sempre, più di qualunque altra, sarebbe stata
casa. Corpi che si prendevano cura di me gratuitamente, con il coinvolgimento
assoluto e assolutizzante di cui avevo bisogno.
Tutto quello che ho ricevuto mi ha permesso di cancellare il disagio che
tutti coloro che migrano provano, quel doversi ridire e definire per compiacere
lo sguardo di chi li giudica o per contrastarlo, senza provare mai la
sensazione della sola accettazione.
Ma alcune delle mie scelte mi hanno portato a ridire quella certezza che
avevo maturato; è stato il lavoro nelle scuole con i bambini di “seconda
generazione” e il mio scontro feroce con gli educatori che sostenevano la
necessità di ricordare loro che non erano italiani, e secondo loro dovevo
farlo anch’io. Io dovevo dire ad una bambina di sette anni, che si era detta
italiana ma che aveva la pelle nera e genitori nati in Africa, che non poteva
definirsi così, a lei che qui c’è nata, io che qui neppure ci sono nata.
A questo dissidio non riesco a trovare soluzione e neanche potendolo lo
vorrei. Come problema voglio affrontare il mio rapporto con la cultura che
fino ad ora ho sentito come centrale, con le pratiche che sperimento e con
lo studio della filosofia che caratterizza il mio percorso, non voglio più che
qualcosa suoni come bastante.
Sento inoltre che proprio nel mio corpo di donna si gioca ancora più fortemente
questo essere migrante, come luogo di un possibile passaggio di
un’altra vita, sia che esso avvenga sia che non accada, ma in questa peculiare
specificità dell’essere attraversata da un altro corpo e nel formarlo, vi
è l’attuazione di quella precondizione che segna il mio umano agire.
Oggi sono migrante, in questa situazione di non completa appartenenza a
nessun luogo e a nessun territorio, questo mi permette di fare del mio
corpo UTOPIA da realizzare nella migrazione del mio vivere.