Se il mondo torna uomo è un libro davvero deprimente. Utile, necessario forse, ma deprimente. Certo non poteva essere altrimenti, visto l’intento dichiarato di “mettere in guardia un’area di femminismo militante, giovane e meno giovane”, in merito alla “controffensiva” patriarcale, che ha come “bersagli (…) nello stesso tempo, ma in modi diversi, le donne e le sessualità non conformi, i loro movimenti e le loro conquiste” (p.11). Una controffensiva che – sottolinea la curatrice del volume, Lidia Cirillo – non è frutto di un progetto unitario: da ciò la necessità di ricostruirne l’orizzonte generale attraverso uno sguardo approfondito sui singoli fenomeni di scala locale e globale, facendone emergere tanto le specificità che le possibili e varie interrelazioni. Il frame generale in cui l’insieme di tali fenomeni viene inquadrato è quello dello spezzarsi definitivo dell’illusione liberale secondo cui il liberismo economico avrebbe dovuto sposarsi a politiche autenticamente liberali. L’orizzonte politico globale contemporaneo disvela al contrario l’inquietante alleanza fra nuovi fondamentalismi e libero mercato. Ed è il discorso pubblico sul corpo femminile ad essere luogo privilegiato di tale disvelamento: il corpo che siamo rimane il principale campo di battaglia, materiale e simbolico, del conflitto che ne è alle spalle. Il corpo che accetta o rifiuta una gravidanza, il corpo che gesta per altri, il corpo che ama, che lavora e che migra, il corpo investito dalla violenza. Di tutto questo, e forse anche qualcosa di più, il volume ha l’ambizione di parlarci.
Così i contributi di Silvia Brignoni e Claudia Mattalucci sugli attuali movimenti antiabortisti mettono in luce da un lato i legami transazionali fra le organizzazioni di estrema destra Americane e Russe e le realtà locali di tali movimenti, che emergono palesi seguendo il flusso dei finanziamenti. Dall’altro l’inquietante appropriarsi, da parte del discorso antiabortista, “del linguaggio dei diritti”, nonché “di termini e discorsi storicamente utilizzati dall’attivismo femminista e prochoice” ridefinendoli “per contestare la legalità dell’aborto” (p. 67). Mentre, nel ricapitolare gli aspetti salienti del dibattito degli ultimi anni sulla questione della gravidanza per altri/e, Ilaria Santoemma individua tale pratica come punto estremo del meccanismo biocapitalista di messa a profitto dell’individuo nella sua totalità, al contempo evidenziando i pericoli del ricorso a un etica della gratuità e del dono per contrastarne le derive. Ricorso che, forse tanto quanto un atteggiamento proibizionista, rischia di consegnare all’invisibilità e a forme ancor più radicali di sfruttamento le soggettività coinvolte. Massimo prearo, invece, nella sua indagine condotta con metodo “quasi-etnografico” sui movimenti antigender, mette in luce l’opzione movimentista e populista da essi adottata, in cui le retoriche del fondamentalismo cattolico si saldano con quelle del nazionalismo xenofobo.
Ulteriori prospettive legate all’ambiguità dell’esperienza dei corpi femminili (e femminilizzati) viene fornita nei due saggi di Carlotta Cossuta e Romina Amicolo, rispettivamente su tema del lavoro da casa e delle donne migranti. Il contributo di Cossutta evidenzia come il lavoro da casa, esperienza ambigua anche quando incarnato da una donna occidentale nella privilegiata condizione di svolgere un’attività intellettuale, quale l’autrice stessa, assuma sfumature assai più negative se si allarga l’orizzonte non solo ad altre fasce sociali ma alla dimensione globale. Il lavoro da casa si rivela una realtà a schiacciante prevalenza femminile, la cui primaria motivazione è la possibilità di conciliare tutto il carico tradizionale di lavoro per la riproduzione con la necessità di svolgere anche lavoro produttivo per il mercato. Ben lungi da rappresentare dunque un percorso di autodeterminazione, esso risponde a meccaniche di sfruttamento sempre più complesse ed opprimenti. In tutto ciò almeno una buona notizia: prima nei paesi asiatici e più recentemente anche in Europa vanno costituendosi reti di solidarietà fra le donne che lavorano da casa. Amicolo ci lascia forse un po’ più di speranze: per l’autrice infatti “la tutela dei diritti delle donne straniere è uno strumento efficace contro la deriva antidemocratica e totalitaria dell’Europa.” (p.150) L’adozione di una prospettiva di genere nel diritto internazionale umanitario, resa possibile dall’introduzione della Convenzione di Istanbul, ha infatti innescato un’evoluzione giurisprudenziale le cui implicazioni politiche sono cruciali: esse conducono al “superamento di stereotipi nell’applicazione del diritto, quali le contrapposizioni tra ragion di Stato e ragioni umanitarie, da una parte, e vicende private e questioni pubbliche, dall’altra” (p.158).
Completano il quadro due ulteriori contributi che approfondiscono la prospettiva giuridica. Eleonora Cirant affronta il tema della violenza maschile sulle donne, inquadrando l’argomento attraverso gli strumenti del diritto internazionale (Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne e Convenzione di Istanbul), ma focalizzandosi sulla situazione italiana, attraverso un riassunto delle linee essenziali del lavoro svolto dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio istituita nel 2017 dal Senato. L’autrice ricostruisce tanto i passaggi che si muovono nella direzione di un riconoscimento della specificità e sistematicità della violenza contro le donne, quanto i numerosi ostacoli giuridici e soprattutto culturali a cui questo processo va incontro, con ripercussioni drammatiche sulla vita delle donne vittime di violenza. È infine ancora Romina Amicolo ad offrirci alcune riflessioni aggiuntive su violenza di genere e giustizia penale. L’autrice mette in luce come l’introduzione delle nozioni di “violenza di genere” e “violenza domestica” nel linguaggio giuridico, possa portare con sé il rischio di un occultamento del fatto che nella maggior parte dei casi si tratti di violenza perpetrata dagli uomini contro le donne. Mentre è di cruciale importanza mettere a fuoco il sessismo – inteso come dispositivo di svalorizzazione di tutto ciò che viene riconosciuto come “femminile” – quale meccanismo cruciale della violenza contro le donne e contro i soggetti appunto “femminilizzati”. Altrettanto cruciale risulta “scandagliare il rapporto tra la violenza di genere e la giustizia penale con l’obbiettivo di contribuire a modificare le pratiche e le finalità tradizionali del sistema penale” (p.148) che troppo spesso non sono in grado di rispondere alla domanda di giustizia espressa dalle soggettività coinvolte.
Chiude il volume Roberta Paoletti, che nel raccontarci la situazione critica di alcuni spazi storici del movimento femminista romano – La Casa internazionale delle donne, a cui è stata revocata la convenzione dalla sindaca Raggi; la casa delle donne Lucha y Siesta, destinataria di un’ingiunzione di sgombero; il Centrodonna L.I.S.A. destinatario di un provvedimento di sfratto – ci ricorda quale volto oscuro possa prendere lo schiacciamento della giustizia sulla legalità. “La consuetudine dell’utilizzo della procedura formale” – scrive l’autrice – nasconde dietro la sua “presunta equità, formalità o risoluzione una precisa indicazione politica: cancellare decenni di storia di autodeterminazione e di politica delle donne che mettono in discussione uno status quo e indeboliscono il vantaggio di quei maschi che faticano a confrontarsi in una relazione paritaria con l’altra. Intendono cancellare il valore dell’autonomia e la ricchezza che essa porta al bene comune. Tacitano le questioni di genere guardando alle donne e a tutte le soggettività che il patriarcato rifiuta e vuole rendere subalterne trattandole come oggetti destinatari di servizi e non come soggetti che si autodeterminano.” (p. 170) Per adesso questi spazi di esistenza e resistenza, “luoghi non sregolati, ma governati da altre regole”, appunto esistono e resistono. Anche se non sappiamo per quanto, ci ricorda amaramente l’autrice.
Gaia Leiss in DWF (120), In movimento. Conversazioni politiche, 2018, 4