Il volumetto curato da Roberto Maier è la traduzione di due scritti del filosofo Jean-Luc Nancy, usciti in Francia nel 2004 con il titolo Résistance de la poésie e interessanti per le pensatrici appassionate al senso e alle forme di resistenza politica. Pubblicato originariamente in Italia su sollecitazione di Angela Putino, Nancy – uno dei maggiori esponenti del decostruzionismo insieme a Deridda – è da tempo vicino a tematiche proprie del pensiero politico delle donne, dal concetto di comunità all’importanza dell’esperienza del corpo (dopo un trapianto cardiaco, il filosofo ha continuato a vivere grazie al cuore di una giovane donna). I due scritti proposti (ma per il secondo questo termine non è particolarmente pertinente, trattandosi di un’intervista) risalgono alla metà degli anni ’90. È forse per questa discrasia temporale che la scelta del titolo italiano sancisce un deciso cambio di prospettiva rispetto a quello originale, dove la poésie, oggetto del ragionamento, è decentrata come genitivo soggettivo di Résistance, diventando dunque soggetto del ragionamento. Al contenuto del volume è demandato il compito, per chi legge, di stabilire se quella della poesia sia una delle possibili forme di resistenza o se, viceversa, la stessa esistenza della poesia sia una resistenza, anzi la resistenza, l’unica possibile.
Per comprendere quale sia la minaccia al cospetto della quale la poesia si erge come custodia (ciò che preserva e nasconde) e per sostanziare l’identità tra esistenza della poesia e resistenza, occorre precisare l’accezione con cui il termine è usato: «si dice poesia tutto ciò che vi è di elevato e di toccante in un’opera d’arte, nel carattere o nella bellezza di una persona e persino in un prodotto della natura» (Nancy accoglie la definizione fornita da Littré nel suo Dictionnaire de la langue française, Hachette, Paris, 1863-1872). Tale accezione avvicina moltissimo la parola “poesia” alla parola “senso”, essendo quest’ultimo l’esito del sentire, del percepire con i sensi facendosi appunto toccare e, conseguentemente, il movimento verso ciò che questo tocco ha generato (da qui l’accezione della parola “senso” come ‘direzione’). Il poièin – il fare, il costruire – è ciò che tocca, e preserva, ciò che ha toccato; si configura pertanto come l’unica via di accesso al SENSUS. Questo percorso, implicito nel ragionamento di Nancy, viene dato senza essere ricostruito; ma al medesimo procedimento sono sottoposte altre parole chiave del discorso, probabilmente perché l’autore avverte l’esigenza di insistere su ciò che minaccia il senso (“il facile”, cui si oppone “il difficile” della poesia) e sull’eccesso costituito proprio dal senso, raggiungibile attraverso la resistenza della poesia: «ciò che, nella lingua e della lingua, annuncia e rimanda a più della lingua […] l’articolazione che precede la lingua in se stessa».
La riflessione di Nancy sembra perseguire in modo privilegiato un’istanza di decostruzione del facile, inteso come univoco, meccanico, falsamente risolutivo e dunque escludente, gerarchico, inespressivo. Questa decostruzione sicuramente aiuterebbe a togliere un po’ di vigore a quei critici del pensiero femminista che si limitano a liquidarlo come ‘difficile’. Nella prospettiva che propongo, tuttavia, è ancor più utile tornare ad alcuni dei suoi elementi costitutivi (le “parole chiave”, date ma non spiegate dall’autore), a partire dalla considerazione, più volte ribadita nel libro, che l’accesso al senso avviene tramite la parola esatta (anche taciuta, se vogliamo conservare l’accezione ampia di Littré) della poesia: essa «afferma l’accesso non tanto nell’ordine della precisione […] ma nell’ordine dell’esattezza». Questi due termini, riduttivamente usati come sinonimi, individuano in realtà due azioni differenti, se non opposte, che possono essere efficacemente riprese dalla critica femminista alla cultura patriarcale dominante, a una struttura che non le prevede e le cancella.
PRAEC?DO significa ‘taglio davanti’, vale a dire in base a un criterio gerarchico che acutamente Maier, nella sua introduzione, individua nell’eccellenza – da EXCELLO, ‘sovrasto’. L’eccellenza, infatti, pur oggi sollecitata da molte politiche pubbliche per l’istruzione, è l’esclusione dettata dalla smania competitiva di emergere su un qualcuno, la cui unica funzione è quella di legittimare il soggetto che, appunto, ‘sovrasta’. Il verbo ?GO, ‘condurre’, e il suo composto EX?GO, ‘condurre a termine, a perfezione’ configurano invece un’azione collettiva che implica un movimento, un coinvolgimento (pensiamo anche all’accezione di esigere come ‘richiedere’, ‘pretendere’); conseguentemente, solo la parola esatta della poesia consente l’accesso, lo spingersi avanti dopo che qualcosa ha ceduto, l’arrivare, e anche (accezione documentata nel verbo latino) il partecipare.
L’approdo al SENSUS, ‘ciò che si è fatto toccare’, determina un ulteriore movimento, l’EXCESSUS, ‘l’inoltrarsi’, ‘l’elevarsi’; e la poesia è proprio «tutto ciò che vi è di elevato e di toccante». Ma affinché “elevato” e “toccante” siano parole esatte, raggiungano il loro SENSUS, è necessario sottolinearne la potenzialità inclusiva generata dal movimento collettivo da cui nascono, in opposizione alla staticità discriminatoria e definitiva della precisione e dell’eccellenza. È su questo punto che la riflessione di Nancy presenta le maggiori contraddizioni, non approfondendo le sue stesse intuizioni e limitandosi alla dimensione circoscritta del “punto di partenza” e del “punto di arrivo” (pur complesso e difficile). Al movimento inclusivo e collettivo suggerito (ma non sviluppato) dal filosofo si attagliano senz’altro maggiormente i ragionamenti molto vicini al pensiero politico femminista che pongono al centro le pratiche, esito di quell’applicazione che è propulsione, conduzione, ma anche fatica del richiedere, del pretendere: l’esattezza, appunto.
Valentina Russi in DWF (114) Escursioni. Scritti femministi oltre confine, 2, 2017