Un tempo per ritrovarsi nell’unicità dell’altro/a.
Nella Torre l’estate non comincia mai. Li è ubicato l’ospedale dove Ida Ragone, protagonista del romanzo di Caterina Venturini, è stata chiamata ad insegnare lingua e letteratura italiana. Ida è sempre nuova ogni anno. Ma questa volta ad essere nuovi sono soprattutto i suoi allievi. Non è il solito anno breve da docente precaria. Quest’anno è lei a dover imparare un differente codice di comportamento e nuove forme relazionali: camice bianco, soprascarpe blu, mascherina, lavoro di equipe con specialisti. Tutto è sottoposto ad un rigido regime di controllo e disciplinamento. A partire delle emozioni: non bisogna fare commenti, non bisogna improvvisarsi psicologi. Una docente ha una precisa area di accudimento che non deve oltrepassare, le viene ricordato: progettualità, valorizzazione degli allievi, comunicazione. Non c’è posto per i deliri di onnipotenza. E pure Andrea, Eta Beta, Franco, Sara, Sonia, Abdul, Chiara, Leyla, Marilù, Salvatore, Giulia, hanno una loro storia “irripetibile” tracciata non solo da una specifica condizione di salute, ma da momenti imprevisti e unici che proprio l’età dell’adolescenza riserva, scandita com’è da rumori assordanti, momenti di ribellione, dalle prime sbandate sentimentali, dalle prime esperienze sessuali. Un tempo irripetibile che, però, qui nella Torre è sospeso. Ad eccezione di qualche infrazione, come quella di Franco, una sera in fuga dall’ospedale per ascoltare il concerto di Sonia. Trasgressione di cui propria Ida Ragone è stata complice in uno di quei “deliri di onnipotenza” che l’hanno portata ad andare oltre le sue competenze professionali. Delirio di onnipotenza o impossibilità di uniformarsi alla rigida regola dell’equilibrio e del neutro, imposti dall’ortodossia istituzionale e ospedaliera, inerte e insensibile di fronte all’irregolarità delle emozioni e alla pienezza della vita? Soprattutto quando a reclamarla sono soggetti esposti alla vulnerabilità e imprevedibilità della malattia. Nella consapevolezza di essere irriducibili ad un ruolo, nell’oltrepassare la soglia tra etica del dover essere ed etica delle relazioni ci si ritrova nel gioco della sovversione delle parti, con l’infrangersi del senso del proprio, lo scompiglio del rovescio, l’emergenza dell’altro/a. Proprio le esperienze dei suoi allievi divengono lo specchio in cui Ida ritrae e ritrova se stessa. E come in una serie di specchi, le storie riflesse dei suoi allievi si confrontano, si sovrappongono, si narrano, trovando analogie in grado di colmare distanze che separano vissuti diversi, costituendo un’unità narrativa che si fa luce nel rapporto con l’altro/a e con un nuovo sé. In fondo la differenza “tra un sano e un malato, si chiede Ida citando Freud- sta solo nella maggiore intensità e frequenza con cui il malato è angosciato dai suoi conflitti”. La sua adolescenza, infatti, è stata segnata dal rapporto problematico con le figure genitoriali, dal problema del cibo, dall’anoressia, esperienza che ha convissuto insieme alla sua amica Elis, figura emblematica del suo groviglio esistenziale, dei suoi conflitti e turbamenti che Ida ripercorre attraverso la relazione con i suoi/sue allievi/e. Ma è proprio qui nella Torre che le acque un tempo torbide si schiariscono maggiormente, spazzando via i modelli adolescenziali, cui Ida confessa di essersi sempre sentita estranea. La paura del rischio e del rimpianto per scelte mai compiute si dissolvono alla luce di prospettive differenti e di nuove attese. “Nonostante la noia e la quotidiana nostalgia di orizzonti lontani”, la rinuncia al sogno di diventare una studiosa poliglotta in giro per le università straniere è compensata dal sapore di un progettualità quotidiana da affidare nella mani dei/delle suoi/sue ragazzi/e. Qui nel suo “Anno Breve” la donna e docente Ida Ragone rinarra se stessa e si ritrova “tutta intera”, rintracciando il senso della vita. Un evento reso possibile da uno sguardo femminile sul mondo coltivato attraverso la lettura e lo studio di “scritture femminili” e di autrici con cui è in costante dialogo. Prima fra tutte Alice Ceresa, oggetto della sua tesi di dottorato, la cui pubblicazione è continuamente ritardata per il rifiuto di sottostare a norme editoriali ed accademiche che le impongono di amputare parti vive, note, che hanno una loro storia e che spesso riescono a catturare la fluidità e la fuga di una trama. “La figlia prodiga” di Alice Ceresa diviene la cifra esistenziale, dell’attesa, della smentita costante dell’eterno “ordine dell’uguale”, di quei margini che Ida non vuole lasciar andare ma rinvenire e riscrivere. Una pratica politica a cui non nessuno può sottrarsi, nemmeno Mario, compagno conosciuto in occasione del G8 di Genova 2001, l’ultimo luogo simbolo in cui la generazione dei trenta-quarantenni ha ritrovato e smarrito allo stesso tempo una storia collettiva da raccontare. Sullo sfondo di questa consapevolezza si dipana la loro relazione d’amore, esposta all’inesorabilità di tempi incerti e indefinibili, inquinata da visioni politiche ormai lontane, la cui inconciliabilità Ida spera di poter superare nella convinzione o forse semplicemente nell’attesa di un cambiamento radicale o di una storia comune da poter ritrovare.
Angela Ammirati in DWF (110-111) Europa. Ragioni e sentimenti, 2-3, 2016