Quello che colpisce in positivo del libro di Irene Strazzeri è la postura teorica. Definire la fine di un ordine simbolico come il patriarcato non è opera semplice, ma si può, in tutta onestà, tentare di descriverne l’agonia, il lungo momento di passaggio che stiamo vivendo in quattro mosse : sintomi, passaggi, discontinuità e sfide. Sono questi i titoli del capitolo del libro che si avventurano nella «periferia del patriarcato» raccontando lo scenario nelle «nuove frontiere del femminismo».
Il punto di partenza, quello sì, è chiaro e Strazzeri lo individua così: «il patriarcato in quando fonte di legittimità dell’ordine sociale, politico e sessuale contemporaneo è in via di esaurimento. E’ impossibile argomentare, razionalmente e politicamente, la superiorità del maschile sul femminile, senza andare incontro a clamorose smentite. Altrettanto difficile sarebbe avallare l’attuale sistema di dominio maschile, come sistema universale di rappresentanza/rappresentazione e organizzazione della società, per lo meno di quella occidentale». Siamo a questo, il presente della crisi (parola ombrello, non priva di mistificazioni e inganni) non permette a nessuno di continuare a pensare al maschile in termini di superiorità e di universalità. La ormai lunga storia della presa di parola femminile ha spazzato via definitivamente l’antico sistema di dominio, ma quello che resta, incrociandosi con un passaggio d’epoca complessivo, è un paesaggio da percorrere e ripercorrere, senza evitare contraddizioni, disordini e fraintendimenti. Il più importante è quello che gira intorno alla parola femminilizzazione, un «paradigma emergente» che ha rischiato di creare nuove trappole per il protagonismo delle donne, ri-confinandole o obbligandole nuovamente a interpretare il ruolo di «altre» nella scena sociale, senza prendere in considerazione i mutamenti reali, le trasformazioni avvenute definitivamente. Negli ultimi anni si è parlato a lungo di femminilizzazione riferendosi soprattutto al mondo del lavoro, non solo per indicare la massiccia presenza delle donne ma per descrivere – più o meno ottimisticamente – l’avvenuto cambio di marcia del sistema economico, capace oggi di mettere a valore (e a profitto) tutto quello che, del femminile, sembrava creare ostacoli nei meccanismi della produzione. Le «competenze femminili» tradizionalmente descritte come eccedenti in un mondo del lavoro descritto dal fordismo come razionale, efficiente, regolatore, sarebbero diventate nell’economia della conoscenza e delle pratiche linguistiche, valore aggiunto. In un sistema che scricchiola e va tenuto insieme, le storiche competenze femminili cresciute nel margine della casa, della relazionalità e dell’affettività, sarebbero diventate improvvisamente preziose. Capaci di generare, curare, proteggere, dare e ri-dare vita, le autrici femminili della storia avrebbero potuto trovare un posto d’onore come fattore D dell’economia o come motori di una salvifica womeneconomics. Strazzeri è brava, sulle orme di studiose a lei vicine, in Italia Anna Simone, a svelare l’ipocrisia di questi passaggi e il rischio, già corso, di collocare le donne in circuiti perversi in cui alla capacità di rigenerare contesti e organizzazioni di lavoro, non viene restituito l’equivalente in termini di reddito e di diritto. Sessismo democratico, si può chiamare così la recente ideologia che neutralizza le esperienze di discontinuità tentate dalle donne nella concretezza delle scelte, anche quelle politiche, «prima fra tutte – dice Strazzeri – la rivoluzione femminista». E’ da qui che bisognerebbe ripartire per compiere i sentieri interrotti su cui ha portato riconoscimento della differenza. Ma le sfide, per quella politica femminista che ritiene sensato superare ogni universalismo, sono molte. Strazzeri ne indica alcune: storicizzare il percorso femminista e prendere le distanze da una descrizione che va dall’esclusione all’inclusione. E’ tanto più sensato fare l’opposto «invertire la descrizione, partendo dalle fasi confliggenti del femminismo, anziché da quelle linearmente susseguenti». Questo permetterebbe di accordarsi più sensatamente con i bisogni del presente, fra questi i più urgenti sono quelli di arrivare a un femminismo trasnazionale, in cui far giocare l’idea di differenza a più livelli, evitando di pensare al femminismo occidentale come la strada maestra, provando invece ad integrare le moltiplicazioni delle storie, delle culture e delle appartenenze. Questo passaggio, che prende sul serio le critiche rivolte dalle studiose dei Subaltern Studies, permetterebbe di superare i limiti più evidenti sia delle politiche dell’uguaglianza inseguite dalle strategie Gender Maintreaming, che di fatto istituzionalizzano le disparità fra i generi, sia le politiche dell’identità che, pur riconoscendo e promuovendo la specificità della libertà femminile, ha prodotto scarsi risultati in termini di abbattimento del dominio materiale degli uomini sulle donne. Ampliare lo sguardo a una pluralità di questioni che si intrecciano con la differenza femminile, non separare le questioni identitarie da obiettivi collettivi, includere le dimensioni della povertà, dell’etnia, dell’appartenenza religiosa, rendono la sfida femminista un progetto più complesso ma riapre la partita della modificazione delle vite materiali aggiornandosi con il presente. «Il vero compromesso da realizzare è con un nuovo ordine discorsivo, multiculturale e multilinguistico che richiede l’esercizio costante della traduzione e l’arte di interloquire con le differenze».
In questo le nuove strategie teoriche, praticate da autrici come Butler, incentrate sulla performatività, permettono itinerari che aprono a «una sorta di rivoluzione permanente della pratica democratica» : niente si fissa per sempre o si cristillizza in definizioni rassicuranti e serializzate. Il superamento del patriarcato si accompagna in questa prospettiva alla capacità di negoziare e rinegoziare continuamente le forme e i contenuti delle demarcazioni di genere. Per delegittimare l’ordine imposto dal patriarcato, il suo sistema di norme implicite ed esplicite, la strada della performatività permette a tutti, uomini e donne, di praticare un progetto identitario basato su un’accezione radicale di autonomia e di autodeterminazione in cui «l’autorizzazione a trasgredire» e a «non disciplinarsi» apre lo spazio per una politica che non si incardina sulla «richiesta di diritti» ma ne promuove di nuovi e di impensati.
L’orizzonte tracciato da Strazzeri non manca di soffermarsi sulle recrudescenze prodotte dalla transizione agoninizzante dell’ordine patriarcale, prima fra tutte la violenza di genere, descritta come patologia del sociale, come sintomo cioè della crisi di una politica basata, tradizionalmente, sul governo dei corpi e sull’irrigimentazione delle soggettività.
Il libro si chiude sulla ripresa di un tema caro a Luisa Muraro, quello dell’autorità femminile. Se l’autorità come afferma Muraro «è sempre stata il fattore simbolico dell’ordine sociale», l’autorità femminile, fondandosi sulla relazionalità e mirando a un ordine alternativo a quello del potere, può aprire la strada non soltanto alla realizzazione del riconoscimento profondo del contributo delle donne alla storia del presente ma rivelarsi essenziale per la creazione di un mondo fondato sulla comunicazione, sul «rendere-comune».
Sandra Burchi in DWF (109) Fino all’ultima riga/2, 1, 2016