Dieci donne. Dieci storie. Dieci voci che raccontano un’esperienza di lavoro ancora poco esplorata nell’era dei corpi fusi alla tecnologia: lavorare in/da casa. Esperienza che assume contenuti differenti e multiformi, ma che si inscrive in un contorno – rigido e flessibile insieme – qual è quello delle mura domestiche. In questo libro Sandra Burchi raccoglie le testimonianze di donne che hanno scelto di “ripartire da casa”, con un lavoro che richiama e allo stesso tempo respinge quella “domesticazione” che ha trasformato le donne in naturali guardiane del focolare. «Continuiamo a pensare che la casa sia un luogo separato, protetto, chiuso, in cui agiscono logiche completamente diverse da quelle imposte dalla razionalità della sfera pubblica» (p. 25), mentre oggi, nel tempo della precarietà e della scomparsa del lavoro formale, la casa può trasformarsi in un sito di resistenza per competenze e abilità che il mercato non valorizza.
Protagonista di questo testo è proprio la casa, come luogo di transito in cui le donne si costruiscono uno spazio e un tempo altro: ci troviamo di fronte a case-ufficio e case-laboratorio, dove lo spazio e il tempo non aderiscono alle misure sociali, quelle del lavoro formale, né tantomeno a quelle private. Le dieci donne intervistate abitano la propria casa e vivono il loro lavoro con la libertà di chi “pratica i margini”, un posizionamento di dentro-fuori le mura domestiche, storicamente riconosciuto alle donne, che si presenta oggi con domesticità del tutto innovative. I lavori (re)inventati da queste donne non hanno niente a che fare con il “lavorare la casa”: lavorano in casa, per un progetto autonomo e indipendente, o da casa, per clienti e committenti. Giornaliste, grafiche, organizzatrici di eventi, coltivatrici, artigiane, traduttrici, blogger, cooperanti, arredatrici, ricercatrici che hanno scelto di crearsi un’impresa tutta per sé o che si sono trovate a dover lavorare in casa, si confrontano con una ristrutturazione quotidiana dei confini dentro-fuori: le nuove domesticità sono infatti contaminate dalle tecnologie della comunicazione che creano legami innovativi tra l’interno e l’esterno – la mediatizzazione estesa, come la definisce l’autrice – permettendo da una parte che la domesticità si estenda al di fuori dello spazio domestico, dall’altra che l’esposizione volontaria del privato al di fuori della casa trasformi l’identità domestica stessa.
Quest’opera, una sorta di fenomenologia del lavorare in casa, ci permette di analizzare il progressivo sgretolarsi del confine netto fra produzione e riproduzione, fra privato e pubblico, già abbondantemente teorizzato negli studi sul biocapitalismo, attraverso le vite concrete. La sfida che l’autrice raccoglie è rintracciare il «punto di intersezione fra gli esiti del processo di de standardizzazione delle forme di lavoro e l’avvio di pratiche e di sperimentazioni che partono come risposte, adattamenti e soluzioni transitorie ma finiscono per individuare una strategia, non solo individuale» (p. 15). Strategie che chiamano in causa spazi, tempi, corpi e organizzazione, nodi che si dipanano in capitoli dedicati, dove si nomina il conflitto, il desiderio e l’isolamento.
Il conflitto si consuma prevalentemente negli “spazi dentro”. Come distinguere i sensi da assegnare allo spazio: la casa, luogo della riproduzione del quotidiano, e l’ufficio, luogo di produzione? Le strategie si individuano in una sorta di microprogettazione spaziale che rompe il sistema di identificazioni e naturalizzazioni che lo spazio-casa costruisce, trasformandolo in uno spazio di conquista, in cui sentirsi – anche solo temporaneamente – padrone di sé: per l’investimento che si mette nel progetto, per il desiderio di vederlo crescere, per la vittoria sulla liberazione di uno spazio che ha una forte carica normativa, per la gioia di sfuggire all’identificazione tradizionale che quello spazio assume. Un progettazione che investe anche le altre estensioni spaziali, lo “spazio fuori”, vissuto nella maggior parte dei casi come luogo degli incontri e delle relazioni in presenza, contro lo “spazio web” che ha la potenza della connessione con il mondo, ma che espone al rischio di una perdita di percezione, di tempi e corpi, di una misura.
La crisi della misura, profondamente interna al sistema attuale di lavoro, è uno dei punti che Burchi porta all’attenzione: individuare un sistema di equivalenze tra porzioni di tempo lavorate e porzioni di salario può essere inefficace a calcolare tutto il lavoro necessario alla realizzazione di un prodotto, in particolare quando si tratta di lavoro creativo. Quello che si richiede è una gestione autonoma e auto diretta del tempo, ma risulta difficile trovare un tempo ordinato quando si lavora in casa: alla difficoltà nel tenere il ritmo in solitudine si accompagna il grande rischio di invisibilità della quantità di lavoro priva di un sistema di misurazione. Razionalità, ritualità o misuratori automatici, ciò che conta è «riconquistare “una signoria sul tempo di vita” per usare la felice espressione di Carmen Leccardi […] la soluzione adottata non solo per fronteggiare l’incertezza e la difficoltà di prevedere il futuro, ma per resistere nel presente, imparando da una parte a distribuire nel tempo le cose da fare, dall’altra a “liberare” il tempo da questa pressione» (p. 110).
Organizzarsi diventa un lavoro nel lavoro, con invenzioni quotidiane e “geografie organizzative” che rompono uno schema e sfidano il senso comune sul binomio casa-lavoro, pur esponendo i corpi agli «effetti perversi di un sistema economico che incoraggiando l’investimento di sé nel lavoro sfrutta proprio gli elementi che hanno reso irrisolto il tradizionale rapporto delle donne con il mondo del lavoro: l’attitudine alla relazionalità, alla cura, alla gratuità» (p. 144). A chi sostiene che nel capitalismo contemporaneo gli elementi di soggettività e di passione immessi nel lavoro sono proprio quelli cui si fonda la capacità del sistema economico di fare profitto, l’autrice risponde: «Mi sembra però che in quel dare il “depotenziamento del femminile” come già avvenuto, ci sia una perdita ancora più grande degli svantaggi misurati sulle esistenze (i pochi diritti, i pochi soldi, la totale incertezza e precarietà), tutti svantaggi evidenti, fin troppo noti. Mi piacerebbe poter dire che la violenza di quello che abbiamo imparato a chiamare “biocapitalismo” si arresta proprio sulle capacità dei soggetti di decidere di sé, di trovare – pur nello svantaggio – forme di autogoverno, di autodeterminazione» (p. 23).
Negoziare – con se stesse, con la famiglia, con i committenti – diventa allora una strategia per evitare l’autosfruttamento, ma anche per combattere il “lato oscuro” che viene ben raccontato: il peso dell’isolamento, il “vuoto emotivo” che nasce dalla nostalgia della presenza dell’altra/o. E’ forse proprio per questo che tutte, pur riconoscendo nel loro lavorare in/da casa quella stabilità di desiderio e soddisfazioni che il lavoro formale non permette, cercano “un fuori”.
Teresa Di Martino in DWF (103-104) Tutta salute!, 2014, 2-4