Capita spesso che a forza di scrivere recensioni si acquisti una certa “praticità” nello svolgere il proprio compito, nel valutare un volume. Tra recensioni, commenti e riletture, dopo un po’ si “impara il mestiere” e ci si rende abili nello schermare le reazioni immediate attraverso accorgimenti, formule, astuzie retoriche. Col tempo, insomma, si perde la spontaneità. A volte però capita di avere tra le mani un libro capace di farti tornare al momento di partenza, di spaesarti al punto che devi ricominciare quel percorso da capo. Per poterne parlare devi tenere conto delle emozioni e delle riflessioni con cui ti ha travolto. Per poterne parlare, devi partire anche da te.
Le donne della cattedrale è un libro vivo. Vivo e intenso. Troppo intenso. Così intenso che senti di doverti fermare, più e più volte, durante la lettura, anche se non vorresti smettere e non ti riesce di staccare gli occhi dallo scorrere delle parole. Ti senti immersa in una storia che è un po’ anche la tua, Ma è troppo, troppo pieno. Devi fermarti, respirare, chiudere il libro, mettere su il caffè. Devi fermarti per non esserne travolta.
È un romanzo strutturato su più piani, che corrispondono a voci e prospettive diverse. Nomi di donna scandiscono i capitoli e le esperienze che ruotano attorno alla protagonista, Mara, e alla sua scoperta della politica tra donne. Un racconto, quello di Mara, la cui balbuzie è molto più di una metafora, che traccia le linee di un’odissea politica, alla ricerca di luoghi e relazioni che non soffochino, non blocchino, non paralizzino. Dopo l’improvviso abbandono del padre, punto di riferimento e fonte di ispirazione, Mara si ritrova sola con la madre, che percepisce come soffocante, che non capisce, con cui non parla. Decide di partecipare al G8 a Genova, uscendone devastata fisicamente e moralmente. Da lì, dal profondo vuoto che non riesce a riempire, si avvia un percorso che la porterà all’attivismo nella Kalsa palermitana e alla politica di Zeta, centro sociale occupato, dove incontra e si scontra con il pensiero femminista delle “Estranee”, fino all’incontro imprevisto con un gruppo di donne senza tetto che occupano la Cattedrale per protesta.
È il racconto di molte storie, che tiene insieme vite, esperienze, provenienze ed urgenze diverse. Molti nomi, molte donne, molte vite che si incontrano, si scontrano, si legano, si slegano, tessono trame salde ma non definite.
È il racconto di un’occupazione nel cuore di Palermo. Un’occupazione di donne che da principio non si conoscono, ma sono spinte ad un’azione comune da un’urgenza individuale ma condivisa, che le porta infine alla politica, al fare insieme. Il rapporto con la città che questo gesto politico disegna è un legame profondo, che non si esaurisce nell’urgenza abitativa, ma diviene modo nuovo per guardare alle strade, alla cattedrale, alla città tutto intorno ad essa. È una città viva, che trova nutrimento nei gesti e negli scambi che ogni giorno si intessono al suo interno. L’occupazione apre queste donne alla politica, e da espressione di un bisogno essa diventa il luogo per pensare e per vivere (p. 114).
È il racconto della precarietà che schiaccia le esistenze. Una precarietà pervasiva, i cui effetti sulle vite dalla sfera del lavoro si muovono piano, fagocitando il senso di sé, facendo un vuoto, un buco allo stomaco che né i bignè di Mara, né la politica senza desiderio riescono a colmare (p.77). «A voi non c-capita mai di sentire un bruciore, ma non è per f-fame? Cioè…voglio dire…p-per essere fame è f-fame…ma di qualcosa che n-non sai, e così n-non sai nemmeno come f-fare per c-calmarla questa c-cosa che a f-furia di scendere e r-risalire d-diventava un grumo e spinge» (p. 21).
È un racconto di relazioni tra donne. La storia è plasmata e modellata dalle vicende che queste relazioni innescano avvicinandosi, allontanandosi, scontrandosi, creando vuoti, riempiendo buchi. Sono storie che intessono disegni variopinti, affascinanti, vibranti, ma difficili da interpretare, difficili da oggettivare. Come le tele utopiche di Gabriella, la mamma di Mara, le relazioni tra donne danno vita a disegni “senza capo né coda”, non interpretabili, non univoci, dove non conta altro che l’intreccio stesso.
È un racconto di corpi, vivi e potenti: presenti per intero sulla scena, raccontati attraverso sensazioni, piccoli particolari, parole e silenzi. Sono corpi di cui si racconta l’indocilità ma anche la fatica, il rifiuto di obbedire ciecamente ai modi e alle regole della politica, soprattutto quando questa non si lega ad un desiderio pieno che nasce da te. Il corpo che si paralizza, che si blocca, che è indocile nei confronti dei nostri stessi piani, ci rivela una verità più grande, che non riusciamo a vedere, su ciò che ci circonda e sulle nostre scelte ed azioni politiche. A Genova, il corpo non reagisce, non risponde (pp. 42 e sgg). La voce soffoca, mentre si vorrebbe urlare. Ovatta nelle orecchie. Tutto intorno il fuoco, le urla, gli scontri, l’odore acre: il corpo rimane fermo, come non fosse lì, come se avesse deciso che quello non è il luogo, non è il modo di stare al mondo. Un corpo che ha le sue ragioni, di cui la politica deve, ma spesso non sa, tenere conto.
È il racconto di una nascita alla politica, e di quel radicamento profondo nel desiderio che non si può spiegare se non con un tentativo di dare parola al corpo. Ma è anche il racconto di diverse anime e modi del fare politica che si incontrano e scontrano. Il corpo, la politica: la difficoltà di trovare delle pratiche che soddisfino bisogni, rispondano ai desideri e ci colgano per intere, come soggettività incarnate, senza guardare ai nostri corpi come a silenziose appendici, limiti al nostro desiderio più ampio. Attorno a noi, pratiche già date: le piazze, le manifestazioni, gli scontri. Come trovare il modo per radicare queste pratiche nella nostra vita materiale, nella lentezza dei suoi ritmi rispetto alle dinamiche della politica? Come stare in rapporto alla politica mista, a volte tutta maschile, alle dinamiche interne della militanza nei movimenti e negli spazi collettivi? Soprattutto, come collocarci rispetto alla militanza aderente alle logiche dei partiti, all’ideologia che non sa tenere assieme bisogni e desideri, alla politica la cui posta in gioco si colloca all’esterno, sempre all’esterno, tra voti, rivoluzioni e partito, e non si radica mai nel desiderio stesso di politica? Cosa accade nell’incontro con una politica diversa, che sul desiderio si centra e che non ha programmi politici, né teorie, ma «un pensiero che nasce da dentro»? La storia di Mara, e del suo spaesamento nell’incontro con il pensiero femminista, racconta un pezzo di esperienza che accomuna più di una donna. L’incontro con una politica che lavora sul simbolico, sul presente, non su idee astratte e universali di uguaglianza o giustizia sociale, o «sul futuro del verbo essere», fa vacillare, fa dubitare (pp. 85-86). A volte fa paura. Ed è su questo punto fondamentale che il racconto apre a uno dei nodi cruciali per il movimento femminista, soprattutto oggi, in cui la dimensione della politica mista e della militanza femminista arrivano per alcune ad intrecciarsi, tra idiosincrasie e disillusioni. Ma soprattutto, permette di aprire il discorso alla questione del rapporto tra donne che hanno scoperto il femminismo e ne hanno fatto uno strumento di libertà e le donne che provengono da altrove, lo hanno appena incontrato e hanno voglia di viverlo. Spesso in questo incontro sorgono difficoltà che allontanano, deviano, frustrano, schiacciano sotto il peso della genealogia. Innanzi tutto, il partire da sé che rischia di entrare in collisione con le urgenze della lotta comune della politica mista. «La politica del simbolico non contempla i bisogni primari»: il paradosso di un pensiero dell’esperienza che troppo spesso rischia di dimenticare la dimensione materiale delle vite, e non sa tenere sempre assieme urgenze e genealogie, laddove la politica delle donne, che non può ovviamente esaurirsi nel puro bisogno, deve saper tenere insieme i vari piani dell’esperienza di una donna, consapevole del fatto che quando ci si sradica dai bisogni in modo violento essa rischia di divenire ideologia. La politica delle donne deve saper tenere insieme tutto. Nella storia di Mara si ritrovano le difficoltà legate a un certo modo di intendere il femminismo che, soprattutto in alcuni ambienti, tende a chiudersi in una dimensione puramente teorica: questo, come nella storia di Mara e le Estranee (il cui nome evoca una setta più che un gruppo di donne che pensa e dialoga assieme), può rivelarsi escludente, frustrante, depotenziante. Le parole divengono dogmi, il pensiero si irrigidisce nell’essenzialismo (p. 90). Il femminismo, quando diviene ricetta pronta, provoca rifiuto, allontanamento, o il «F-fanculo!» di Mara rivolto alle Estranee.
Ecco la potenza de Le donne della Cattedrale: il libro parla di altre, eppure parla di te: della politica che fai, del motivo per cui la fai e dei dubbi e dei problemi per cui a volte vorresti lasciare tutto. Ma parla anche di quella forza che senti dentro e non sai spiegare, che ti porta alla politica con le altre donne non sai bene perché: in fondo i rapporti sono difficili, niente è mai stabilito, non ci sono dogmi o regole su cui appoggiarsi e tutto è fluido, tutto è mobile, tutto è così potente e delicato a un tempo.
Federica Castelli in DWF (101) Fuori di noi. Le parole del femminismo, 2014, 1