Come un paesaggio pratica la pratica del femminismo in almeno due dei suoi aspetti fecondi. Uno è ciò che definirei l’asistematicità che giunge all’essenziale: il libro è un accostamento di voci differenti che suggeriscono molteplici direzioni in cui guardare e in cui pensare, per scoprire linee di tensione non superficiali che caratterizzano e modellano il nostro presente. L’altro è la consapevolezza che il pensiero di donna è pensiero per tutti. Una giusta pretesa che l’esperienza storica femminile salva da ogni sospetto e ogni pericolo di cieco universalismo. Il femminismo sa che un pensiero autenticamente radicato nelle condizioni e nella materialità del corpo che lo genera può essere pensiero dell’infinito – secondo la formulazione usata da Federica Giardini nella prefazione – senza però pretendere di essere pensiero universale.
Merito di questo libro è poi mettere in luce una questione centrale, che tuttavia resta quasi costantemente esclusa dal dibattito istituzionale e mediatico sulla questione del lavoro: la profonda interdipendenza e connessione fra il modello di cittadinanza e il modello di economia e produzione nei quali viviamo. Fra il politico e l’economico. “Un ordine sociale libero non può essere un ordine contrattuale” (p. 23), scriveva Carol Pateman già nell’89, e qui lo ripete. A partire dall’epoca moderna l’occidente fonda il suo concetto di libertà su quello di proprietà della persona – “un’astrazione incapace di rendere conto della concreta corporeità umana” (p. 27) –, sulla possibilità, e sull’obbligo, di disporre di sé come di un qualunque oggetto, immaginandosi completamente indipendenti: individui. Si è liberi quando si può vendere la propria forza lavoro, in un processo lungo il quale il lavoro rompe sempre più radicalmente i suoi legami riconoscibili con i bisogni concreti della vita, e si aggancia invece alla possibilità di ottenere lo status di cittadini: l’accesso a quelle garanzie democratiche che, nota ancora Pateman, paradossalmente sanciscono come diritto il voto, ma non la sussistenza. La perfetta indipendenza però è una fantasia maschile. Nonostante l’indubitabile potenza di tale rappresentazione i fatti non si piegano ad essa. “Il lavoro domestico è stato il presupposto materiale non riconosciuto del patto fordista” (p. 162) scrive Eleonora Forenza: allora l’esperienza femminile può essere il punto di vista dal quale togliere credito alle equazioni lavoro-impiego e lavoro-denaro che dominano il nostro immaginario per quanto false. Come sottolinea Ina Praetorius accade infatti nella realtà che una percentuale molto alta delle attività necessarie alla vita non siano remunerate, mentre molte di quelle remunerate siano inutili quando non dannose. Per questo Praetorius esorta a tornare al significato originario della parola economia, all’idea di “regola della casa”: insieme di pratiche volte alla soddisfazione dei bisogni legati alla conservazione e alla riproduzione della vita.
Di tutto questo, ma non solo, ci parla questo libro. Non mancano infatti interventi con un approccio storico, come quelli di Antonella Faucci e Alessandra Gissi, che ricostruiscono rispettivamente l’evoluzione giuridica del diritto del lavoro dalla Costituzione in poi, e l’evolversi del posizionamento femminile rispetto alla questione dell’occupazione. Come pure non mancano riferimenti al dibattito sui mutamenti del panorama del lavoro legati al cosiddetto passaggio al post-fordismo, e alla relazione fra questo passaggio e la “femminilizzazione” del lavoro. Sandra Burchi e Claudia Bruno, ad esempio, esplorano uno degli aspetti significativi dell’esperienza femminile nel nuovo panorama di espansione del lavoro cognitivo, spesso precario: la scelta di lavorare da casa. Un vertice ottico che permette di nominare domande importanti sul significato che diamo agli spazi e ai tempi nelle nostre vite, che parla con forza di quel progressivo sgretolarsi del confine netto fra produzione e riproduzione, fra privato e pubblico. Un processo ambiguo che, come sottolinea ancora Forenza, è agito sia dal neocapitalismo, nel tentativo di fagocitare sempre più estensivamente la vita dei soggetti, sia dai soggetti stessi come forma di resistenza e messa in gioco di nuove pratiche e nuovi desideri.
Nuovi panorami quindi si aprono davanti a noi in questi tempi di crisi e mutamento, come già il titolo scelto dalle curatrici suggerisce: panorami che chiamano nuove domande e nuove pratiche in grado di mettere in questione una rappresentazione del lavoro e di tutto ciò che ruota intorno ad esso che non corrisponde più né ai desideri né all’esperienza concreta. In quest’ottica Florence Jany-Catrice e Dominique Meda nel loro intervento problematizzano la questione del “benessere” e dei modelli di sviluppo discutendo i tentativi svolti negli ultimi decenni, anche a livello istituzionale, di costruire indicatori più complessi e vicini alla vita reale di quanto non sia il Pil. In quest’ottica Elena Doria ci racconta la sua esperienza con le società di mutuo soccorso, descrivendo una pratica di auto-organizzazione e resistenza di fronte allo sgretolarsi del welfare. C’è poi una proposta in particolare che nel testo ricorre, sostenuta da più voci (Pateman, Praetorius, Pizzolante, Forenza): quella del reddito di base incondizionato. Proposta controversa che le autrici qui però scandiscono in modo avvertito: non come misura di assistenzialismo paternalista, ma come strumento che, non prevedendo condizioni al diritto di sussistenza, possa mettere in questione il dispositivo di inclusione/esclusione che fonda l’idea di cittadinanza. E ancora come strumento in grado di veicolare la transizione a un diverso paradigma economico in cui l’attenzione sia focalizzata su bisogni e desideri e non su supposti meriti, in cui il denaro torni ad essere uno strumento utile e smetta di rappresentare una misura di senso e di valore simbolico. In un’ottica analoga, e tentando un’ulteriore apertura d’orizzonte, il contributo del collettivo Diversamente Occupate invita infine a reclamare un diritto universale di maternità. Pensare in termini di maternità dà valore all’esperienza di fare spazio all’altro da sé, e veicola il passaggio da un tempo produttivo a un tempo generativo, un tempo che consenta di “darsi possibilità, spazi di libertà, senza passare per lo scambio economico, ma attivando altre forme di scambio, di relazioni, di spazi condivisi” (p. 209). Un’idea che converge con quella espressa da Pina Nuzzo a proposito del grande potenziale di civiltà che scaturirebbe dall’accogliere il corpo fertile come “corpo che fa ordine” (p.131).
L’ottica in cui questo libro propone di guardare al lavoro è coraggiosa, complessa, attuale: c’è allora da pensare, parlare e agire perché essa possa diffondersi e contendere lo spazio pubblico alla vuota quotidiana cantilena che non conosce parole diverse da Pil, produttività, competitività.
Gaia Leiss in DWF (99) Confini (in)valicabili, 2013, 3