“Popolo chi?” non è un libro scritto solo da donne, né è un libro che parla di donne. E’ però un libro in cui le donne parlano. E quello che dicono o tacciono le protagoniste di questo lavoro interroga anche noi, femministe, donne impegnate nei movimenti per la libertà femminile.
Il libro nasce dalla esigenza, avvertita da un gruppo di militanti, di ricercatori e ricercatrici universitari, di indagare dentro quello che di questi tempi viene definito “popolo” e che generalmente viene descritto come arrabbiato, in preda a sentimenti di odio e di rancore, attratto e irretito da quanti ne sollecitano la pancia o, nella migliore delle ipotesi, disilluso e distante.
Di fronte alla crescita della polemica contro la politica e i politici, di fronte alla crescita degli odiatori virtuali e degli episodi di razzismo e antisemitismo, quei militanti hanno deciso di tentare di restituire la parola a uomini e donne, che del tutto diversi tra loro, per condizione, età, lavoro, livello di istruzione, condividono il fatto di vivere nelle periferie urbane del nostro paese.
Il libro ci racconta il risultato, elaborato da giovani ricercatrici e ricercatori universitari di scienze politiche e sociali, di circa sessanta interviste raccolte a Rome, Milano, Firenze e Cosenza. Non si tratta dunque di una indagine statistica, ma solo il tentativo di ascoltare, senza pregiudizi e preconcetti. Le interviste non sono finalizzate a disegnare una condizione concreta o a definire un qualunque quadro. Tendono al contrario a cercare di conoscere cosa quelle persone pensino di se stesse, come si definiscano, quali aspettative nutrano.
Il risultato non delude. Anzi stimola e interroga.
La ricerca infatti da contemporaneamente ragione e torto alle narrazioni mainstream. Emergono naturalmente dalle interviste i temi agitati dai politici e dai media, ma, come le autrici e gli autori sottolineano, ad un esame approfondito, l’idea di un popolo generico conquistato dal rancore o dall’indifferenza, appare del tutto semplicistica.
Il quadro che il libro delinea è però ugualmente, se non ancor più drammatico.
Le persone, in modo sorprendentemente uniforme, a Roma come a Milano, in Calabria come in Toscana, descrivono sensazioni di abbandono e solitudine, di costrizione alla competizione, di assenza di elementi collettivi di riconoscimento.
La guerra tra poveri esiste, come esiste la paura dell’immigrazione. Ma avversari non sono necessariamente gli stranieri, sono tutti coloro che potrebbero rendere ancora più precaria e difficile l’esistenza.
E’ la paura determinata dall’impoverimento, dal degrado dei servizi, dalla mancanza di lavoro. Nel libro non si trova cenno a nessun elemento di identità religiosa o nazionalistica. Tutto questo è mera sovrastruttura politicistica.
Come è sovrastruttura politicistica l’antipolitica, così come ci viene raccontata. Non è la politica ad essere disprezzata. Non c’è nessuna aspirazione partecipativa negata o compressa. C’è la profonda delusione e diffidenza verso i politici, considerati deboli servitori dei poteri economici, privi di autonomia e autorevolezza e perciò stesso, perché deboli, considerati privilegiati.
Mentre si prende atto dell’assenza di dimensione sociale e collettiva, si descrivono la politica e (ahimè) la sinistra come appartenenti a un mondo separato, impegnato a pensare e parlare solo di sé, lontano dai bisogni e dalle esigenze delle persone.
Contemporaneamente però emerge forte la domanda di una politica autorevole, capace di costruire speranza e di disegnare una visione del futuro, si chiede più stato, più presenza, persino più partiti. Si vorrebbe che chi governa non inseguisse le emergenze e non si nutrisse solo di propaganda e ricerca del consenso.
Proprio la mancanza di una capacità della politica di disegnare il futuro, produce in tutte le persone intervistate, anche nelle più giovani, una vera e propria incapacità di immaginare il futuro proprio e della propria comunità, di concepire aspirazioni, obiettivi per la propria esistenza.
Tutto ciò che accade sembra il frutto di eventi immodificabili, fuori di portata.
Le persone sembrano schiacciate sul presente.
Anche di fronte all’unico racconto che sembra esistere quella fornita dalla destra populista, l’identificazione di un nemico, l’immigrato, il politico incapace e corrotto, più che la rabbia sembra prevalere la rassegnazione, la mancanza di speranza.
E le donne? Le donne non parlano di sé, ma dalle loro parole emerge quel di più di solitudine e di domanda di senso tipica di coloro che più hanno a che fare con la vita di tutti i giorni.
Certo non emerge dalle interviste una volontà consapevole di emancipazione.
La doppia presenza, sempre più faticosa per il diminuire dei servizi, appare come una realtà ovvia, naturale, come inevitabile finisce per sembrare la rinuncia. Il lavoro precario, faticoso, occasionale, ha perso il proprio carattere di strumento di autonomia, almeno nella vita delle donne intervistate.
Nello stesso tempo, tutte le donne intervistate sono “naturaliter emancipate”. Nessuna rimpiange ruoli o funzioni del passato, nessuna racconta una vita da casalinga realizzata.
Il miscuglio di rassegnazione, domanda di politica buona, aspirazione a relazioni sociali significative e senso di solitudine e abbandono ci offre un’immagine di un popolo complesso, variegato, di cui le donne sono pienamente parte.
E anche i movimenti delle donne e il femminismo fanno parte dell’assenza della politica. Non sono presenti nella vita e neppure nelle aspirazioni di queste donne, che condividono i giudizi sulla politica e sui politici. Le donne che fanno politica non sembrano avere fatto la differenza.
Da questo libro, dunque, escono tante domande. La condizione delle donne è cambiata, anzi è arretrata e forse non ce ne siamo accorte; la vita delle donne è oggi attraversata da nuove oppressioni create dalle scelte di sviluppo liberista che hanno impoverito tanta parte dell’umanità; la loro libertà è contraddetta e minacciata. E, da ultimo, anche il femminismo politico condivide le sconfitte di tanta parte delle forze di cambiamento incapaci non solo di arginare i danni, ma di disegnare nuove speranze.
Tuttavia, gli autori e le autrici insistono nel dirci, e il recente movimento delle Sardine ne è l’ultima dimostrazione, che le persone aspettano bandiere concrete da innalzare, che restituiscano speranza e cambino le loro vite.
Giulia Rodano in DWF (123) #FEMMINISTE. CORPI NELLA RETE, 2019, 3