Quello che abbiamo tra le mani può essere agevolmente considerato un testo fondamentale, un punto di riferimento nell’analisi della nostra epoca. Una vasta bibliografia e tanti riferimenti teorici che vengono puntualmente analizzati per essere allo stesso tempo rimaneggiati e in qualche modo superati e arricchiti; un occhio lucido che scruta l’epoca contemporanea focalizzando l’attenzione sul periodo 2000-2013, quello della crisi economica occidentale: questi alcuni degli elementi che fanno di Femonazionalismo un testo imprescindibile per gli studi politici in chiave di genere.
È anche un libro ostico – non tanto nel linguaggio pienamente accessibile – quanto nella precisione e complessità del ragionamento che ci guida nell’esplorazione di quello che l’autrice ribattezza, appunto, “femonazionalismo”. Data l’innovazione terminologica, uno sforzo definitorio è d’obbligo. E dunque, il femonazionalismo – abbreviazione di nazionalismo femminista e femocratico – è da intendersi come la strumentalizzazione dei temi femministi e della parità di genere da parte di nazionalisti e neoliberisti nell’ambito delle campagne islamofobe e contro i migranti in generale. Ma anche la partecipazione di alcune intellettuali femministe, associazioni femminili e femocrate – ovvero rappresentanti delle organizzazioni governative per la parità di genere – alla stigmatizzazione degli uomini musulmani (e non occidentali) in nome dell’uguaglianza di genere.
Nel libro, l’autrice decide di concentrarsi su un preciso periodo storico – l’inizio degli anni Duemila appunto – e su un’area geografica limitata ma rappresentativa, ossia l’Italia, la Francia e i Paesi Bassi, tre paesi che – nonostante le peculiarità e la differente storia coloniale e migratoria – possono essere considerati un laboratorio europeo in cui questa convergenza inquietante e asimmetrica tra destra nazionalista, politiche neoliberiste e femministe/femocrate islamofobe si è articolata efficacemente. La continuità di alcuni elementi – che nel libro vengono saggiamente evidenziati, spezzando l’elencazione per paese delle politiche implementate nella cornice femonazionalista – permette di mettere in evidenza la natura transnazionale del femonazionalismo, pur ancorandolo alle specificità locali.
Chi converge dunque nel femonazionalismo, alimentandolo? Secondo Sara Farris, sono in primis le rampanti destre di questo secolo – il Partij voor de Vrijheid di Geert Wender nei Paesi Bassi, il Front National di Marine Le Pen, la Lega del nostrano Matteo Salvini – che, dopo l’11 settembre 2001, hanno alimentato la narrazione delle guerre imperialiste in Medio Oriente come una missione per liberare le donne musulmane dagli uomini musulmani. Al loro fianco, alcune note femministe, più o meno inserite nell’establishment, e gruppi femminili che hanno puntato il dito contro il sessismo delle comunità musulmane in contrapposizione a una supporta superiorità delle nazioni occidentali in tema di parità di genere. Vi risuona per caso il dibattito sul velo che ha acceso la Francia a metà degli anni Duemila? In questa chiave, le pratiche religiose islamiche vengono prese di mira in quanto più patriarcali delle altre e, in quanto tali, impossibili da legittimare in alcun modo nella sfera pubblica occidentale. Questo fronte femminista eterogeneo, ma compatto, ha alimentato la narrazione del sessismo e del patriarcato come tratti distintivi dell’Altro musulmano, rimanendo colpevolmente impermeabile alla visibilità e all’impegno pubblico crescenti di donne di seconda e terza generazione (sia musulmane che non) che hanno aperto vistose crepe nelle fondamenta eurocentriche del femminismo bianco occidentale. Ma c’è un terzo attore in questa convergenza che Farris nobilmente tira fuori dall’ombra, un burattinaio troppo spesso lasciato in secondo piano: il neoliberismo. La crisi economica, la fine dello Stato sociale per come è stato conosciuto dal Novecento, l’imporsi della logica individualista del workfare su quella dal sapore vintage del welfare; l’invecchiamento della popolazione che si accompagna a bisogni crescenti di cura e all’insufficienza di servizi rispetto alla domanda. In questo magma, il neoliberismo affonda le sue unghie e approfitta dell’opportunità di identificare i diritti delle donne come un problema delle donne non occidentali per ridurre i fondi destinati alla giustizia in generale e dirottarli verso i più remunerativi programmi di accoglienza.
Sono proprio i programmi di accoglienza e i patti civici di integrazione che – su input della Commissione europea – i tre paesi hanno negli anni introdotto come perno centrale delle politiche nazionali per l’immigrazione, a costituire – secondo l’autrice – un esempio perfetto di cosa debba intendersi per femonazionalismo: sono anzi «la forma più concreta e insidiosa di istituzionalizzazione del femonazionalismo». Questi programmi – vincolando il rilascio del permesso di soggiorno all’apprendimento della lingua, della cultura e dei valori del paese di destinazione – di fatto richiedono ai migranti di conoscere e rispettare dei valori che vengono artificiosamente presentati come emblema di civiltà. L’integrazione tramite il lavoro diventa un processo meramente individuale, una precondizione per accedere al patto sociale e non più un processo la cui responsabilità dovrebbe primariamente ricadere sulle istituzioni del paese di destinazione. In questa ottica, le donne migranti – in quanto stereotipiche depositarie dei valori e della cultura Altra – vengono dipinte come vittime da salvare dall’oscurantismo delle loro comunità di origine; ma sono anche il “cavallo di Troia” tramite il quale educare le seconde generazioni dell’immigrazione. Non sono meritevoli di attenzione in quanto individui ma in quanto ennesima arma da utilizzare per l’assimilazione delle comunità migranti e come ponte tra la società occidentale e quella Altra. Ricondotte al ruolo di madri e depositarie della tradizione, alle donne migranti viene, dunque, richiesto di apprendere come si deve vivere in occidente e di insegnarlo. Viene chiesto loro di lavorare, di emanciparsi entrando a pieno titolo nella sfera pubblica e nel mercato del lavoro: e, però, i settori verso i quali queste donne vengono indirizzate sono quelli che tradizionalmente vengono riconnessi a una supposta natura femminile, ovvero il lavoro domestico e di cura. Proprio quei settori contro cui il femminismo occidentale ha tradizionalmente ingaggiato battaglie storiche: in che modo, dunque, spiegare questa “contraddizione performativa” in cui incappano alcune femministe e femocrate? Come mai – chiede Sara Farris – «adesso l’idea di emancipazione attraverso il lavoro produttivo viene usata per spingere le migranti verso la riproduzione sociale?».
Lungi dal voler negare la disuguaglianza e l’oppressione che le donne non occidentali possono subire all’interno delle proprie comunità, questo libro pone la necessità di chiedersi e di capire perché alcune femministe hanno scelto di non essere solidali con altre donne ma di esporre al fianco della strumentalizzazione nazionalista e neoliberista della parità di genere in chiave razzista e islamofoba. Un interrogativo che si impone in tutta la sua urgenza. Il femonazionalismo si incardina nella mentalità coloniale e perpetua l’imperialismo.
Marta Capesciotti in DWF (124) STELLE SENZA CIELO. NOTE PER IL CINEMA, 2019, 4