Chi erano le lesbiche femministe italiane degli anni ’80? Per cosa lottavano e come? Qual è il valore politico del separatismo? Come relazionarsi con il resto del movimento femminista? Cosa significa definirsi lesbiche? Queste e tante altre domande si aprono alla mente leggendo questo testo del 1983, un breve pamphlet elaborato dal CLI (Collegamento Lesbiche Italiane) in risposta al documento “Più donne che uomini”, pubblicato nella rivista “Sottosopra” della Libreria delle donne di Milano e più comunemente conosciuto come “Sottosopra verde” per il colore della copertina.
Leggere il contributo del CLI ha, innanzitutto, un valore storiografico. Permette di rimettere al suo posto un tassello di una storia, quella del femminismo e del lesbofemminismo in Italia, non tramite ricostruzioni posteriori – comunque preziose – ma attingendo a una fonte prodotta in quel preciso periodo della storia di tutt* noi. Ieri, come oggi, le donne, le compagne, si incontravano, si scambiavano esperienze, vivevano le loro vite in stretta connessione, si interrogavano sul loro posto nel mondo, su come cambiarlo il mondo, ribaltando i rapporti di oppressione. Ieri, come oggi, le lesbiche lottavano e si organizzavano per uscire dall’invisibilità, per esprimere liberamente i propri desideri, per decostruire l’eterosessualità obbligatoria che le voleva – e ancora vuole tutt* – eterosessuali per natura. E ieri, come oggi, le lesbiche si interrogavano sulla visibilità all’interno del movimento femminista e all’interno del movimento omosessuale (allora) e LGBT (oggi): come sfuggire a una doppia invisibilizzazione in quanto, rispettivamente, lesbiche e donne? Le lesbiche si interrogavano – come facciamo anche noi oggi – sul senso politico del separatismo: è solo un concetto? Un ideale? O un vissuto concreto fatto di spazio e di tempo vissuto con le compagne? Un separatismo da cosa e per costruire cosa? L’attualità di tante di queste questioni impone una riflessione sul valore cruciale della generatività per la costruzione di comunità resistenti. Leggere il contributo del CLI permette a chi lotta e si organizza oggi di tessere un filo con il passato e con i suoi ragionamenti. Ci permette di fare tesoro di una continuità di pratiche e di pensiero. Di sentirci meno nel vuoto, in qualche modo meno sol* di fronte a un mondo che ci vorrebbe ancora silenziat*, isolat* e docili.
Leggendo il contributo del CLI, a catturare l’attenzione è anche la forma e lo stile scelti. Scorrendo le pagine si ha immediatamente l’impressione di essere di fronte a un testo corale, un insieme di voci in dialogo tra loro, ognuna con il proprio tono e registro. C’è chi ha scelto di esprimersi con versi poetici, chi con una prosa dritta e schietta, chi per immagini. Un insieme eterogeneo di prospettive e punti di vista, di esigenze e tensioni che rendono su carta la ricchezza che si prova a sedersi in un’assemblea e a confrontarsi con altri vissuti. Una scelta sicuramente coraggiosa se confrontata con lo stile del “Sottosopra verde”, in cui introduzione, corpo del testo e conclusione si articolano in una consequenzialità lineare, tipica dei manifesti politici. E, invece, ci vuole coraggio a liberarsi anche dalle catene della forma canonica, da quella pressione che ci spinge a esprimere per forza in ordine e concisamente le idee per convincere l’interlocutore della legittimità delle nostre argomentazioni: il testo del CLI fa esplodere gli schemi e gli stili per trasmettere la pluralità e accogliere la diversità. Senza avere paura che mostrare l’esistenza di vite ed esistenze diverse in un gruppo lo renda automaticamente più vulnerabile ed esposto, e, quindi, attaccabile. E, infatti, questa esplosione stilistica nulla toglie alla forza dei contenuti: ripercorrendo i vari contributi di cui si compone il testo, è possibile enucleare tutti i temi su cui si articola l’esperienza e la proposta politica del CLI – l’utilizzo del termine “lesbica” e l’invisibilizzazione delle lesbiche anche all’interno del movimento femminista, la forza oppressiva dell’eterosessualità obbligatoria, il significato politico del separatismo, le pratiche di resistenza all’oppressione di genere e gli strumenti per costruire quel mondo comune – così come cogliere pezzi di vita di chi componeva il gruppo.
Il valore del volume non si ferma alla riedizione del testo che viene, tra l’altro, intelligentemente accompagnato in appendice dal Sottosopra verde e dalla bibliografia originale del 1983. Asterisco Edizioni – nella sua opera preziosa di riscoperta e attualizzazione di testi fondamentali per la storia del movimento e della letteratura LGBT e femminista, tramite la collana Eresia – ha scelto di premettere al testo del CLI una prefazione della curatrice Irene Villa e un’introduzione di Liana Borghi. Due generazioni di attivismo che si confrontano oggi con un testo prodotto in un’altra fase storica, proponendo a chi legge una chiave di lettura per cogliere l’importanza del contributo del CLI a quasi quarant’anni dalla sua pubblicazione. In che modo (ri)scoprire le riflessioni delle lesbiche femministe degli anni ’80, può aiutarci a orientarci nell’oggi? Cosa rimane delle riflessioni emerse nel lesbofemminismo italiano nell’attuale costruzione di un movimento transfemminista queer? La nostra storia di persone queer transfemministe non ha niente a che vedere con la storia che viene raccontata dal CLI? O forse sì? Possiamo trarne degli elementi per comprendere cosa significhi definirsi lesbiche? Una prima chiave di lettura ce la fornisce direttamente Liana Borghi, protagonista diretta di questa storia collettiva, nella sua introduzione: “Io emergo qui in prima persona, senza nascondere che ritorno al separatismo lesbofemminista dalla posizione presente di transfemminista queer: il tempo cambia e ci cambia, ma resta forte l’affetto che mi lega a luoghi e persone, anche se perdute o scomparse, con le quali ho condiviso il lavoro di riflessione sulla formazione di una soggettività collettiva lesbica, riferito alle nostre pratiche, al separatismo, alle strategie e condizioni della nostra lotta politica, alla critica delle istituzioni e quindi alla costruzione di un altro mondo comune”.
Marta Capesciotti in DWF, SPACCADEMIA. Pratiche femministe in università, 2020, 2