“La città delle donne” di Bianca Fusco, edito da Redstarpress, si focalizza sul concetto di sicurezza come scelta prospettica per guardare a chi ha il diritto di attraversare la città. L’intento di Fusco, a partire da un posizionamento femminista ‘militante’, è quello di una lettura critica delle varie ondate securitarie ma anche di ri-significare il concetto di sicurezza a partire dalla disamina di alcuni esempi messi in campo per iniziare a immaginare una città che parta dalle donne[1], dunque è una città per tutt3.
Attraverso la letteratura esistente, l’autrice ripercorre la genealogia dei significati che assume il concetto di sicurezza, intesa innanzitutto come ‘diritto’, e le modalità di attuazione a seconda delle trasformazioni sistemiche. Come fa notare Fusco, questa costante produzione di sicurezza è legata all’erosione di certezze sul piano sociale ed economico che si confà al governo della precarietà, producendo un’insicurezza diffusa. Si determina in questo modo un corto circuito: per cui tanto più viene acuita l’insicurezza, più si rendono necessarie politiche di sicurezza che però agiscono sul piano della ‘paura del crimine’, socialmente prodotta attraverso la costruzione del nemico, di cui lo ‘straniero’, il migrante diviene il perfetto figurante e/o capro espiatorio.
Leggere le politiche di sicurezza da una prospettiva di genere, per Fusco, significa far emergere le strumentalizzazioni del corpo delle donne per giustificare politiche securitarie, in cui il nesso tra sessismo e razzismo diviene centrale. A questo proposito, il dis-velamento della narrazione dei femminicidi mostra come il piano del discorso abbia un immediato risvolto fattivo nelle politiche governative. Emblematico è stato il caso Reggiani a partire dal quale sono state attuate specifiche politiche in materia di sicurezza ed esplicitamente razziste, su tutte la “norma anti-rom”, che correlano immediatamente violenza sessuale e immigrazione facendone materia di pubblica sicurezza. Il corpo delle donne diviene così funzionale alla retorica razzista e a una a gestione securitaria ed emergenziale dei femminicidi. Sul piano del discorso pubblico viene ri-stabilito l’antico binomio donneperbene e donnepermale: nel primo caso si rafforza l’evitamento nello spazio pubblico di quei comportamenti considerati rischiosi a cui le donne sono state socializzate fin dall’infanzia, nel secondo si innesca un processo di victim blaming quando si eccede dai comportamenti normativi rifiutando di fatto ciò che i ruoli di genere impongono. In entrambi i casi la sicurezza diviene un fatto di responsabilità individuale proprio del sistema neoliberista.
Dal ‘400 fino alle vicende di violenza più recenti – come la sentenza irlandese che assolveva un uomo accusato di aver violentato una ragazza di 17 anni, dando vita alle mobilitazioni “#ThisIsNotConsent” – la violenza maschile sulle donne tanto nelle aule dei tribunali, quanto nei media che nell’opinione pubblica viene spesso delegittimata o derubricata ad abuso. La rassegna dei processi per stupro, riportati da Fusco, mostra infatti come la consuetudine nelle aule dei tribunali sia, per riprendere le parole di Tina Langostena Bassi, “il processo alla donna”, trasformandosi in un’ossessiva indagine sulla condotta e la morale dei soggetti che subiscono violenza.
Il modo in cui è stata intesa e trattata la violenza maschile nel discorso pubblico emerge dal dialogo tra politiche, narrazioni e processi, mostrando non solo una continuità temporale ma un suo carattere strutturale. In che modo, dunque, emerge la risposta alla domanda iniziale? L’autrice àncora la diversa attraversabilità delle donne nello spazio urbano alla costruzione sociale dell’insicurezza.
Nella seconda parte del testo, Fusco, evidenziando come lo spazio urbano sia pensato attorno al modello di un maschile egemonico, propone un ripensamento della città sul piano della pianificazione urbana attenta al genere, considerando quindi i tempi di lavoro e di vita, il rapporto tra spazio pubblico-domestico e sicurezza, ma soprattutto reclama un diritto alla città a partire dai bisogni dei diversi soggetti che la abitano. L’ormai noto caso di Vienna, in merito a una pianificazione urbana gender mainstreaming, è utilizzato dall’autrice per sottolineare la necessità di un processo urbano che parta dai bisogni delle persone che abitano la città e in cui la dimensione di genere diviene centrale.
Tuttavia, un approccio basato solo sul genere come possono essere le politiche di gender mainstreaming rischia sia di rafforzare norme e ruoli di genere rispetto ad esempio al lavoro retribuito e non retribuito, sia di riproporre un modello di donna egemone (bianca, di classe media, ecc.). Va sottolineato come la pianificazione possa essere solo uno degli ambiti di intervento che non è bastevole sia per il carattere strutturale della violenza maschile sia perché spesso la dimensione di genere può essere utilizzata secondo logiche neoliberali.
Sul piano delle pratiche collettive e auto-organizzate presentate, uno degli esempi riportati è la Carta della Città femminista elaborata da Non Una Di Meno Padova che assume la prospettiva femminista come metodo per leggere il quotidiano in relazione alla città e ai bisogni di chi attraversa la città, a partire dai luoghi considerati più degradati. Tra le varie proposte, Fusco pone l’accento sul ribaltamento della concezione di una sicurezza securitaria e neoliberale da parte di quei soggetti che vivono la violenza maschile sui propri corpi: un esempio tra tutti sono le passeggiate indecorose. La sicurezza delle donne, come conclude l’autrice, non può che ripartire dalla loro autodeterminazione, dalla libertà e dalla sicurezza intesa come produzione di fiducia.
Alina Dambrosio Clementelli in FEMMINISMO Q.B., DWF (133) 2022, 1
[1] Il termine donne è usato dall’autrice a scopo di sintesi, prendendo le distanze da una concezione di donna in senso essenzialista.