In un agile volume di quattro capitoli, Arianna Rotondo si sofferma su quei dettagli riportati nel Diario e nelle Lettere di Etty Hillesum (1914-1943), che restituiscono un’immagine composita di questa scrittrice: una personalità capace di ammettere paure e insicurezze, con le sue stesse parole, ma che per questo è stata spesso considerata ambigua e contraddittoria dalla critica (pp. 13-14).
Nel primo capitolo A. Rotondo analizza le letture di Etty Hillesum, spesso raccontate fra piccoli gesti quotidiani, restituendo forza all’esperienza che narra, evitando di costringere la protagonista entro rigidi categorie, schemi e appartenenze. Parafrasando Hillesum, afferma: «Bisognerebbe accostarsi a un libro come ai propri simili, cioè senza idee preconcette o pretese. A volte, già dalle prime pagine, ci si forma un’idea dell’opera e si rimane attaccati a tale immagine; non si vuole prendere distanza da essa e ciò va spesso a discapito delle intenzioni dell’autore. Alle persone bisogna garantire la massima libertà, e così ad un libro. Ogni espressione usata da una persona o presente in un libro può improvvisamente gettare una luce nuova su tutto l’insieme e distruggere quella data immagine che ci eravamo fatti e le certezze che ci aveva dato» (p. 14). A. Rotondo raccomanda di accostarsi alle opere di Etty Hillesum come suggerisce l’autrice stessa, quando auspica che il suo Diario sia letto come lei ha voluto scriverlo: senza idee preconcette o pretese. Se da una parte Etty Hillesum insegue un obiettivo – essere cronista del suo tempo –, dall’altra nello scrivere trova una terapia; aderisce completamente alla vita attraverso le parole, nella convinzione che una descrizione debba poter restituire la forza e l’importanza di ciò che racconta (p. 28).
Rotondo fa notare come Hillesum cerchi di rendere memoria la follia del tempo in cui vive (p. 19). Sono gli anni dell’occupazione nazista dell’Olanda, delle deportazioni senza ritorno. Eppure, come osserva A. Rotondo, la scrittura di Etty Hillesum ospita un diuturno dialogo interiore con se stessa ed è, insieme alla preghiera, il luogo d’incontro con un nuovo Tu, l’Altro, Dio (p. 22). In questa analisi degli scritti di Hillesum, A. Rotondo constata la trasformazione della scrittura attraverso i colori, che a quindici anni sono rosso e verde, in guerra sono grigio, plumbeo e nero (p. 31); e si sofferma sulle letture più amate in cui Hillesum si rifugia: la Bibbia e Rainer Maria Rilke (p. 32). La Bibbia appare a Etty Hillesum come un infinito contenitore di vita e di storia, un’enciclopedica rassegna di umanità (p. 35). L’Antico Testamento le restituisce la voce antica di Israele, una storia di nomadismo e di promesse, la storia di un popolo alla ricerca del proprio destino in una continua e drammatica relazione con Dio (p. 34). Un “destino collettivo” che Etty Hillesum ‘sceglierà’ di condividere con convinzione e coraggio prima di essere trascinata via dal campo di transito per rifugiati, detenuti ed ebrei di Westerbork, nel quale soggiorna a intervalli, prima del trasferimento ad Auschwitz (p. 47).
Il secondo capitolo è concentrato su due emozioni che attraversano la scrittura della protagonista: il ‘disgusto’ e la ‘codardia’. Mentre l’Olanda si trasforma in un campo di persecuzione, Etty Hillesum si rende conto del destino che la attende come ebrea. Alla ‘codardia’ associa il ‘disgusto’: un’emozione che ha una funzione strategica nel suo itinerario esistenziale, che è contaminata dalla paura ed è legata a un’esclusione (p. 56). Nel ‘disgusto’ si trovano anche la sua relazione, comprese le fantasie erotiche con il suo terapeuta, Julius Spier, e il rapporto con il cibo (pp. 57, 60).
Oggetto di esame del terzo capitolo sono le ventidue lettere che E. H. indirizza dal suo soggiorno ad Amsterdam, a Osias Kormann, un ebreo d’origine polacca, entrato al campo di Westerbork nel 1939 per dirigere il Servizio 5 (pp. 68-69). A. Rotondo sottolinea che, nella corrispondenza con Kormann, due elementi sono ricorrenti: il desidero di non essere dimenticata in seguito ai suoi periodici allontanamenti dal campo – perché sono solo fisici e non mentali – e la nostalgia sempre più crescente di quel campo: luogo di sofferenza, ma anche di affetti e di straordinaria umanità (p. 74), perché, nonostante fosse una convivenza forzata, il campo descritto da Etty Hillesum ha tutte le caratteristiche di una società umana (p. 79). L’ultimo capitolo si apre con una citazione dal Diario sui malanni fisici connessi ai disturbi psicosomatici di Etty Hillesum, che le impediscono di tornare al Westerbork. Scrive che dovrebbe attivare una più efficace comunicazione fra anima e corpo fino alla riconciliazione (p. 110), perché considera la malattia l’esito di una solitudine pericolosa, che allontana dagli altri e da se stessi (p. 108). Il suo desiderio è stare al campo.
L’analisi di A. Rotondo si conclude con una riflessione che mostra come la vicenda di Etty Hillesum non sia semplicemente un esempio di trionfo della resilienza, quanto piuttosto un caso di incontro col dolore che si è presentato come uno sconosciuto da cui è poco proficuo fuggire; per questo Etty Hillesum diventa protagonista, lei, della sua storia personale oltre che interprete straordinaria del suo tempo.
Leila Karami in FEMMINISMO Q.B., DWF (133) 2022, 1