“Come facciamo a rendere una persona responsabile di un torto commesso, e allo stesso tempo a restare in contatto con la sua umanità quanto basta per credere nella sua capacità di trasformarsi?”. Con questo interrogativo posto da bell hooks a Maya Angelou in un dialogo del 1998 si apre la seconda parte del libro “La trama alternativa” di Giusi Palomba, intitolata Una trasformazione possibile, ma è l’interrogativo che innerva tutto il libro e, più in generale, il dibattito sulla giustizia trasformativa ovunque questo si articoli.
Il libro di Giusi Palomba può essere descritto come un saggio abolizionista, che mira ovvero ad articolare una critica al sistema carcerario e alla mentalità punitiva che ne costruisce l’orizzonte di senso. A detta di chi scrive, il testo di Giusi Palomba contribuisce anche ad articolare una critica femminista al punitivismo che ormai storicamente inquina una parte del pensiero femminista stesso (il carceral feminism, come denominato nel mondo anglofono), nel senso che ci indica Tamar Pitch di quelle “mobilitazioni che, richiamandosi al femminismo e alla difesa delle donne, si fanno protagoniste di richieste di criminalizzazione (introduzione di nuovi reati negli ordinamenti giuridici) e/o di un aumento delle pene per reati già esistenti”[1]. Giusi Palomba si chiede, quindi, “che tipo di società può tenere insieme il superamento del punitivismo con la difesa di chi subisce la violenza?”.
È questo l’interrogativo cruciale attorno al quale si snoda il libro “La trama alternativa” che non si fa scrupolo nel mettere sul piatto alcune delle questioni più spinose – in alcuni casi anche le contraddizioni – che attraversano la vita delle comunità politiche, siano esse articolate attorno alla vita di un quartiere, a un progetto di autogestione e occupazione, a una lotta ambientale, alla lotta femminista, transfemminista e queer. Questioni talmente complesse che frammentano le collettività stesse e che non possono essere affrontate che a partire dalla consapevolezza del dolore che provocano, dalla ferita che i conflitti e le violenze infliggono alle comunità; in altre parole, devono essere affrontate a partire dallo strappo. E proprio così si apre il libro di Giusi Palomba: la prima parte del testo – “Lo strappo” appunto – è il racconto di come una comunità politica che anima un quartiere di Barcellona abbia tentato di rispondere a un episodio di violenza sessuale avvenuto al suo interno. La comunità, che si era dotata già di un protocollo per affrontare i casi di violenza sessuale e di genere, ha provato a gestire questo episodio utilizzando gli strumenti della giustizia trasformativa: mettere al centro i bisogni e le richieste della persona sopravvissuta alla violenza; accompagnare la persona che ha agito la violenza nella consapevolezza del proprio agito e nella responsabilizzazione nei confronti dell? sopravvissut? e della comunità; investire l’intera comunità di un percorso di responsabilizzazione nei confronti della violenza avvenuta per comprendere dove siano le radici del singolo episodio e in che modo questo si radichi in una cultura collettiva che avalla la violenza, la violazione del consenso, l’articolarsi di relazioni disfunzionali che godono della complicità o quantomeno dell’indifferenza degli altri membri della collettività stessa.
A questa prima parte – che non intende essere la proposta di un modello, di un protocollo appunto, da esportare e replicare altrove quanto piuttosto la condivisone del punto di partenza esperienziale della riflessione dell’autrice in materia di giustizia trasformativa e gestione dei conflitti intracomunitari – segue la seconda parte del libro che lascia spazio alle questioni più ampie e generali che è necessario affrontare quando si immaginano modi nuovi di gestire il conflitto e la violenza nei gruppi e nelle collettività. E le questioni in tal senso sono tante, complesse e interrogano il modo in cui ci relazioniamo, costruiamo i nostri legami e le nostre reti. Giusi Palomba condivide con chi legge alcune riflessioni, esperienze e interrogativi su molte di queste questioni. Cosa si debba intendere per comunità e perché la lotta al punitivismo carcerario e per un approccio trasformativo alla giustizia sia storicamente nato nelle collettività oppresse e marginali, quella nera in primis, insieme a quella queer. In che modo è possibile visibilizzare, riconoscere e affrontare il conflitto e la violenza intracomunitari senza spaccare le comunità che per molte persone marginalizzate sono fonte di sostentamento e cura, in altre parole di sopravvivenza, in una società che opprime, discrimina, affama. Che ne è di tutte quelle persone che non appartengono a una comunità e in che modo i circoli di intimità, la rete di relazioni strette, possono costituire la collettività che è chiamata a gestire e affrontare la violenza. L’autrice si interroga su cosa siano gli spazi safe, gli spazi sicuri perché liberi da violenza e oppressione, se esistano davvero e se le nostre comunità, per il solo fatto di articolarsi attorno a un programma politico che mira all’eliminazione della violenza sistemica e interpersonale, possono essere considerate automaticamente come safe, o se non sarebbe piuttosto opportuno indicarle come safer, ovvero come tese alla liberazione dalla violenza, come brave, ovvero come spazi coraggiosi perché capaci di prendersi le responsabilità di quanto accade e affrontarlo, o come intentional, ovvero come comunità volenterose di affrontare insieme la strada che ancora ci separa dalla liberazione dalla violenza.
Al di là della molteplicità di questioni, interrogativi e dubbi che il tema della giustizia trasformativa apre e che sono spesso inaffrontabili se non si tiene conto della realtà della specifica comunità che si interroga e si confronta, delle sue relazioni, delle sue modalità decisionali e condizioni di oppressione e privilegio, il grande pregio del libro “La trama alternativa” di Giusi Palomba è quello di spingere gentilmente chi legge a chiedersi: Perché? Perché dovremmo immaginare dei modi di gestire il conflitto e la violenza che siano diversi dalla punizione, dall’allontanamento dalla collettività, che sia un allontanamento da una comunità politica o la reclusione in carcere? Perché la collettività dovrebbe sentirsi responsabile dei conflitti e delle violenze che avvengono al suo interno? Ed è davvero possibile trovare modi per evitare che conflitto e violenza rappresentino irrimediabilmente il nostro quotidiano? A questo interrogativo ciascun? deve trovare una sua riposta, un suo senso: il libro di Giusi Palomba non intende dare risposte, apre piuttosto numerosi interrogativi che rimangono irrisolti. Però l’autrice ci dà una traccia per rispondere, per trovare la nostra risposta individuale e collettiva. Nel riconoscere che “non ci siamo ancora concessi di esplorare sistematicamente la potenza della cura, della presenza, della gestione consapevole di un conflitto e della riparazione”, l’autrice ci invita a pensare alle prospettive antipunitive e anticarcerarie come un modo per “scoprire che le persone non sono predestinate e condannate a ferire, né a essere vittime in eterno, ma possiedono in potenza la capacità di riparare, di guarire, di smettere di fare del male”. Questo potenziale potrà sembrare utopico, irrealizzabile o impossibile. E tuttavia, pur nella difficoltà di articolare materialmente questo cambiamento di paradigma su violenza e conflitto, Giusi Palomba ci ricorda che “se i modi che abbiamo non sono sufficienti per concretizzare le nostre visioni, allora vuol dire che dobbiamo inventarne altri”. E questa è una responsabilità di tutt3 noi.
Marta Capesciotti in MITICA! Percorsi in relazione in memoria di Paola Masi
[1] Tamar Pitch (2022), Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva, Edizioni Gruppo Abele, p. 53.