«Perché parlare ancora di aborto e della legge 194? E perché leggere di nuovo un libro scritto nel 1981?» si domanda provocatoriamente Caterina Botti nelle prime righe dell’ampia introduzione a Il tormento e lo scudo, scritto da Laura Conti nel 1981 e riedito da Fandango Libri. La risposta sta nella straordinaria attualità di questo saggio, che non si limita alla critica spietata della legge 194 del 1978 (immutata da 45 anni) ma affronta con lucidità quello che Botti definisce «il nucleo denso della pratica abortiva». Conti non esita ad approfondire temi a lungo elusi dal dibattitto politico e, come sottolinea Botti, sostiene «che non sia possibile pensare di eliminare il ricorso alla pratica dell’aborto procurato dall’orizzonte delle esperienze umane, che non si tratti di una pratica esecrabile, che a deciderne debbano essere le donne e, infine, che questi debbano essere i presupposti da cui muovere per la sua regolamentazione giuridica. E lo sostiene con argomentazioni con cui chiunque voglia affrontare la questione sino in fondo deve, ancora oggi, confrontarsi».
Laura Conti (Udine 1921 – Milano 1993) è stata una figura centrale nel panorama politico e culturale italiano: partigiana, medica, scrittrice di talento, comunista, fondatrice di Legambiente, ha coniugato militanza civile e rigore scientifico impegnandosi su temi oggi più che mai attuali, come la difesa dell’ambiente, il diritto alla salute e, appunto, il diritto all’aborto. Infatti, nonostante nella premessa a Il tormento e lo scudo Conti faccia autocritica per essersi «occupata solo con grande ritardo delle questioni politiche e legislative inerenti all’aborto», il tema attraversa tutta la sua vita politica e professionale.
Già nel romanzo La condizione sperimentale del 1965 Conti descrive le conseguenze per la salute delle donne degli aborti clandestini imposti dalla legge fascista (rimasta in vigore fino al 1978). Nel 1973, in un seminario del PCI si esprime con forza a favore di una totale depenalizzazione dell’aborto attaccando la posizione attendista del partito e non esitando a criticare «compagne che hanno abortito e che però ritengono non doversi parlare di depenalizzazione dell’aborto per motivi tattici. Mi pare una cosa disonesta». Dopo il disastro di Seveso è la prima a denunciare gli effetti nocivi della diossina sulla salute delle gestanti e a battersi per garantire loro il diritto a decidere sul proprio corpo; le sue prese di posizione in dibattiti e scritti (il saggio Visto da Seveso del 1977 e il romanzo Una lepre con la faccia di bambina del 1978) contribuiscono alla discussione che porta alla legge 194.
Il tormento e lo scudo è dunque frutto di anni di riflessione e partecipazione al dibattito politico. Scritto in occasione dei referendum abrogativi promossi dai radicali e dal movimento per la vita, non si limita ad analizzare in dettaglio la legge 194 e le proposte referendarie, ma approfondisce i temi cruciali dell’autodeterminazione femminile e del rapporto tra i sessi, che hanno un ruolo centrale nel dibattito femminista. Attraverso i vari capitoli, l’autrice ci accompagna in una lettura attenta della 194 che, come Conti denunciava già nel 1981, «contrariamente a quanto si ritiene, non è una legge che consente l’aborto. È una legge che lo vieta salvo che in certe circostanze».
Oltre a individuare i numerosi limiti all’attuazione pratica della legge (a partire dall’obiezione di coscienza), Conti analizza a fondo sia l’atto abortivo dal punto di vista biologico sia le implicazioni meno evidenti della legge e l’utilizzo di concetti pseudoscientifici come dispositivo di controllo. Partendo da un’impostazione darwiniana, componente essenziale del suo bagaglio culturale e scientifico, Conti propone un approccio originale al tema dell’aborto che, lungi dall’essere interpretato come una tragedia o una condizione emergenziale, viene inserito all’interno del processo evolutivo delle specie viventi. Con l’ausilio dell’etologia e della sociobiologia, Conti mostra come molti animali attuino un serrato controllo delle nascite, essenziale per la sopravvivenza della specie. Al contrario di quanto espresso dalla 194, l’aborto deve essere, dunque, contemplato nell’orizzonte umano, in cui la scelta consapevole è il punto di vista fondamentale.
Il saggio evidenzia l’impostazione faziosa della 194 che «descritta come legge di “prevenzione” dell’aborto rivela una realtà psicologica profonda di condanna dell’aborto», in linea con l’idea dell’aborto «come “male”, come “dramma”, come “tragedia”». Conti invita le ragazze che vanno ad abortire a ribellarsi a questa visione: «Quelli che vi dicono “sappiamo il tuo dramma” vorrebbero vedervi piangere mentre abortite, solo per lavare con le vostre lacrime la propria coscienza […] Che voi andiate ad abortire piangendo, oppure che ci andiate ridendo, tutti gli altri possono fare solo una cosa: rispettarvi».
Questa gabbia narrativa, che ha come unico scopo limitare la libertà di scelta e autodeterminazione, fa leva su una visione falsa della vita, giustificata da inesistenti verità scientifiche. Da medica, Conti afferma con forza che «il giudizio (esplicito o implicito) che l’embrione è una persona non è un giudizio scientifico. Appoggiarlo a documenti “scientifici” è una mistificazione […] Per il fatto che (magari solo implicitamente) la società ha deciso che “l’embrione è una persona”, la donna che intende abortire si vede assoggettata a determinate imposizioni e, se non è in condizione di attenervisi (per esempio se non trova un posto in ospedale), si vede costretta alle mortificazioni e ai pericoli dell’illegalità».
A difesa della piena autodeterminazione Conti – controcorrente anche rispetto ad alcune considerazioni presenti nella galassia femminista – ci invita a riflettere attentamente sull’articolo 4 della 194, che, lungi dall’essere un riconoscimento della libertà di scelta delle donne, è invece uno stratagemma per colpevolizzarle: «Se analizziamo attentamente il testo dell’art. 4 e del successivo art. 5 vediamo che il certificato della richiesta di aborto non viene rilasciato “alla donna che intende abortire”, bensì alla donna “che senta in pericolo la propria salute fisica o psichica”. Il pericolo per la salute fisica è al giorno d’oggi un’evenienza piuttosto rara […] Rimane dunque la salute psichica: o meglio, la valutazione soggettiva che la donna fa, e che per legge nessuno è tenuto a verificare […] Quel che la donna ottiene come gravida che vuole abortire, lo paga come cittadina di uno Stato che la obbliga alla menzogna».
Nell’attuale contesto, in cui l’accesso all’aborto è minacciato più di quarant’anni fa, il libro di Conti ci parla direttamente, invitandoci a utilizzare il nostro spirito critico non per arroccarci nella difesa passiva della 194, ma per ricordarci che è necessario e doveroso conoscerla anche per potersi muovere oltre, affinché la libertà venga da noi: «dalla nostra onestà intellettuale, dal nostro rigore, dal nostro vigore».
Marina Dal Cin inFacciamo scuola. Oltre l’istruzione patriarcale