Come dichiarato dalla curatrice nell’Introduzione, il volume raccoglie interventi presentati al convegno internazionale Écrire, dit-elle, Écrire, dit-il (svoltosi a Bologna nell’ottobre del 2013), il cui titolo è esplicitamente tratto dall’opera di Marguerite Duras. La scrittrice francese è scelta come emblema della rivendicazione, da parte delle donne, di essere anch’esse autrici, artefici della parola, femme de lettres (pioniera in questo senso è Marie de France, di cui parla nel libro il saggio, sempre di Caraffi, Il cuore e l’usignolo. Scritture della memoria nei Lais di Marie de France) . Tale rivendicazione a dire il vero, è fatta propria dalla maggioranza delle personalità sulle quali sono incentrati i contributi, ma non dalla totalità di esse; si tratta infatti di approcci al dire e al dirsi molto diversificati dal punto di vista storico, stilistico e sociale. Sono tuttavia ravvisabili tre elementi costantemente presenti: l’adozione della scrittura come reazione al silenzio coatto imposto dalla società patriarcale; la tendenza a sovrapporre il dire al dirsi (in alcuni saggi definita autobiografismo); la configurazione di un Io femminile che parla come identità relazionale e dunque della parola prodotta come parola dialogica. A questo proposito è significativa la presenza di quattro studi focalizzati sull’attività epistolare. In Rôle et place sociale des femmes dans les correspondances de l’Antiquité romaine, di Agnès Bérenger si dà conto delle lettere private, ritrovate su papiri e tavolette, di mogli degli equites romani, dalle quali emergono la volontà di relazionarsi reciprocamente, il prevedibile interesse per le questioni familiari, ma anche quello, meno ovvio, per le proprietà e gli affari dei mariti, che mostrano di conoscere alla perfezione. Molto curiosa è la corrispondenza tra un’aristocratica francese dell’Ottocento e il proprio direttore di coscienza (La correspondance de direction de conscience: écrire pour contester le rôles de genre? L’exemple d’ Henriette de Lestrange (1908-1931) di Caroline Muller): il fatto che lo scambio epistolare sia vincolato al segreto concede alla nobildonna una libertà quasi totale nel parlare con il religioso di argomenti, primo fra tutti quello della sessualità, che non potrebbe affrontare con nessun altro, usando abilmente le argomentazioni della Chiesa e gli stereotipi sociali su uomini e donne per fare i propri interessi. La scrittura costringe Henriette a riflettere e a dare forma ai propri sentimenti, al punto che il padre spirituale interrompe la corrispondenza quando lei minaccia di separarsi: paradossalmente la direzione di coscienza, che aveva lo scopo di ricondurre la donna ai suoi doveri familiari, è servita ad ottenere l’effetto opposto. Il nutritissimo epistolario woolfiano, come osserva Liliana Rampello (Saltando la mia ombra. Le lettere di Virginia Woolf), è prolungamento della conversazione e delinea una vera e propria politica dell’amicizia: dalle lettere emerge una donna piena di vita e di lavoro con la costante volontà di «scrivere la vita così com’è, ovvero riuscire a portare all’espressione l’impressione, dare parola all’emozione, a quella forma di conoscenza che è il sentire, scrivere, saper scrivere cos’è la mela sul ramo». La progressiva presa di coscienza di sé da parte delle donne è testimoniata, infine, dallo studio che chiude il volume (Nancy Couture, Sexe, normes et courriers du cœur), che offre una rapidissima panoramica sulle rubriche di posta del cuore pubblicate da tre giornali del Québec tra il 1929 e il 2000. Un altro gruppo riconoscibile – per quanto non omogeneo – di contributi è ascrivibile al mémoire o al romanzo autobiografico: “ Un sorriso destramente misurato”. Gli Opuscoli morali e sentimentali di Giustiniana Wynne (Bruno Capaci) è incentrato sull’autobiografia, estremamente interessante, della scrittrice anglo-ellenico-veneziana contemporanea e amica di Casanova; ricca di spunti e meritevole di approfondimento è anche la recensio dei 14 libri di memorie delle attrici (e prostitute) dell’Ottocento (Raconter la prostitution: mémoires et autobiographies de femmes galantes du XIXe siècle, di Lola Gonzalez-Quijano). L’indagine del sé attraverso la proiezione del proprio sguardo sull’altra è al centro dei ragionamenti sul romanzo di Banti Un grido lacerante (Luisa Avellini, Un’autobiografia lacerante: l’ultimo romanzo di Anna Banti) e sulle Notes américaines de Marie-Claire Blais (Jean-François Plamondon, Du silence subalterne au murmure littéraire dans les Notes américaines de Marie-Claire Blais). Banti si sdoppia in Agnese Lanzi, nome a sua volta scelto come pseudonimo dalla protagonista, nella ricerca di un’alterità nell’identità, e per l’autrice del nuovo sé determinato dalla vedovanza; Blais racconta invece gli sconvolgimenti e le ferite profonde degli Stati Uniti degli anni Sessanta, soprattutto attraverso l’osservazione delle donne, che si impongono il silenzio o in conseguenza di un dolore paralizzante o – è il caso, tra le altre, dell’amica Elena Wilson, cui il libro è dedicato – come atto d’amore nei confronti dell’illustre marito, perché possa ragionare indisturbato. Un analogo percorso osmotico tra lo sguardo su di sé e quello sugli altri è riscontrabile anche nelle opere di Agnès Varda e Chantal Akerman (Cristina Bragaglia, Agnès Varda e Chantal Akerman: l’Io al femminile) e in Autoritratto di gruppo di Luisa Passerini (Cristina Gamberi, L’Io e l’Altro. La scrittura autobiografica come sperimentazione in Autoritratto di gruppo di Luisa Passerini), ma questa volta in direzione inversa: la storia e il corpo individuali irrompono nella collettività lasciandosi attraversare da essa e plasmandola in un continuo processo di interrelazione: ciò che ne viene fuori è una rappresentazione frammentata e necessariamente periferica, eppure estremamente corale e compatta nella sua esplicita dimensione politica. Il rapporto tra individualità e collettività, in questo caso fortemente sbilanciato a favore del secondo dei due termini, è centrale anche nelle lettere e nelle relazioni redatte dalle monache di Port-Royal (Agnès Cousson, La notion de genre à Port-Royal), dalle quali emergono personalità femminili estremamente intelligenti e colte le quali, pur reprimendo le proprie doti per preservare le gerarchie ecclesiastiche e sociali, non esitano a compiere coraggiosi atti di ribellione, come l’autoimposizione della clausura. Il saggio di apertura del volume, infine, costituisce una parziale eccezione rispetto al resto dei contributi: è infatti l’unico a non essere incentrato sulla parola scritta prodotta da una donna bensì su quella prodotta da un uomo che fa parlare una donna (Massimo Stella, La reine écrit son “non”: l’écriture philosophique de Phèdre dans l’Hippolyte d’Euripide). Fedra non delira, ragiona. È una femme-philosophe e in quanto tale un monstrum, data l’indocilità del femminino alla convenienza politica: «est le para-doxon». Attraverso la parola filosofica, tuttavia, la regina non solo si conosce e si dice ma, denunciando Ippolito, si serve del sistema legge per evidenziare l’ipocrisia del sistema stesso. Il genio euripideo coglie perfettamente il nesso tra l’affrancamento dal silenzio da parte delle donne e il pericolo che tale affrancamento rappresenta per la società, così come è consapevole dell’imprescindibilità della parola scritta per la costruzione dell’identità del personaggio. Ciò che invece non può afferrare (se non in modo stereotipato e sommario) è l’ultimo dei tre fili rossi che attraversano tutti gli altri esempi di scrittura femminile presenti nel libro: la volontà e la necessità del sé di sentirsi, costruirsi, raccontarsi nell’interrelazione.
Valentina Russi in DWF (124) STELLE SENZA CIELO. NOTE PER IL CINEMA, 2019, 4