Femminismo per il 99% è proprio quello che promette di essere: un manifesto. Nell’esplicito e inevitabile confronto con il celebre Manifesto del Partito Comunista di Marx e Engels del 1848, le autrici articolano il loro testo intorno a 11 tesi fondamentali, che hanno il compito di mostrare il ruolo centrale del capitalismo nell’oppressione di genere. Cinzia Arruzza, Titti Bhattacharya e Nancy Fraser, che hanno scritto insieme questo volume e sono tutte docenti in università statunitensi – la prima e la terza presso la New York School for Social Research di New York City, la seconda alla Purdue University, in Indiana – vi hanno fatto confluire, omogeneizzandoli, temi e argomenti delle loro ricerche precedenti.
Il Manifesto vuole mostrare la possibilità di costruire, o ancora meglio, la già odierna presenza sulla scena mondiale, di un femminismo non separatista e anticapitalista, che si proponga di unirsi «[…] a ogni movimento in lotta per il 99%, che combatta per la giustizia ambientale, per un’educazione gratuita di qualità, per sostanziali servizi pubblici, per l’edilizia popolare a prezzi contenuti, per i diritti sul lavoro, per un sistema sanitario universale e gratuito, per un mondo senza razzismo e guerra» (p. 19). Questo femminismo si presenta come un’alternativa al femminismo liberale, considerato totalmente incapace, data la sua natura anti-sovversiva e normativa, di innescare quei cambiamenti strutturali necessari al miglioramento della vita di tutte le donne, e non soltanto a quelle di classe alta. Il femminismo liberale si comporta, secondo le autrici, come un’ancella del capitalismo progressista, perché cerca di introdurre le donne all’interno delle sue gerarchie di dominio, piuttosto che mettere in questione quelle stesse gerarchie riconoscendo la violenza con cui agiscono nella vita delle donne, in particolare di quelle di classi popolari e/o connotate razzialmente. Il desiderio è quello di porsi nel mezzo, di inserirsi come potenziale risposta positiva alla crisi del capitalismo progressista, la cui risposta negativa sembra sempre più essere rappresentata da un ritorno di nazionalismi e conservatorismi di destra, capaci di parlare a quelle classi popolari che il capitalismo progressista – con i suoi discorsi sulla diversity e col suo pink-washing, capaci solo di nascondere i reali rapporti di potere – ha lasciato indietro e sfruttato al limite.
Attraverso lo strumento dello sciopero internazionale delle donne, di cui le autrici sono state promotrici negli Stati Uniti, si vuole puntare lo sguardo sull’elemento più manifestamente anti-femminista del capitalismo: la sua fittizia divisione tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo, in cui il secondo è subordinato al primo e destinato alle donne, perché nella società capitalista l’organizzazione della riproduzione sociale si basa sul genere, facendo affidamento sui ruoli di genere e radicandone l’oppressione. «La riproduzione sociale è una questione femminista, che viene però attraversata dalle linee di faglia della classe e della “razza”, della sessualità e della nazione», e pertanto «Un femminismo che si proponga di risolvere l’attuale crisi deve esaminare la riproduzione sociale attraverso una lente capace di includere e connettere tutti questi fattori di dominio sociale» (p. 26).
È nell’intersezione tra questo argomento di coordinamento dei vari fattori di dominio e l’anti-separatismo si colloca la più vera ambizione di questo manifesto: chiudere definitivamente le porte tanto all’idea di una cieca sorellanza universale femminista che non tenga conto delle differenze materiali di classe e “razza” che intercorrono tra le donne, quanto all’implicito razzismo delle posizioni umanitarie delle femministe occidentali nei confronti delle loro sorelle del Sud del mondo. Quello che viene a delinearsi è un movimento globale ecologista, anti-razzista, anti-classista e femminista, che lo è nella misura in cui la sua ragion d’essere è posta nella lotta al capitalismo globale e alla sua modalità di sfruttamento delle persone e delle risorse. Questo diventa molto chiaro se si presta attenzione al sotto testo fondamentale di questo volume, da tenere ben presente, che è senza dubbio il fallimento della candidatura e delle politiche di Hillary Clinton (considerata il prototipo della femminista liberale convinta che il suo rompere il soffitto di cristallo a Washington sia automaticamente in grado di aiutare le donne operaie dell’Oklahoma) alle elezioni presidenziali del 2016, a cui sembrerebbe fare seguito un implicitoendorsement al maschio socialista Bernie Sanders.
Il femminismo marxista, in grado di rivolgersi e di aiutare il 99% della popolazione mondiale tra maschi e femmine di ogni classe e razza, è l’unica possibilità nominata da Arruzza, Bhattacharya e Fraser e l’unica ritenuta nominabile. La lettura di questo testo lascia necessariamente degli spazi di insoddisfazione a chi vi si approcci da un background femminista separatista, perché tende a semplificare le modalità di comunione delle lotte e dimentica di nominare ogni tipo di riconoscimento tra donne. D’altro canto, però, degli importanti spazi di riflessione sul senso politico del femminismo vengono aperti nel e dal discorso del Manifesto, che si mostra sicuramente capace di offrire una critica del femminismo liberale degna d’esser letta e condivisa.
Noemi Ciarniello in DWF (121-122) SISTERS OF THE REVOLUTION. Letture politiche di fantascienza, 2019, 1-2