Gaja Cenciarelli (2022). Domani interrogo, Marsilio, Venezia.

Una mattina di novembre, un’insegnante di Inglese si aggira tra le strade di un quartiere della periferia di Roma, in cerca della scuola dove è stata nominata supplente per un anno. Piove, ma fa caldo, la professoressa è in preda all’ansia: comincia a essere tardi e si è decisamente persa tra le strade deserte del quartiere, nonostante abbia ripassato il percorso almeno cento volte prima di uscire, come ogni supplente a ogni nuova assegnazione. Eppure, riemersa dalle profondità della metro, la prof. perde l’orientamento, comincia a sudare, esita davanti allo sguardo appiccicoso e giudicante di una giraffa del circo che la osserva dal suo recinto, in un parco lì vicino, infine con le gambe tremanti e la testa affollata di dubbi, va incontro al suo destino. Che si decide nell’arco di una manciata di secondi, quelli immediatamente successivi al suono della campanella, quando la professoressa entra in classe nel silenzio più incredibile a cui si possa assistere, quello prodotto da un branco di adolescenti chiassosi che si ferma di colpo per emettere il proprio giudizio sul nuovo professore. Ed eccola, la nuova arrivata, il monstrum, l’aliena, la rompicoglioni, il nemico di turno: tocca solo capire quanto. Perché, come recita la seconda delle dieci leggi fondamentali della vita di un insegnante che l’autrice ricorda nella sua nota al testo, non c’è scampo per nessuno: «Non importa quel che fai o quanto ti spendi per loro: gli studenti ti vivranno sempre come un nemico». E la professoressa lo sa bene, è lei il vero animale da circo in quella scuola enorme e indifferente in cui si sente più estranea e sola della giraffa nel parco. 

Così comincia Domani interrogo, di Gaja Cenciarelli, storia di una professoressa di Inglese, la pressore’, alle prese con gli studenti della sua quinta, un gruppo di adolescenti problematici per cui «la scuola è la vita a cui sono obbligati» e alla quale farebbero, quasi tutti, volentieri a meno; una storia ritmata dal programma di letteratura inglese di quinta (Romanticismo: primo quadrimestre / Novecento: secondo quadrimestre), a cui segue l’evento della maturità narrato nell’ultima parte del libro (Maturità t’avessi preso prima); una storia divertente e drammatica, tragica e grottesca come una giornata a scuola, che si intreccia con il problema dei problemi per chi, come l’autrice, la scuola la vive tutti i giorni: quello del linguaggio. 

Che lingua parlerà la nuova arrivata con gli studenti difficili di quella periferia a lei ignota? Certamente l’Inglese non funzionerà con dei ragazzi per cui la lingua straniera è «un peccato originale che non sono stati loro a commettere», e nemmeno basterà l’italiano, si tormenta la prof. Quale sarà allora la lingua giusta per stabilire un contatto con loro, di quali fonemi si comporranno i loro scambi, a quale lessico attingere, a quale sintassi ricorrere per provare a costruire anche con quei ragazzi la lingua intima e segreta che si stabilisce tra ogni insegnante e i propri alunni nel chiuso dell’aula?  Il motore della narrazione è dunque la costante ricerca di un linguaggio, da parte della professoressa, per avvicinarsi ai ragazzi che si trova davanti a partire da quella mattina di novembre, ragazzi che vestono firmato dalla testa ai piedi ma sono poveri e destroidi, sarcastici e cinici “come certi vecchi romani”, eppure generosi, ironici e, soprattutto, fragili. La professoressa le prova tutte, in uno sforzo estremo, logorante, sfinente, come sa solo chi insegna “prendendola sul personale” e così il testo si arricchisce di voci che parlano lingue diverse, dall’inglese dei più bravi della classe, al romanesco in tutte le sue varietà, al gergo (dei giovani, della malavita), al francese e persino al latino del terribile Ferzetti (l’alunno fastidioso di cui tutti farebbero volentieri a meno, ma a cui si finisce inesorabilmente per affezionarsi di più). Uno sforzo, quello della pressore’, dapprima unilaterale, poi pian piano condiviso dai ragazzi, che cercano a modo loro di trovare le parole per affidarsi e provare a emanciparsi, dal momento che «se non ci sono le parole, forse è perché quella cosa non esiste nel tuo mondo», osserva l’alunna Alessandra trasformando in vita una lezione su Beckett. 

Così, i dialoghi tra l’insegnante e i ragazzi portano avanti la narrazione in una sorta di presa diretta che ci conduce all’interno degli ambienti in cui si muovono i protagonisti: i corridoi della scuola, l’aula, il bar dove si consumano i drammi, gli abbandoni, le sparizioni e i ritorni, le crisi, le rinascite dei futuri maturandi sotto gli occhi instancabili della professoressa, che inciampa e cade, ma non li molla mai. Tanto da portarseli anche a casa, dal momento che, ça va sans dire, Inglese, quell’anno, è “materia esterna” oggetto d’esame, e allora bisogna insistere, stargli addosso, costringerli a ripassare: dovranno affrontare i Mostri Sacri della Letteratura inglese, gente come Joyce, ed Eliot, Woolf, Beckett, Orwell. Come potranno cavarsela da soli? si danna la professoressa, mentre loro vanno avanti imperturbabili come saggi epicurei. E ammesso che  superino gli esami, che accadrà poi? Come se la caveranno nella vita, una volta maturi? 

L’autrice risponde tracciando, per ognuno di loro, un breve e scanzonato resoconto della vita che li attende, del loro futuro di adulti, inesorabile e sacro come il futuro semplice inglese: piccole biografie di uomini non illustri che si inseriscono inaspettatamente nella narrazione, coerenti con le disposizioni caratteriali, le attitudini e le gesta compiute da ognuno dei ragazzi durante quel lungo anno a scuola. Ma se l’autrice racconta col piglio distaccato del biografo, la supplente di Inglese non accetta il futuro già scritto, e continua a chiedersi che cosa può fare per quei ragazzi, per far sì che quel futuro inflessibile non si compia. Si innesca qui l’altro grande tema del libro. Che significa essere un insegnante? L’insegnante è colui che assiste e interviene, se necessario, nella crescita di un individuo sempre, in ogni circostanza, anche al di fuori delle mura scolastiche, dei cosiddetti contesti formali, pur di salvarlo da un destino già segnato? O questa è solo una visione romantica dell’insegnamento? Quando inizia e quando finisce l’essere insegnante? «Saper redigere un piano didattico personalizzato, coordinare una classe, rispettare le scadenze, padroneggiare la normativa, avere il coraggio di sanzionare, senza accordare ai propri alunni alcun tipo di confidenza, nella convinzione che gli insegnanti, come i medici, sono professionisti e non missionari»: è questo essere un insegnante? Entrare in classe, salutare, insegnare ai propri studenti, poi, una volta fuori, far finta di non conoscersi se ci si incontra al bar? La professoressa, vinta dalla stanchezza, prova a convincersene, ma il suo cuore non approva e allora, sebbene le provochi un profondo senso di inadeguatezza, l’insegnamento diventa ancora di più una questione personale. Interviene nella “vita fuori” dei suoi spericolati alunni, esponendosi in prima persona, ingaggiando una battaglia contro le loro dipendenze, pessime abitudini, dubbie conoscenze, traffici illegali. E le questioni personali sono totalizzanti, non te le scrolli di dosso al suono della campanella. Per  questo la prof. se li porta sempre addosso i suoi studenti, incurante della disapprovazione dei colleghi che scuotono la testa di fronte alle sue preoccupazioni, attribuendo la sua abnegazione alla mancanza di una famiglia a cui badare (anche questa è una legge vigente in ogni scuola: gli insegnanti, e soprattutto le insegnanti, si dividono tra chi ha e chi non ha famiglia. E i primi guardano i secondi sempre con una punta di pietà e di sufficienza: l’impegno dei senza famiglia può arrivare fino al sacrificio di sé, ma rimane comunque dovuto, addirittura scontato, dunque meno valido e apprezzabile da parte di chi la famiglia ce l’ha e quindi ha le carte in regola per non potersi dedicare alla scuola con la stessa innegabile generosità). Esilarante, a tale proposito, la parte del libro dedicata agli adulti della scuola, docenti in primis, al loro modo di viverla, di subirla, ai loro rapporti. Il collegio docenti e la sala professori diventano luoghi mitologici fuori dallo spazio e dal tempo, in cui si parlano ancora altre lingue, quella tecnica della burocrazia didattica e della normativa amante delle sigle, nel primo, quella dell’esasperazione e della vendetta, tipici della fine del secondo quadrimestre (“io quest’anno lo boccio, non me ne frega niente, … l’ho aiutato sempre, stavolta lo boccio”), nella seconda. E se noi insegnanti ci ritroviamo ancora una volta davanti allo specchio, alla possibilità di guardarci da fuori e provare a capire qualcosa in più di noi stessi, chi insegnante non è può accostare l’occhio al foro segreto che la storia della pressore’ e dei suoi alunni apre tra le pareti di una scuola unica e uguale a ogni scuola, e da lì stare a guardare. Cogliere l’occasione per provare a sfiorare la complessità di un mondo, di un rapporto e di una professione di cui troppe volte si parla senza saperne abbastanza.

Teresa Vanalesti in Facciamo scuola. Oltre l’istruzione patriarcale