Pensa a una donna che scrive. Chiudi gli occhi. Che cosa vedi?
Tu che leggi DWF avrai probabilmente una riserva di immagini nette, ricche, variegate e potenti. Ma fuori da questa bolla, una donna che scrive più probabilmente è un quadretto sfocato, fantomatico, domestico forse.
Nel 1983, Joanna Russ pubblica How to Suppress Women’s Writing, tradotto in italiano solo nel 2021 da Dafne Calgaro e Chiara Reali. Le cose non sono cambiate granché in quei decenni, o adesso. I preconcetti inconsci con cui definiamo cos’è e cosa fa una scrittrice donna (o una persona che scrive appartenente ad altri “gruppi sbagliati” per colore, classe, genere) sono sempre gli stessi e servono a creare un Altro in confronto a cui Io (scrittore uomo bianco istruito borghese – metro di tutte le cose) sono migliore. Una donna che scrive, quindi, sembra scaturire solo dalla forza avversativa di un gigantesco eppure. Non è un uomo, eppure scrive. Nessuna lo ha fatto prima di lei (dicono), eppure scrive. Non sa niente e non ha niente da raccontare (parrebbe), eppure scrive.
La ricerca di Russ passa in rassegna i divieti e le strategie usate da sempre per «arginare, condannare, sminuire, mettersi al riparo dalla scrittura delle donne». Lo fa smontandoli uno a uno con un profluvio di esempi di scrittrici spesso – ovviamente – poco note, lasciandoci quindi anche numerose possibilità di porre rimedio alle nostre stesse lacune. In particolare, la postfazione dell’autrice – “giustizia poetica” – ci regala un corposo elenco di scrittrici razzializzate, ancora più fuori da qualunque canone.
Russ non traccia la storia di un complotto deliberato ma di un atteggiamento sessista (e razzista e classista) che per lo più ha sfruttato «l’abitudine, la consuetudine, a volte anche le buone maniere» per mantenere il proprio privilegio. Non è deliberato, ma è sicuramente un atteggiamento in malafede, quantomeno.
Ci sono una serie di condizioni reali per cui le donne hanno scritto meno: la povertà, un accesso limitatissimo alla formazione, il peso del lavoro di cura che implica anche una disponibilità di tempo risicatissima e aspettative di altro tipo su cosa fare della tua vita e del tuo tempo.
Eppure. Le donne che scrivono sono sempre esistite. Le donne che scrivono hanno trovato il modo di influenzarsi nel tempo e nello spazio e di creare modelli, canoni e genealogie, anche se “nessuno” se ne è accorto. Invece, nel tempo, le scrittrici hanno iniziato a vedersi e a riconoscerci. Accadeva a Jane Austen che leggeva tantissime autrici, e accade in tempi più recenti in un contesto di sorellanza femminista in cui le scrittrici si parlano l’un l’altra, direttamente o meno.
I libri scritti dalle donne sono stati scritti proprio dalle donne. Non si sono scritti da soli (come, nel 1949, il critico Mark Schorer suggerisce che in qualche modo sia accaduto con Cime tempestose), non sono stati scritti da “l’uomo in lei” (come Colette suggerisce delle sue stesse opere) – la negazione dell’agency, il mancato riconoscimento della capacità è il primo strumento per segare le gambe alla scrittura delle donne e respingerla nell’inesistente. Se le donne hanno scritto, comunque non avrebbero dovuto perché – diciamocelo – è immorale. Jane Eyre «ha violato ogni codice umano e divino […] ha promosso cartismo e ribellione», recensiva nel 1848 la Quarterly Review.
Purtroppo, poi, le scrittrici donne hanno questo grosso difetto di non essere uomini, e quindi di essere automaticamente inferiori. Posizioni costruite ed espresse attraverso l’uso degli stereotipi di genere, di una definizione di donna “giusta o sbagliata” che niente a che vedere con lo scritto in sé, comunque letto e analizzato attraverso la lente di una critica fallica, come la definisce Mary Ellmann, che reagisce sminuendo tutto ciò che non è virile. Quindi la scrittura è l’ennesimo campo in cui valgono due pesi e due misure, strategia elementare, “quasi innocente” – perché certo che viviamo esperienze diverse, ma diverso non può significare più o meno importante di. Che è il modo in cui, invece, questa tecnica di silenziamento viene applicata.
Le donne scrivono di cose non importanti? Oppure sarà che, semplicemente, le donne scrivono di altro? Se applichiamo un unico standard “giusto” che ha sempre la solita forma dell’esperienza di un uomo bianco, etero, benestante ecc, tutto quello che esce da questo (monotono) confine è non-giusto, non-importante, non-prezioso, non-interessante, non-buono, non-necessario. Il tentativo di invisibilizzare l’esperienza femminile (e degli altri gruppi “diversi”) cerca di rimpicciolire la visione a un unico punto di vista, quello patriarcale. Invece, l’universo non ha nessun centro, e solo con un atto di re-visione e ri-posizionamento al margine puoi davvero (cercare di) abbracciare l’ampiezza della mappa reale. Altrimenti succede come nelle antologie, dove tendenzialmente la quota di scrittrici equivale al 5-8% e quando finalmente una scrittrice donna viene riconosciuta come tale, è sempre un caso unico, una rarità, l’anomalia che tutto sommato non si spiega. Non ci sono scrittrici prima di lei, non ci sono scrittrici dopo di lei. Così si assicura definitivamente una marginalità permanente alla donna che scrive. «Quando la memoria delle antenate resta sepolta persiste l’assunto che non siano mai esistite, e ogni generazione di donne crede di avere l’onore di ricominciare tutto da capo. […] Senza modelli, risulta difficile lavorare. Senza un contesto, difficile valutare. Senza pari, quasi impossibile parlare».
Eppure.
Mara Bevilacqua in Facciamo scuola. Oltre l’istruzione patriarcale