Lea Melandri e Cattive Maestre (2024), dietro la cattedra, sotto il banco. il corpo a scuola, Prospero editore

dietro la cattedra, sotto il banco. il corpo a scuola è un prezioso pamphlet edito da Prospero Editore a novembre 2024. Raccoglie riflessioni e pratiche sul senso più profondo di ciò che significa insegnare nella scuola di tutti gli ordini e gradi a partire da una prospettiva di genere.

La prima parte è firmata da Lea Melandri, scrittrice e femminista di lunghissimo corso, che qui sintetizza la sua ricchissima esperienza sul campo e di elaborazione sulle relazioni di genere e sulla scuola. Partendo da quello che lei descrive sempre come un momento fondamentale di svolta nella sua vita, cioè l’incontro/scontro con la scuola superiore da studentessa, passando per gli anni di insegnamento alle medie prima e con donne adulte poi, Lea ci regala innanzitutto un quadro storico dei movimenti antiautoritari nella scuola e del contributo che hanno dato all’elaborazione di teorie, pratiche  e strumenti di divulgazione, come la rivista “L’erba Voglio”. Attraverso il racconto della sua storia incontriamo conquiste democratiche fondamentali del mondo dell’istruzione post-Sessantotto, come le 150 ore per il diritto allo studio e le lotte che le casalinghe hanno fatto per ottenerle contro la miopia sessista dei sindacati, ma anche la dura repressione subita dall? insegnanti di allora. Quest?, non potendo ignorare la palese contraddizione fra il lavoro di decostruzione e autocoscienza fatto all’interno dei movimenti femministi e il ruolo di “ancelle” del sapere maschile che l’istituzione chiedeva loro di ricoprire, hanno introdotto nelle loro classi le pratiche e i concetti fondanti del femminismo, primo fra tutti: “il personale è politico”, subendo per questo pesanti ammonimenti e sanzioni. 

Non va meglio di questi tempi. Nella seconda parte del libro troviamo i contributi scritti dall? insegnanti (di ruolo e precarie, di diversi ordini e gradi) che formano il collettivo “Cattive Maestre”, costituitosi in concomitanza e in aperta contrapposizione all’emanazione della legge “Buona scuola” del governo Renzi nel 2015. Anche loro, recentemente, sono entrate nel mirino del ministero Valditara per essersi pronunciate pubblicamente contro la “scuola del merito” e contro le “linee guida sull’educazione al rispetto”. 

Partendo da sé e dalle proprie specifiche difficoltà ed esperienze nella scuola, dalle classi dell’infanzia a quelle delle superiori, le autrici restituiscono sia il frutto della loro elaborazione teorica collettiva, che esempi di pratica didattica individuale, utilissimi e urgenti per chi, nell’isolamento e nella confusione prodotta dalla tempesta di riforme e tagli subiti dall’istruzione da trent’anni a questa parte, cerca di dare un senso politico ed etico al proprio lavoro nelle classi.

Illuminante quanto necessaria è l’analisi, che si può ricavare dal testo nel suo complesso, sulla figura dell’insegnante in un’ottica di genere: la confusione fra professionalità e sacrificio, fra didattica e accudimento, fra tempo del lavoro e tempo della vita non è una caratteristica intrinseca alla professione, ma una costruzione culturale e politica, funzionale allo sfruttamento delle lavoratrici della conoscenza e della formazione e al loro svilimento professionale.

La naturalizzazione millenaria dei ruoli di genere, in particolare dell’esclusione delle donne dalla polis (spazio pubblico inteso come luogo dell’ingegno umano tradotto in azione e parola), deve essere la lente con cui analizzare ogni aspetto della società e della storia, e del modo in cui lo raccontiamo. Per Melandri il punto di partenza è prendere coscienza della guerra che da sempre viene perpetrata nei confronti delle donne. Ne consegue il paradosso per cui, dal momento in cui la presenza femminile nel corpo docente nelle scuole è diventata maggioritaria, le insegnanti sono state chiamate dalla società a svolgere il proprio lavoro come un “Giano bifronte”: “madri-maestre” ritenute biologicamente adatte alla cura dell? discenti, e contemporaneamente portatrici di un sapere e di una visione del mondo del tutto maschile, che le esclude da millenni. Come non pensare ai manuali scolastici di ogni disciplina, dai quali sono state sistematicamente espulse le numerosissime donne che dall’antichità ad oggi hanno plasmato e modificato il mondo con il loro pensiero e la loro arte? Come non trovare terribilmente e colpevolmente inadeguate le istituzioni che rifiutano, sventolando lo spauracchio del gender, di rendere la scuola il motore del cambiamento culturale necessario all’eliminazione della violenza di genere?

L’educazione sessuo-affettiva e il lavoro di decostruzione degli stereotipi di genere sono affidati all’iniziativa sporadica dei singoli istituti e, più spesso, dell? singol? insegnanti, visto l’ostruzionismo feroce fatto per decenni da associazioni anti-scelta, cattolici e partiti di vario colore all’introduzione di programmi ministeriali obbligatori.

A questo proposito è importantissimo un tema che ricorre nei testi delle Cattive Maestre: il senso di solitudine, e conseguente frustrazione, in cui si ritrovano tutt? l? insegnanti, e in massimo grado quelle che desiderano e pretendono di fare scuola mettendo in pratica ciò che il femminismo intersezionale insegna loro. 

Anche alla luce di questo risulta particolarmente interessante in questo libro il fatto che non contiene solo teoria e condivisione di esperienze, ma anche descrizione di pratiche didattiche, elaborate dalle autrici e sperimentate sul campo, che mirano a mettere al centro il “sottobanco” dell? student?, a rendere tema il “fuori tema”.  Questo fornisce all? lettor? non solo una piccola “cassetta degli attrezzi” di pratiche replicabili, ma anche la possibilità di comprendere il processo attraverso cui le autrici ci sono arrivate: andando a volte a tentoni, perfezionando, “fallendo” e addrizzando il tiro, adattando di volta in volta le attività a sé stesse e all? discenti che hanno di fronte. 

Un’attenzione particolare viene data alla pratica della scrittura ed alle diverse opportunità che offre come strumento per narrarsi, per strutturare il linguaggio, il pensiero ma anche l’identità propria e degli altri. Così Elisa Amato racconta la centralità che dà al “pensierino” come contenuto che viene prima della forma, Elisabetta Careri propone l’”autobiografia linguistica” per dare corpo al plurilinguismo delle sue classi, giuliana Visco lavora sulle tracce dei temi in modo che siano un modo per “partire da sé”, Lea Melandri illustra il risultato di anni di ricerca e pratica su quella che chiama “scrittura d’esperienza”, strumento potentissimo di “mineralogia del pensiero”, sviluppata attraverso la scrittura per frammenti.

Tutto questo è particolarmente importante dal punto di vista della condivisione: nessun corso di abilitazione o di aggiornamento ci ha insegnato niente di ciò che ci serve in questo senso, e inventarsi la scuola trasfemminista ti fa sentire costantemente un salmone che risale la corrente, facendo una fatica mortale, in solitudine e senza sapere se arriverai da qualche parte. Autoformarci in modo orizzontale, mettendo saperi e pratiche a disposizione di tutte coloro che ne hanno bisogno è la strada giusta.

In questo lavoro viene messa al centro l’urgenza di strappare il sapere e la sua trasmissione ad un’istituzione sempre più aziendalizzata, che ribadisce, ad ogni riforma e dichiarazione pubblica, il suo asservimento al mondo del lavoro precario e sottopagato e il suo rifiuto di prendere in carico e affrontare radicalmente la violenza e il disagio subiti dalle giovani vite che popolano le aule. Se la scuola non si assume la responsabilità di mettere al centro “il personale” inteso come vite, corpi e storie delle persone che la popolano, al di qua e al di là della linea che divide l’aula fra cattedra e banchi, è ridotta a disciplinamento, a trasmissione violenta dello status quo, a luogo di riproduzione di tutte le disuguaglianze, tradendo di fatto la sua missione costituzionale. 

Partire dall’assunto che “il personale è politico” e che di conseguenza la scuola è politica, è la direzione indicata per resistere e costruire un’alternativa.

Renata Morizio in Gattebuie