“Non sono l’unica lesbica al mondo!” è la frase che segna l’inizio della liberazione per una soggettività, quella lesbica, sottoposta principalmente al dispositivo repressivo della cancellazione e del silenzio. (…) Il superamento dell’obbligo sociale e culturale all’eterosessualità presentata come norma, nel nostro paese come altrove, è stato possibile solo attraverso la politicizzazione, quindi attraverso la costruzione di un movimento.” Con queste parole si apre il libro di Elena Biagini che segna una tappa fondamentale nel “bisogno di storia politica delle donne” (Rossi Doria 1986 in Biagini 2018), proponendo per la prima volta una ricostruzione organica dell’emersione del movimento lesbico in Italia tra gli anni ’70 e ’80. Se la storiografia ufficiale ha dedicato ampio spazio alla stagione dei movimenti e al movimento femminista, specialmente tra gli anni ’60 e ’70, sono poche le voci che abbiano restituito la nascita del lesbismo come fenomeno politico, in un silenzio che ha storicamente relegato nell’invisibilità ciò che “le donne con le donne possono” (Biagini 2018:11).
L’autrice, Elena Biagini, ha condotto la ricerca da cui nasce questo testo nel corso del dottorato in Studi di Genere dell’università La Sapienza di Roma. Come racconta lei stessa, il desiderio di condurre la ricerca nasce da un posizionamento personale, quello di femminista lesbica e attivista, decisa a ricostruire la genealogia del movimento che lei stessa ha vissuto dagli anni ’90 in poi, ma i cui primi fermenti si rintracciano con fatica tra gli archivi e la storia orale. L’internità di Biagini all’oggetto di studio è determinante nello svolgimento della ricerca e delle interviste ad attiviste del tempo, la cui fiducia accordata è dipesa da “una dichiarata condivisione politica” (ib, 12). Biagini sceglie infatti di affrontare la ricostruzione (monumentale) dell’emergere del movimento lesbico in Italia attraverso una minuziosa ricerca di archivio – prevalentemente a Roma ma anche a Firenze, Bologna, Torino – e la raccolta di 43 interviste alle protagoniste. “Femminismo e storia orale confluiscono nel riconoscere il “personale” come un importante obiettivo di indagine e nello sfidare la tradizionale “oggettività” delle scienze sociali. (…) La storia orale è stata anche uno strumento specifico delle indagini di storia delle donne degli anni Settanta, quando è stata scelta da più ricercatrici con la finalità dichiarata di “dare voce alle oppresse”, alle “senza voce”, in una dialettica in cui l’oggetto dello studio di fa soggetto – o meglio soggettività – e l’intreccio e l’empatia tra chi intervista e chi è intervistata è determinante” (ib, 12-13). Poiché “la memoria collettiva, anche quella dei nostri movimenti, è molto fragile” (ib, 9), rievocarla tramite la voce delle dirette interessate significa restituire un volto, un corpo, una storia, a uno sforzo collettivo spesso cancellato dagli annali ufficiali.
Non a caso, la ricostruzione genealogica si apre con il corpo e il volto di Mariasilvia Spolato, tra le prime donne omosessuali (come inizialmente decidevano di chiamarsi) a prendere parte al Fuori! – Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano – fin dai suoi esordi nel ’71, poi passata alla storia (anche se solo recentemente riscoperta) a causa di uno scatto apparso su Panorama che la ritraeva durante il corteo dell’8 marzo 1972 con un cartello con scritto “Liberazione omosessuale”, che le causerà il licenziamento. Il volto e la storia di Mariasilvia, così come quelli di Bianca Pomeranzi, Edda Billi, Giovanna Tatò, Liana Borghi e innumerevoli altre, sono al centro di un affresco dove alla storia collettiva si affianca quella personale e intima, agli esiti anche drammatici di percorsi individuali o politici, la lievità degli aneddoti e della gioia della politica tra donne.
Biagini sceglie di iniziare il racconto di questa storia attraverso la partecipazione di alcune donne lesbiche al Fuori!, una tra le prime organizzazioni omosessuali del tempo. La radicalità di queste prime esperienze segna anche l’emersione delle Brigate Saffo a Torino e le sperimentazioni della vita collettiva tra donne (nelle case, nelle palazzine, nei centri culturali), dove si prova a dare vita a quelle “terre lesbiche” a misura dei propri desideri, per “costruire nuove forme dell’abitare e reimparare antichi saperi, cercando di dare spazio e strumenti alle culture delle donne (ib, 62-63). L’occasione del ritrovarsi tra donne viene ripercorsa per tutti gli anni ’70 attraverso le esperienze dei raduni, dei convegni, degli incontri trans-alpini, in un’epoca in cui il femminismo diventa fenomeno di massa. Proprio nell’alveo del femminismo, per conflitto o per prossimità, inizia a prendere forma l’esperienza del lesbofemminismo, poi sviluppatasi negli anni ’80 attraverso importanti esperienze come il Cli – collegamento lesbico italiane, Linea lesbica fiorentina, il Tiaso e molti altri. All’atomizzazione dell’esperienza dei singoli collettivi che, spesso distanti dal dinamismo della capitale, fanno fronte a una condizione di provincialità politica e sociale, risponde un rinnovato impegno nella messa in connessione, anche attraverso i convegni lesbofemministi nazionali, occasioni di incontro e ritrovo. Proprio nei primi anni ’80 un discrimine viene segnato dall’uscita del cosiddetto Sottosopra verde, atto di consacrazione del femminismo della differenza, che per lunghi anni accende il dibattito interno al movimento lesbico.
Il libro, mai didascalico né celebrativo, attraversa l’emergere del movimento lesbico svelandone limiti e contraddizioni, alla ricerca di una storia incarnata nelle parole e nei corpi. Una storia che non racconta l’emergere delle donne che amano le donne ma quella di un soggetto politico che trasforma il personale/politico in un grimaldello che scardini la cultura, le relazioni, il potere maschile.
Il libro è un atto politico in sé. Se politica è la capacità di incidere nell’immaginario collettivo trasformandone i presupposti e gli esiti, allora la volontà di scrivere questa storia segna un’affermazione politica di visibilità ed esistenza. Nel resistere alla storiografia ufficiale, ai silenzi, decidendo di raccontare la storia del movimento lesbico, Biagini chiama in causa ognuna di noi, nelle proprie differenze, a partire dal vissuto incarnato di donne, lesbiche, femministe, per riscrivere una storia collettiva che nessun’altro, se non noi stesse, possiamo tramandare.
Le presentazioni stesse del libro stanno rappresentando un’occasione di riunione della comunità – una comunità eterogenea che comprende le attiviste di allora e le nuove soggettività lesbiche, femministe, queer. Il libro ha la capacità di interagire con generazioni diverse, trasformandosi in uno strumento di connessione e dialogo dove generalmente regna la frammentarietà. Più che lettera morta questo pezzo di storia è infatti una domanda aperta per i movimenti contemporanei, che sul crinale del corpo, della sessualità, del genere, costruiscono pratiche politiche le cui genealogie sono ora finalmente riconoscibili.
In chiusura, ciò che emerge da questo lungo viaggio è una mappatura che non nasconde luci e ombre, la frammentarietà e potenza del movimento lesbico nascente in Italia, “la difficoltà, legata alla visibilità, di presentarsi pubblicamente come lesbiche: può ingaggiare battaglie politiche solo chi si è assunta politicamente e pubblicamente il lesbismo” (ib, 256). Ma emerge anche l’orgoglio e la tenacia nell’affermare la propria vita come sottrazione all’eterosessualità obbligatoria, e quindi alla norma maschile e patriarcale, come affermazione di una insopprimibile rivoluzione permanente.
Giada Bonu in DWF (120), In movimento. Conversazioni politiche, 2018, 4