Martina Miccichè (2024), Femminismo di periferia, Sonda

La notte del 22 luglio 2024 il ballatoio di una delle Vele di Scampia è crollato, uccidendo tre persone e ferendone dodici. Lo stato delle periferie urbane italiane (e non solo) è cosa nota. Il degrado fisico in cui versa la gran parte del nostro patrimonio di Edilizia residenziale pubblica (le “case popolari”) è dovuto al suo progressivo abbandono da parte dell’azione pubblica. La segregazione e l’impoverimento di chi abita in questi quartieri, allo stesso modo, è frutto della mancanza di politiche strutturali che investano in servizi, economie, istruzione. Se già numerose autrici hanno indicato lo spazio urbano come luogo di patriarcato, di esercizio di violenza di genere strutturale, di negazione dei diritti delle donne, le periferie amplificano ulteriormente, o forse rendono più visibili, le diseguaglianze strutturali che permeano le nostre città.

Anche l’autrice di Femminismo di periferia viene da un quartiere di edilizia popolare al nord di Milano, Comasina. È da questa provenienza, e dall’esperienza che porta con sé, che si manifesta l’esigenza del libro: «Ci chiamano degrado, pericolo, teppa, delinquenti, puttane. Ci chiamano periferia. Ci danno un nome per potersi dimenticare di noi. Per renderci trasparenti. E noi siamo nelle strade, nelle piazze, nelle case, negli uffici, nelle fabbriche, nelle maglie del mondo sommerso, a ritagliarci uno spazio. A ricordare che ci siamo» (p. 14). 

Femminismo di periferia è un libro che coglie un’urgenza politica del presente: riguadagnare quello sguardo che permette di praticare il margine come spazio di possibilità e di resistenza (bell hooks), che dai margini guarda ai margini.

L’autrice allarga questa prospettiva esplorando diverse accezioni di periferia, guardano al contesto italiano e richiamando esempi da Paesi del Sud globale. Ricuce le modalità in cui le aspettative di genere agiscono in maniera evidente sulle donne, espropriate dei propri corpi, destinate all’onere della cura, la maternità e i comportamenti dimessi, avviate alla coincidenza con identità funzionali e a un’esperienza della città costantemente negata. Ma ci restituisce come tali aspettative, allo stesso tempo, cristallizzino il maschile, educato al lavoro e a misurare il proprio valore sull’accumulo economico, cosa che complica la vita a chi, più di altri, è colpito da precarietà e disoccupazione. Ecco allora che parlare di femminismo di periferia esige un richiamo al carcere, approdo troppo scontato per chi non riesce a trovare risposte sul proprio territorio: un approdo che forza anche il femminile su aspettative di redenzione e responsabilità, così come sulla pena accessoria delle lunghe attese, peggiorate dalla dipendenza economica a cui chi soffre di insicurezza lavorativa cronica è, evidentemente, inchiodata.

Nel testo si parla della fierezza e dello stigma che innervano il vivere in contesti periferici. Nei media e nel discorso pubblico, vivere in periferia è ancora troppo spesso una colpa, nonostante «cosa ci sia di intenzionale nel partire svantaggiati in un mondo iniquo non è dato saperlo, perché il vero potere della cultura egemone sta proprio nel non doversi mai spiegare. Il potere si esercita e si ripete, non si giustifica» (p. 108).

Con un volo d’uccello Miccichè attraversa i cambiamenti climatici, carnismo e specismo, affondando anche su come gli animali non umani selvatici – dunque non produttivi né cosificati nel domestico da compagnia – vengano espulsi con violenza non appena ardiscono l’ingresso nello spazio del nucleo cittadino umano. Le lotte che l’autrice nomina sono solo apparentemente sconnesse: Miccichè evidenzia come le crisi ambientali vengano costantemente periferizzate, sia nella loro collocazione (evidente l’allontanamento delle discariche – così come di tutto ciò che reputiamo problematico) che nei loro impatti, considerando che le maggiori responsabilità nelle emissioni di gas serra sono imputabili ai Paesi del Nord del mondo mentre i danni più feroci a quelli del Sud; e in questo quadro sono donne e soggettività marginalizzate a essere maggiormente interessate dagli effetti delle crisi, essendo coloro che subiscono quella che Miccichè chiama “periferizzazione politica”. 

Si tratta di processi comuni a persone e luoghi, collettività e interi territori. Ciò che l’autrice non esplicita, ma in fondo suggerisce, è che periferia “è un verbo”: esso raccoglie quei processi di oppressione che determinano chi è in vetta e chi in fondo agli assi su cui si costruisce la nostra società; chi è necessari? come bacino di forza lavoro e cura senza però poter vantare un’effettiva parità di diritti. Ecco quindi che donne, soggettività razzializzate, corpi e sessualità fuori norma sono costantemente periferizzate nei contesti urbani, con un’inclusione differenziale decisamente opportunista.

«Lo stare dentro le cose ma non sentirsene parte è un dolore acuto» (pag. 71). Crescere e vivere in periferia espone all’accumulo di respingimenti, rifiuti, stigmatizzazioni. Il libro di Miccichè trasuda la rabbia di chi ha esperito la periferia e ha scelto una postura critica e rivendicativa nel raccontarla, con un registro lessicale che rende evidente il posizionamento dell’autrice nell’attivismo e nella costruzione di lotte collettive. E infatti il libro chiude con un capitolo dedicato alle resistenze, intese come quelle pratiche condivise che, dal basso, lavorano a rendere i propri luoghi più giusti e più vivibili, creando con la cooperazione ciò che la città non offre e rivendicando «la periferia come spazio di esistenza e resistenza» (p. 148).

Femminismo di periferia è un libro che vuole partire da sé e dal proprio vissuto, nonostante la Comasina non si prenda lo spazio che le vorremmo dedicato all’inizio della lettura. Attraversare queste pagine fa venir voglia di saperne di più, di recuperare le storie delle soggettività che vivono nei quartieri di edilizia pubblica, delle scelte, le ambizioni, le condizioni di esistenza materiali e immateriali che ne caratterizzano la quotidianità. È un libro che invita a nuove alleanze territoriali femministe, che tornino (o comincino) ad ascoltare le periferie e le voci che le raccontano, riconoscendo intersezioni e specificità delle lotte e scoprendo modalità inedite di costruire sorellanza.

Serena Olcuire in Femministe col Bot