L’ultimo testo di Rosi Braidotti pubblicato in italiano, tradotto e curato da Angela Balzano, è una raccolta di saggi che mette al centro la dimensione affermativa dell’etica e della politica. Si tratta di contributi diversi, ma accomunati dalla tensione a intervenire nel dibattito pubblico contemporaneo in maniera forte e situata, utilizzando traiettorie di teoria nomade e echi spinoziani e deleuziani come strumenti per agire nel presente. Il filo conduttore di questo lavoro, infatti, potrebbe essere quello di offrire punti di appoggio per resistere, intendendo con questo, come sottolineano Balzano e Braidotti nella ricca introduzione, l’atto di «impegnarsi in un tenace e costante lavorio etico-pratico, artigianale e quotidiano, che attraverso l’attività potenziante dei desideri singolari costruisce nuove pratiche e nuovi discorsi, sperando siano in grado di sabotare le macchine paranoiche e nevrotiche che produciamo abitualmente e i dispositivi di controllo ed esclusione del biocapitalismo» (p. 26).
Il testo si snoda in due parti distinte che già svelano il carattere pratico di questo lavoro. La prima parte, infatti, intitolata Bellezza dissonante e pratiche trasformative, analizza in tre saggi esperienze femministe concrete e incarnate, in un processo che lega Donna Haraway alle Pussy Riot; la seconda parte, invece, racchiude sotto il titolo di Passione politica ed etica sostenibile due saggi che delineano un’etica politica che possa essere in grado di sostenere azioni di politica affermativa. In entrambe le parti al centro del discorso si trovano i corpi e la loro materialità, utilizzati come ancore per tentare di sfuggire alle sirene dell’universalità.
La lettura di questo testo, come dei precedenti della stessa autrice, non si esaurisce in un puro esercizio intellettuale, ma necessita del confronto con altre soggettività. Perciò la scelta della forma da dare a questa recensione è la conseguenza di due incontri: il primo è quello fra le autrici e il testo, il secondo è quello tra le autrici stesse.
Non si è trattato quindi di fare una scelta di stile, ma del tentativo di rispondere a una necessità e di esplorare una modalità di scrittura che permettesse di dire qualcosa che non può essere detto da parte di un soggetto singolo.
Si procederà allora con una sorta di dialogo, a partire dalla consapevolezza che, come afferma Braidotti stessa (p. 57), «non dovremmo mai criticare ciò di cui non siamo complici. Bisognerebbe coniugare la critica secondo modalità non-reattive, con gesti creativi, in modo da aggirare la trama edipica della teoria fallologocentrica».
Crediamo che presentare un testo a partire dalla pluralità sia un modo per rispondere alla chiamata di politica affermativa che questo libro lancia a gran voce, e che un dialogo tra soggetti, e corpi, che abitano seppur in modo differente lo stesso spazio pubblico sia un primo tentativo di gesto creativo nei confronti del testo stesso.
C – Il tema del soggetto è uno dei nodi fondamentali ed è presentato attraverso una concezione positiva (p. 129) che si configura attorno al desiderio e, allo stesso tempo, come un costante divenire che si trasforma perché costitutivamente immerso nelle relazioni. Eppure Braidotti ci parla anche di una fedeltà a noi stesse da ritrovare in una fedeltà a ciò che ci attrae, a ciò che ci dà gioia. Rimane, però, aperta la domanda su come stabilire un limite a questo avvicinamento al piacere, necessario per un progetto etico come quello del testo.
E – Già nelle prime pagine del testo si afferma la necessità di «elaborare una politica dell’immanenza e dell’affermazione, che richiede cartografie politiche precise di rapporti di potere dai quali siamo attraversate/i», rapporti di potere che si declinano in termini di genere, orientamento sessuale, razza, ecc. ma che hanno come comune denominatore l’economia politica neoliberale. Mi sembra che qui il soggetto nomade si possa ben coniugare con una politica del posizionamento e che il soggetto sia lontano dall’essere l’individuo neoliberale spesso problematico e soggetto a critiche nelle teorie costruttiviste o postrutturaliste.
C – Il soggetto per Braidotti è sempre corporeo: per questo analizza i movimenti femministi contemporanei e le loro pratiche che rimettono al centro della scena i corpi, come reazione ad un contesto che fa della visibilità un valore. Nello specifico utilizza le Pussy Riot per promuovere l’idea che l’attivismo politico, oggi, debba essere anche attivismo socio-culturale, considerando la cultura un’arena e un luogo di identificazioni. Ma basta mettersi una maschera o un passamontagna per sfuggire alla macchina della visibilità? E cosa succede se la maschera cade?
E – Credo che rimangano sempre i corpi con la loro vulnerabilità e le loro specificità, la maschera non è un meccanismo che neutralizza ma che moltiplica il soggetto, perché chiunque può indossarla e sfuggire così alla logica del simbolo. Quello che mi sembra invece qui manchi è un’analisi più contestualizzata dei movimenti che vengono citati, vedo bene un filo conduttore tra le riot grrrl degli anni Novanta e le Pussy Riot, ma si deve tener conto anche delle differenze storico-culturali.
C – Proprio analizzando i movimenti Braidotti rivendica più volte la necessità di una politica affermativa, capace di non limitare la critica al negativo e di esprimere un gesto etico inteso proprio come modo di trasformare i conflitti in relazioni concrete. In questo senso vi è una forte apertura al futuro come spazio di possibilità. Ma come fare i conti con eventi e paure che ci schiacciano? Braidotti rifiuta la psicologizzazione che riduce i traumi collettivi a lutti individuali e propone delle trasformazioni collettive dell’immaginario, ma senza cancellare del tutto l’aria utopistica di questa possibilità di trasformare il negativo in gioia.
E – Ricorrono più volte i riferimenti a Deleuze e a Spinoza in questo invito alla politica affermativa e ad un’etica affermativa (più volte queste vengono messe sullo stesso piano), tanto da sostenere che «una scelta che ci rende eticamente migliori aumenta la nostra potentia e crea energia gioiosa durante il processo» (p. 129), nonostante questo, il soggetto è anche inserito in un contesto storico e non sfugge il conflitto con altri soggetti, elemento che Braidotti riconosce nella critica di Hegel a Spinoza. Quel che rimane in dubbio è che cosa sia e come si declini questo futuro rispetto al soggetto immanente.
C – Infine, un tema che ci tocca da vicino, immerse come siamo nella precarietà dell’accademia. Braidotti prende spesso posizione contro l’immobilismo e il conservatorismo delle istituzioni, in particolare di quelle universitarie e ci ricorda che il sapere può essere motore di resistenza, e non solo di potere. Ma mi chiedo, è possibile essere dentro e contro l’accademia da una posizione precaria? Ovviamente sì, ma a che prezzo? E lavorare negli interstizi della norma, senza essere in una posizione di potere che consenta di prendere parola con più forza, non rischia di logorare? La soluzione sarebbe ancora una volta ricercare dimensioni collettive, ma come farlo quando le condizioni materiali sono tutto fuorché affermative?
E – Braidotti riprende il tema del rapporto tra accademia e attivismo che ha una lunga storia nell’ambito del femminismo e dei Gender Studies. La questione ora si fa sempre più urgente ma trovo che da questo punto di vista l’Italia sia un terreno fertile per questa discussione, a partire dal fatto che Gender Studies e Queer Theory rimangono tuttora indisciplinati, ovvero non appartengono a nessun dipartimento/disciplina. Concordo che la soluzione sia da ricercare nelle dimensioni collettive, ragionando sulle contraddizioni dell’accademia proprio a partire dal proprio posizionamento, come ci dimostrano le recenti discussioni che hanno seguito il convegno del CIRQUE all’Aquila.
Carlotta Cossutta e Elisa Virgili in DWF (114) Escursioni. Scritti femministi oltre confine, 2, 2017