Un’intuizione madre: il bolo; una favola di Andersen; il femminismo e la psicanalisi come pratica politica e ricerca di sé; la lingua del nemico; la scrittura come scomposizione dell’ identità. Questi i fili narrativi che, in un sofisticato e originale registro sintattico stilistico, intessono la trama di Quchi. Quello che ho ingoiato(Roma, edizioni E/O, 2022 ) il nuovo libro di Caterina Venturini. La protagonista Carla Longhi, scrittrice italiana quarantenne trasferitasi Los Angeles con la famiglia durante un evento ingoia un boccone che una professoressa le sputa involontariamente in faccia e per imbarazzo e vergogna nei confronti della propria interlocutrice preferisce mandarlo giù. L’atto della peristalsi costituisce l’antefatto del libro, il [pream]bolo da cui si sviluppa l’intera vicenda narrativa. Opera sperimentale, sospesa tra memoir, aufiction e romanzo autobiografico, Quchi è intriso di profonda e raffinata cultura letteraria, dalla letteratura d’avanguardia del Novecento e contemporanea alla letteratura femminista e post-coloniale. Il libro presenta un’ architettura narrativa complessa in cui la trama prende forma dalle pieghe della narrazione che l’autrice, con l’obbiettivo di abdicare ad una storia definita, scrive e dis-scrive, fa e disfa mediante suggestive incursioni performative e metanarrative. Lo scardinamento del piano narrativo avviene in un continuo gioco di identificazione e disidentificazione dell’io narrante che si scompone nella voce dell’autrice, in quella della protagonista e in una polifonia di voci espressionistica e figure che con quest’ultima entrano in dialogo costante: l’agente editoriale, la psicanalista, la madre, il marito ecc.
Il ricorso al dispositivo metanarrativo svela e seziona la stessa storia della stesura del libro: le vicende di Carla coincidono con il processo di costruzione narrativa del libro di cui seguiamo i passaggi e i momenti che l’hanno partorito e pensato, i dubbi, le perplessità e i ripensamenti che hanno indotto l’autrice a scegliere delle parti piuttosto che altre. A tale gioco decostruttivo si presta l’originalità del titolo. Quchi è l’acronimo di quello che ho ingoiato ma al tempo stesso il significante di ciò che nella lingua inglese rimanda al biscotto, quindi a qualcosa di pronto per essere sbriciolato, ingoiato, assimilato.
Il bolo ingerito da Carla in effetti si sbriciola metaforicamente in tanti pezzi di sé e della sua vita venendo a comporre a loro volta le parti del libro, suddiviso in capitoli ciascuno coincidenti con le esperienze cruciali della protagonista.
Evidente l’influsso psicanalitico di cui risente la scelta narrativa. La manifestazione del sintomo psichico-fisico, dato dall’imbarazzo e dalla vergogna per aver ingerito il bolo, opera uno scavo profondo all’interno del proprio sé fino a resuscitare immagini, ricordi, desideri, angosce connessi alle pulsioni rimosse. Il bolo rappresenta la materia perturbante estranea e familiare al tempo stesso; Il nemico, che tuttavia vien accolto e diventa parte di noi; il simbolo di tutte le cose che Carla si porta dentro, come l’inadeguatezza di abitare nei luoghi e nelle situazioni, a cominciare dalla città adottiva e dalla lingua straniera. Quella lingua che non si attacca, che Carla abita senza sentirla mai veramente propria al punto da non riuscire ad abbandonarsi pienamente nella nuova avventura in terra straniera è una delle chiavi interpretative per comprendere la condizione ontologica dell’outsider, di chi non riesce a stare completamente “dentro e fuori le regole della comunità.”
L’autrice ricorre alla parola come lama affilata, lucida e tagliente, che incide la superficie e squarcia il velo mistificante che nasconde le quotidiane e ordinarie contraddizioni degli ambienti e dei luoghi che ha attraversato e attraversa: l’ambiente universitario e il suo velenoso e sterile cinismo, l’industria editoriale con le sue regole della visibilità, l’ansia da prestazione indotta dal mondo social, il mondo femminista con le sue derive moraliste.
L’inadeguatezza e i conflitti di Carla, il misurarsi costantemente con i suoi limiti, i compromessi raggiunti o schivati, le ansie di non sentirsi una scrittrice compiuta sono sentimenti in cui è possibile rinvenire la condizione antropologica della sua generazione, sui cui tratti l’autrice delinea la figura dell’inetta.
Ispirata a “La coscienza di Zeno” di Svevo l’inettitudine di Carla è intessuta al contempo di molteplici rimandi, talvolta carsici e non esplicitati a testimonianza della poliedricità dell’opera. Formidabile, ad esempio, è l’innesto, come fil rouge allegorico, all’interno dello sviluppo narrativo, della favola di Andersen che Carla leggeva da bambina con il fratello. La storia ha come protagonista un contadino che, recatosi al mercato, scambia il suo cavallo con un altro animale, ma, mosso da un’impagabile insoddisfazione e da irrealizzabili desideri, continua a scambiare un bene con un altro in una continua catena di degradazione fino a trovarsi in mano un sacchetto di mele marce. Questa allegoria, quasi lynchana, tormenta la protagonista, scaraventandola più volte contro un’inesorabile infelice coscienza di sé.
Tuttavia è possibile rintracciare il rovescio ermeneutico della storia: l’approdo di Carla negli Stati Uniti, dopo aver lasciato in Italia, un posto di lavoro da insegnante, una rete familiare amicale e lavorativa, non equivale alle mele marce del contadino, ma è il processo di scambio realizzato da quest’ultimo a richiamare nella mente di Carla l’idea della sua permanenza all’estero come ennesimo traguardo di una ricchezza di esperienze accumulate nella sua vita e come possibilità di liberarsi dalle zavorre del passato, sputando cosi tutto quello che si è ingoiato. In una società dominata dallo scambio del valore economico sono le relazioni e le esperienze a formare il senso profondo del nostro sé e a costituire la nostra ricchezza. Diversamente dall’inetto di Svevo Carla dunque esce dal solipsismo e riconosce il fondamento della propria esistenza nella relazione con il mondo e con gli altri/le altre.
Negli interstizi tra una dimensione esistenziale di estraneità, la ricerca di sé e la consapevolezza della propria autonomia simbolica, l’autrice ha colto la complessità dell’essere intellettuale nell’era dello sfruttamento cognitivo e del conformismo culturale, dell’essere donna e dell’essere femminista in un spazio pubblico ancora segnato dalla cultura maschile.
Questo sforzo emerge con grande maestria nel capitolo sull’aborto, in cui l’incrocio tra la letteratura, vita e politica raggiunge una delle vette esteticamente e stilisticamente più alte. La vicenda dislocata in una tridimensionalità spazio-temporale è narrata attingendo ad un suggestivo repertorio letterario e cinematografico. Il fulcro narrativo della storia, fondata sull’evento originario dell’aborto, evapora in diverse sfumature che contemplano il disciplinamento sul corpo femminile mediante procedure sanitarie astratte e normativizzanti, l’irrappresentabilità nell’immaginario pubblico del corpo femminile in procinto di “espellere la morte”, la creatività generativa associata quella artistica, il rapporto tra vita e morte. L’aborto è la metafora di una missione incompiuta, una ritirata accompagnata dal “calore” delle pagine drammatiche del “Sergente delle nevi” di Rigoni Stern in un esercizio stilistico imponente che trasmette un amore incondizionato per la letteratura come guida e ritrovamento di sé. La condizione di estraneità da un lato tenta un rifugio nella scrittura, pur tuttavia in essa non è concesso abitare pienamente. “La scrittura è sempre uno scarto – dice la psicanalista– rispetto al nostro flusso di coscienza”. Siamo sempre avanti rispetto a ciò che pensiamo di afferrare o incidere. Per questo non siamo. “Non sono dunque scrivo”– afferma Carla con un senso di soddisfazione e consapevolezza.
Angela Ammirati in Non ho l’età. Frequentare la vecchiaia, DWF (134-135), 2022, 2-3