Sono passati alcuni mesi da quando abbiamo cominciato a riflettere a voce su un’intuizione: l’arte e la sua efficacia simbolica – quella che la politica delle donne ha sempre voluto e coltivato per sé, la capacità di trasformare sé e il mondo attraverso il linguaggio – poteva essere una fonte, una sfida, per rimettere in movimento la nostra stessa politica, tanto più di questi tempi, pressate, come siamo, dalla quotidiana inefficacia di tanta parte del discorso politico tradizionale.
Di fronte a questo paesaggio contemporaneo ci siamo poi accorte che quell’intuizione significava anche in qualche modo tornare e rielaborare le origini del femminismo, quando i primi gruppi politici avevano l’arte ben presente e praticata tra loro, pensiamo ad esempio a Rivolta femminile con Carla Lonzi, Carla Accardi e Cloti Ricciardi che scrive qui. L’intuizione è diventata un viaggio che finora si è articolato in quattro numeri-tappa (DWF 67-70).
Il primo Aggiunta e mutamento – preceduto dall’esortazione: “impara dall’arte e non metterti da parte” – è il risultato dei pensieri scambiati tra noi della redazione e alcune invitate. Ciascuna è partita da sé, dunque, per dire del suo rapporto con un’espressione d’arte – dalla letteratura, al cinema, alla danza – per interrogare il rilancio che poteva darsi per la politica. Noi, non artiste ma donne appassionate di politica, di più, di una politica che mette al centro l’aggiunta e il mutamento della realtà a partire dalla pratica delle relazioni. Nell’editoriale “Per la pratica politica” dicevamo che il fatto nuovo da cui partiamo non tiene in conto la sola capacità di comunicazione della parola/linguaggio artistico, che c’è sempre stata, ma le sollecitazioni che rivolge a noi donne femministe.
Il secondo e il terzo numero sono strettamente legati nel “mostrare il cambiamento” che molte donne portano avanti nelle arti performative. Qui la pratica di pensiero si sposta: alcune donne svolgono la loro riflessione in stretta relazione con l’opera di altre, attrici, drammaturghe, registe, donne di spettacolo nella più ampia accezione del termine – Julia Varley, Odile Sankara, Ariane Mnouchkine, Marina Abramovic, Werewere Liking e Caryl Churchill. Si ritrova, negli scritti e/o nel concreto farsi e offrirsi delle messe in scena di sé e del mondo da parte di queste artiste, quella capacità di esprimere il bisogno di senso e di trasformazione che anche noi avvertiamo, e a cui il linguaggio artistico sa dare forma efficace nel confronto attivo con chi ne fruisce.
In questo numero a prendere la parola, si fa per dire, sono le artiste stesse, in risposta ad alcune nostre sollecitazioni*. Cerchiamo di capire cosa possiamo imparare dalle loro pratiche, ascoltandole. E così, come ogni incontro degno di questo nome, facciamo una scoperta: l’arte ha a che fare con il linguaggio, certo, anzi con linguaggi, ma questo non sempre significa condividere immediatamente un medesimo e identico rapporto con la parola. È per questa ragione che in apertura ci si è imposto lo scritto di Marilù Eustachio: parola scarna di un testo quasi letterario che diventa segno visivo, e quindi immagine emozionante, dove l’unica parola autorizzata è quella dentro l’opera stessa, non quella organizzata come un discorso su di essa.
Ancora tattile, fisica, l’opera e la parola di Cloti Ricciardi, che con il corpo compie una rimappatura del tempo e dello spazio, della storia e della città, che è la sua impresa di risignificazione del mondo. È un racconto per lampi emotivi quello di Cristina Liquori, che con descrizioni suggestive riesce a “situare” il suo percorso femminista negli spazi che abita e che lei – architetta che si definisce artigiana – immagina e costruisce. In questa parte del numero, in cui l’opera fisica prevale, o perlomeno alimenta in modo imprescindibile la parola, trova la sua piena collocazione Ida Gerosa, pioniera del legame tra linguaggio informatico e linguaggio estetico, che ci prepara alle sue intense e coloratissime invenzioni al computer.
Con queste artiste siamo messe di fronte a una distanza certa tra chi fa l’opera e chi ne gode, distanza feconda perché può rispondere alla nostra ricerca di vie e di invenzioni linguistiche che nutrano le nostre pratiche politiche. Nel caso delle artiste successive, donne che lavorano direttamente con la parola – poetica, narrativa o critica che sia – le rispettive posizioni sono differenti. Attive da tempo nel femminismo, sul loro rapporto con l’espressione artistica hanno un discorso già riflessivo. Anna Santoro fa emergere l’urgenza di chi fa arte, che di per sé è già l’annuncio di un percorso di aggiunta e mutamento, e del vincolo che stabilisce tra arte e presa di parola attraverso l’espressione: “scrivere, recitare, creare, vivere è fare politica”. Maria Rosa Cutrufelli ci racconta – richiamando in qualche modo le considerazioni di Simone de Beauvoir rilette da Françoise Collin (DWF (68) 2005, 4) – della tensione originaria che lega una donna all’arte, la “prudenza emotiva” da superare vitalmente insieme ad altre. Rachel Blau DuPlessis, infine, che nel parallelismo virtuoso con cui vive il suo femminismo e la sua scrittura, ci offre un contributo prezioso per registrare le differenze di pratiche nel legare arte e politica.
“La distanza tra arte e politica si accorcia solo se i linguaggi che ci riguardano non si limitano all’interpretazione, ma hanno la forza di restituire le cose e i soggetti a loro stesse o a loro stessi, per aprire al desiderio d’infinito dell’arte e al desiderio di felicità nella politica”, abbiamo scritto nel numero di apertura di questo ciclo. Le artiste interpellate non hanno dato una risposta diretta, e tanto meno definitiva, hanno piuttosto mostrato un percorso singolare di mutamento che ha potuto contare sull’aggiunta portata dal femminismo. A noi, oggi che l’aggiunta sembra avere corso con più ricchezza nei linguaggi artistici, di farne qualcosa.
“Come (re)imparare la politica da queste pratiche artistiche?” Nel gesto d’arte di ciascuna emergono alcuni elementi: senz’altro la forza che deriva dal perseguire con determinazione un desiderio di espressione, dall’assumere per sé la posizione di chi inventa o scopre nuove forme e di chi cerca, non meri riconoscimenti, ma comprensione e condivisione dell’urgenza di ridisegnare il mondo. A guardare queste artiste, le loro opere, si riconferma che il partire da sé, dal proprio desiderio, rimane la condizione prima di qualsiasi ricerca che miri a dare e ridare senso alle cose, al mondo.
Ma questo movimento singolare – che nulla ha a che fare con l’individuo triste e isolato cui ci portano questi tempi – si alimenta e si potenzia di un corpo a corpo che queste artiste mantengono con la loro opera, dunque con il loro desiderio e le sue forme. A questo punto del percorso possiamo allora prendere alcune indicazioni: la singolarità dei linguaggi, dei luoghi e delle pratiche da cui nascono, non è un ostacolo. Anzi, vanno interrogati e mantenuti nella loro irriducibilità che una vera ricchezza per attingere a un nuovo senso della realtà.
Insomma, siamo tante e in tanti luoghi – su un palcoscenico tra la Danimarca e Verona, tra il Burkina Faso e Milano, tra l'”Angelo Mai” e Parigi, negli spazi dell’arte contemporanea che si allargano da Roma al mondo – ascoltiamoci per quel che le nostre singole vite ci portano a scoprire e a dire. Ma non è tutto qui. Questi scambi devono avvenire tra donne che stanno nella pienezza di un corpo a corpo con la loro vita, con quel che capita loro, nell’urgenza di raccontarlo. DWF, tra il volontario e l’involontario, ha già avviato il lavoro. È dall’inizio di quest’anno che stiamo discutendo su come, con quali pratiche di relazione, fare rete con donne che praticano “aggiunta e mutamento” in forme diverse ma con la stessa urgenza. Non che questa, del fare rete, sia un’esigenza nuova – abbiamo all’attivo i numeri di sperimentazione: con il gruppo Balena, Stanche di guerra (48) e L’algebra della prevenzione (61-62), con la nascente Matri_x, Genealogie del presente (50-51), con la discussione allargata a Maria Luisa Boccia, Chiara Zamboni, Vita Cosentino, Laura Gallucci, Donatella Alesi, Spazio (57) e con Rosetta Stella, Bufera canto V (65) – da oggi però lo intendiamo come un vero e proprio progetto politico. A risentirci al prossimo numero.
(pc, fg)
Le domande della redazione alle autrici
Puoi raccontarci brevemente il tuo percorso di artista e di donna per presentarti alle lettrici e ai lettori di DWF?
C’è stato / quale è stato – e c’è ancora? – un nesso tra femminismo, pensiero delle donne e la tua pratica artistica?
Il “partire da sé” è un elemento fondante della pratica femminista, anche perché associato alla ricerca e fondazione di un linguaggio; è stato / è così anche per te rispetto all’arte? Ci sono stati cambiamenti nel corso del tempo?
Guardando all’arte nella desolazione del panorama politico attuale, esprimiamo un’urgenza di “aggiunta e mutamento” condiviso – che è per noi un’urgenza politica; nel fare arte, quale è oggi la tua urgenza? Ha a che vedere con la responsabilità politica, con il bisogno di modifi – care il mondo?
La politica e l’arte – quelle che ci piacciono – sono secondo noi un fatto di relazioni; tra chi fa politica, tra chi fa arte, ma anche con chi viene toccato dalla politica e dall’arte. Per produrre “aggiunta e mutamento” bisogna essere – almeno – in due. Quanto conta nella tua ricerca e costruzione di senso, la relazione con un’altra, le altre?
Quale restituzione ti aspetti dalla tua opera o dalle fruitrici della tua opera?
L’arte che ci piace tende non a rappresentare, ma a ri-presentare la verità del mondo, per aprire lo spazio a una giustizia poetica; risuona in te questa affermazione, la condividi? E come si può muoversi per realizzarla?
L’atto artistico ha una sua forza, che chiama in causa chi la esercita e chi la avverte. Che tipo di forza, di energia è? Come si alimenta in te?