Abbiamo scelto di prendere parola da una angolazione peculiare, l’interlocuzione con la domanda – “che cosa vuole una donna?” – che si pone la rivista francese di psicoanalisi penser/rêver nell’ultimo numero dall’autunno 2007. È stata Manuela Fraire a proporre alla redazione questo spunto di partenza che, come tutti i punti di partenza, ha condotto altrove e, soprattutto, altrimenti. L’interlocuzione non è naturalmente specialistica, torna piuttosto a prendere per sé un campo del sapere che assume la differenza tra i sessi, in un modo che giudichiamo tuttora più articolato, per quanto discutibile, di altri, dalla scienza e la tecnologia alla fede e il dogma (che, anzi, questa domanda sembrano saltarla a pie’ pari). Non da ultimo, questa interlocuzione risponde alla vocazione di DWF, un luogo di pensiero che si pone sul terreno delle sollecitazioni dell’attualità, riservandosi però il tempo più lungo dell’elaborazione, quella che rende le questioni inattuali, più ampie rispetto alle scadenze del dibattito mediatico, sociale, politico.
Dice l’editoriale della rivista, l’Argument, che la domanda è una falsa domanda e che, in realtà, si tratta di chiedersi cosa vogliamo da una donna. La psicoanalisi sa del gioco dell’immaginario, delle rifrazioni speculari che si danno in una relazione, tanto più quando si tratta di aspettative, di anticipazioni dei moventi e movimenti dell’altro. Ora, cosa accade quando questa domanda se la pone una donna, da un luogo di pensiero politico come è DWF? La risposta è semplice e lineare, come è emersa dalle discussioni di redazione: una domanda del genere la si formula nel momento in cui la si è già rivolta a se stesse, ossia “cosa voglio io?”. È la versione essenziale della lunga critica alla rappresentanza/rappresentazione che il femminismo italiano ha condotto negli anni Ottanta, figlia dell’obiezione ad essere rappresentata dalle parole di un’altra. Accanto c’è la critica alle pretese universali del discorso che, come ci dice Irigaray, ha preteso che la parola dell’Uno, del Medesimo, valesse per tutti e per tutte, una critica che ritroviamo nelle parole di donne di altre culture, come quelle di Gayatri Chakravorty Spivak.
Siamo dunque nel cuore della crisi della politica occidentale. Al cuore del presente. Interrogato, il presente rivela continuità e discontinuità con i suoi antecedenti. É vero, dice ancora l’Argument, ci sono state donne come Indira Ghandi, Margaret Thatcher, Golda Meir o Elisabetta I, ma questo momento ha un suo tratto peculiare: nelle aspettative rivolte a Angela Merkel, Michelle Bachelet e Segolène Royal entra in gioco il fatto che sono donne. Questo elemento di novità è formulato in modo più stringente da Christian David nel suo Glossario, che ritiene sia diventato “ineludibile” tenere in conto la differenza sessuale. É necessario precisare questo punto, per parte nostra: la discontinuità segna un passaggio d’epoca, un passaggio simbolico. Alle figure del passato, anche recente, la domanda “cosa vuoi tu, che sei /per il fatto che sei/ una donna?” non poteva formularsi esplicitamente in questi termini perché figure d’eccezione, fuori dalla cultura circolante o, fa lo stesso, tutte interne perché tramutate in capi di stato.
Ora la domanda si pone dentro un ordine simbolico che ha prodotto, grazie al femminismo, una rete di significati, di azioni, di narrazioni, che rendono impossibile ridurre a neutro una donna. Per di più, saremmo a un passaggio d’epoca per un altro motivo, la storia sociale, di lunga durata, che da tempo ha trovato il modo per dire della presenza femminile, troverebbe sponda nella storia monumentale, quella degli stati, così che la politica istituzionale sembra recuperare il ritardo che aveva accumulato rispetto ad altri luoghi della società, cominciando a contare donne tra gli incarichi di governo. A ciò va aggiunto che siamo di fronte ad una crisi del sistema simbolico imperante, molti sono i segni dalla recessione economica – che più ad un oggettivo dato di realtà essa è dovuta ad uno scompaginamento di significati e ruoli connessi, un esempio per tutti è il cittadino ridotto a consumatore – al difficile dibattersi tra spinte riformiste e conservatrici della destra e della sinistra. Crisi che porta uomini e donne a pensare che occorre una donna per portare un ordine di qualità differente. Questa forte aspettativa di intervento taumaturgico di miracolosa efficacia è una delle eredità scomode del femminismo: l’attesa di un cambiamento in meglio da una donna perché è donna.
Ma non ha senso parlare di “novità” se non si esplicita, a cominciare da quelle stesse che sono interessate al governo della cosa pubblica, che lo scenario cambia e può cambiare soltanto se si rappresenta la relazione delle une con le altre. Una relazione forte che si fonda su una genealogia ormai salda e riconosciuta. Come è accaduto e come dimostra il contributo a questo numero di due giovani, che danno corpo alla sfida di dichiarare “scacco al re” con una parola piena. Una sfida che possono lanciare, per loro stessa ammissione, traendo spunto dagli incontri avuti in redazione con le donne “precedenti”. Come sempre accade le risposte al quesito che fa anche da titolo a questo numero sono molteplici. Una considerazione però le accomuna: quando una donna scende in politica senza mostrare la relazione che ha con un’altra e il legame tra il pensiero e l’esperienza, resta in una prospettiva incerta, innanzitutto per se stessa.
(pc, fg)RON