A Razan Al Najjar, giovane infermiera
C’è stato un tempo in cui nelle piazze del nostro paese sventolavano bandiere palestinesi, le kefiah si indossavano tutti i giorni, ‘autodeterminazione dei popoli’ era la parola d’ordine di una società civile presente e attiva, vicina e solidale a una popolazione, quella palestinese, che dal 1948 si era vista, progressivamente, portare via la terra, le case, i sogni, le speranze, in quello che è definito da sempre conflitto israelo-palestinese o questione palestinese. La storia della difficile convivenza tra israeliani e palestinesi, o meglio la storia dell’occupazione sionista della Palestina, con la complicità della comunità internazionale, è nota ai più. Libri di storia, romanzi, letture e riletture, cronache e testimonianze, denunce e, più recentemente, la documentazione fotografica e video che attraverso il web e i social arriva quotidianamente sui nostri pc e smartphone, raccontano del dispiegarsi del colonialismo e delle sue tracce e modalità contemporanee, di uno stato di occupazione militare, diaspore, campi profughi, apartheid, guerre, attentati, tunnel clandestini, terrorismo, conflitti di civiltà e di religione, violenza, morte, disperazione, assedio, muri e filo spinato, resistenza.
C’è chi – come noi – tutto questo l’ha visto con i propri occhi andando in Palestina, calpestando quella terra, per studiare, per conoscere, per confrontarsi, per toccare con mano quella questione palestinese che ci pone di fronte, in quanto femministe, alle contraddizioni di una lotta che ha i colori del nazionalismo, che si fonda sulla rivendicazione dello Stato e dell’identità, ma che vede comunque le donne protagoniste.
Con questo numero abbiamo voluto affrontare la relazione tra le palestinesi e la loro terra mettendo al centro la resistenza, una doppia resistenza: all’occupazione israeliana e alla società patriarcale palestinese. Lo abbiamo fatto seguendo un triplice percorso:
- mettere a tema il rapporto tra femminismo e nazionalismo, in un contesto in cui entrambi cambiano di segno quando la prospettiva non è quella ‘occidentale’ o quest’ultima viene messa in discussione;
- dare voce e corpo alle donne palestinesi che vivono sotto occupazione in Cisgiordania e a Gaza o che vivono altrove perché figlie e nipoti della diaspora;
- interrogare la relazione che esiste tra la lotta delle donne per la Palestina e la battaglia delle donne per la liberazione dalla cultura patriarcale, attraverso la vita quotidiana, l’arte, la letteratura, la musica, la rappresentazione.
Non è stato facile, innanzitutto per la situazione che la Palestina, e in particolare la Striscia di Gaza, sta vivendo in questi mesi. Dallo strappo del Presidente USA, che ha trasferito l’ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, riconoscendo di fatto quest’ultima come capitale israeliana; alla Grande Marcia del Ritorno, partita da Gaza il 30 marzo (Giornata della Terra), che segna l’espropriazione da parte del governo israeliano di terre di proprietà araba, avvenuta il 30 marzo 1976, le proteste e le manifestazioni dei palestinesi in questi primi mesi del 2018 non si sono mai fermate, così come gli attacchi dell’esercito israeliano che hanno causato decine di morti e migliaia di feriti, tutti palestinesi.
Diverse donne che abbiamo contattato hanno avuto difficoltà a comunicare con noi, altre impegnate nelle proteste non hanno avuto modo di rispondere alle nostre richieste, altre ancora lo hanno fatto trasmettendoci l’aria triste e pesante che stavano vivendo in quei momenti: arresti, lutti, attacchi continui. Sappiamo che la Palestina è anche questo ma è ogni volta doloroso scontrarsi con il silenzio internazionale, la complicità delle diplomazie, l’assenza della già citata società civile. Fare i conti con l’impotenza: da una parte Israele, una delle potenze economico-militari più grandi al mondo; dall’altra i territori occupati, divisi tra Cisgiordania (West Bank) e Striscia di Gaza, uno spazio frammentato, circondato da muri, checkpoint militari, colonie. Un paese che non c’è, una classe politica divisa, un popolo che resiste. Ma fino a quando? E a che prezzo?
Il forte desiderio di pubblicare questo numero di DWF interamente dedicato alle donne palestinesi e la collaborazione e la passione delle donne che abbiamo incontrato e coinvolto in questo progetto[1], ci hanno consentito di costruire un percorso che si snoda in saggi, articoli e interviste e che tenta – senza alcuna pretesa di esaustività – di affrontare il tema della resistenza delle donne in Palestina come processo duplice, resistenza all’occupante e resistenza al patriarcato, ma soprattutto come ‘processo agito’, libero da qualunque dinamica neocoloniale o retorica della salvezza.
Perché è vero, in terra palestinese la battaglia per l’identità nazionale schiaccia inevitabilmente ogni altra istanza, inclusa quella femminile, di genere, personale. Suad Amiry, nota scrittrice e architetta palestinese, ha recentemente scritto: “Palestina, ci lascerai mai liberi?”[2]. Una sensazione straniante per chi si affaccia alla società palestinese con il bagaglio del femminismo europeo che rifiuta il nazionalismo e l’identitarismo, ma riconosce l’autodeterminazione dei popoli, l’abitabilità di una terra e la libertà di movimento come requisiti fondamentali per la vita e la dignità delle persone. Ma la forza delle donne palestinesi, il senso di comunità e il ruolo che svolgono nella società, di cui sono colonne portanti, possono diventare “un modello di potere, resilienza e di educazione al femminismo” (Zinatey).
Lo sono le donne rifugiate nei campi profughi (Salih), le detenute nelle prigioni israeliane (Saleh), le donne della resistenza non violenta nei villaggi (Nabi Saleh/Chiarucci; At-Tuwani/M.G. e G.L.), le attiviste che lavorano quotidianamente per combattere la violenza di genere e la tratta a scopo sessuale (SAWA/Awad), le associazioni che denunciano le discriminazioni a cui sono sottoposte le donne nella società palestinese (PWWSD), incluse le cittadine europee e nordamericane che vivono in Cisgiordania perché mogli di palestinesi (Mora).
Quello che emerge è che “la lotta femminile e femminista palestinese è stata una costante che si è sempre intrecciata a quella per la liberazione nazionale” (Isha L’Isha/Dalla Negra) e continua a muoversi su questo binario, con la consapevolezza che il gioco del ‘prima la liberazione nazionale poi quella sessuale’ è stato smascherato, e le due dimensioni – ‘militante’ e ‘sociale’ – non possono essere scisse: “sono due strategie che scaturiscono dalla stessa visione, una visione che interpreta la liberazione nazionale dall’oppressione coloniale come il primo passo necessario per l’emancipazione sociale e di conseguenza per il superamento della struttura patriarcale e il raggiungimento dell’uguaglianza di genere. In questo senso, il femminismo palestinese ha contribuito ad una analisi più sofisticata e radicale del patriarcato, individuandone il legame inscindibile con il sistema imperialista. La liberazione nazionale e sociale, quindi, sono considerate due facce della stessa medaglia e sono state concepite in una visione rivoluzionaria ed internazionalista della lotta congiunta dei popoli oppressi” (Abu Samra).
Un femminismo, potremmo aggiungere, che si muove e si definisce su parametri differenti, scavalcando presunti elementi universali di oppressione, dove velo, appartenenza religiosa e identità nazionale mettono in discussione l’idea che l’autodeterminazione sia sempre uguale a se stessa. L’agency delle donne, libere di esprimersi, lascia emergere le infinite declinazioni e strade per la liberazione. Decolonizzare il femminismo significa anche fermarsi dove l’autodeterminazione dell’altra ci interroga e ci invita ad ascoltare e iniziare un dialogo la cui complessità arricchisce la storia delle donne e le lotte in campo. “Investigare la possibilità che l’ordinario possa costituire l’orizzonte di un immaginario politico radicale” è la scommessa di Ruba Salih in dialogo con le donne anziane dei campi profughi: il domestico come potente elemento di resistenza, che scavalca i ruoli già definiti sia nella narrazione nazionalista che in quella femminista liberale.
Una posizione che interroga i femminismi, ma che riguarda l’intera comunità degli stati delle Nazioni Unite, che tanto si adoperano per finanziare progetti di empowerment femminile in terra palestinese quando le donne sono rinchiuse in una prigione a cielo aperto come la Striscia di Gaza (Calvelli/Di Martino) o vivono sui propri corpi l’impossibilità di muoversi da una città all’altra, la difficoltà a raggiungere posti di lavoro, scuole, terre, ospedali, l’assenza di acqua ed energia elettrica, i controlli militari ad ogni checkpoint, quotidiane violazioni dei diritti umani (Zeevi/Colanicchia).
Un quotidiano in cui ordinario e straordinario convivono, dove le donne sono protagoniste della vita che combatte la perdita dello spazio, della casa, della terra, della libertà. “Mi ha sempre colpito questa incredibile bellezza che sono in grado di esprimere anche nei piccoli gesti del vivere quotidiano, il modo in cui trasmettono il proprio patrimonio da una generazione all’altra, spesso attraverso l’oralità”, dice Susan Abulhawa delle donne palestinesi protagoniste dei suoi romanzi.
E proprio alla rappresentazione artistica abbiamo voluto dedicare la sezione Poliedra di questo numero: la poesia (Tuquan, al-Ghurra), la letteratura (Abulhawa/Dalla Negra), la musica (Abdulhadi/Awad), l’arte (Jacir/Dalla Negra), i media (Awad), cosa ci raccontano, e come, delle donne palestinesi? Le opere artistiche delle autrici palestinesi diventano inevitabilmente atti politici, l’arte uno strumento di narrazione di sé e di un popolo intero, i corpi attraversano muri e confini e il femminismo diventa un ponte per nuove alleanze.
(tdm e sf)
[1] Ringraziamo per la preziosa collaborazione e disponibilità Rana Awad, Ingrid Colanicchia, Cecilia Dalla Negra e Luisa Morgantini. Un grazie particolare alla fotografa Linda de’ Nobili per averci donato le sue immagini della Palestina.
[2] In Internazionale n. 1237, anno 25 (29 dicembre 2017/11 gennaio 218), p. 9.