A quasi dieci anni di distanza dal numero “Diversamente occupate” torniamo a occuparci di lavoro. La proposta irriverente ma politica delle giovani donne che costruirono il numero nel 2010, attraverso un esercizio di pensiero collettivo, era quella di “togliere il lavoro dal centro”, una mossa spiazzante, un gesto politico per separarsi dal modello post fordista invasivo e invadente e per non lasciare che la fatica, tutta individuale, della “ricerca del lavoro” diventasse ossessiva, schiacciante poiché riferimento per la costruzione delle nostre identità personali. In altre parole, porsi la questione di come procacciarsi un reddito (e dell’autonomia che ne deriva) senza lasciarsi espropriare dal desiderio di una vita ricca, plurale e felice, tenere insieme ricerca di lavoro e ricerca di sé.
Nel frattempo le cose sono addirittura peggiorate visto che il lavoro è diventato ancor più flessibile, frammentario, sfuggente.
E’ stata una buona mossa? Dove ha portato? Ci sono esperienze che hanno saputo dare vita a una nuova idea di lavoro, a un nuovo rapporto con esso? Le donne del collettivo “Diversamente occupate” si sono ritrovate a ragionare sui cambiamenti avvenuti e sui contesti in cui si sono realizzate le loro esperienze. “Togliere il lavoro dal centro” ha sicuramente portato a disinvestire dall’occupazione con reddito certo, dall’idea di “carriera” e anche dal “lavoro dei nostri sogni”, quello cui dedicarsi anima e corpo. Il movimento, per tutte, è stato cercare una strada praticabile tra il sottrarsi allo sfruttamento/autosfruttamento del mercato (ricerca di stabilità, contratto, diritti) e il desiderio (sempre a rischio di “sussunzione” direbbero alcune) di investire conoscenze e “parti di sé”, che chiede prepotentemente di essere viste e riconosciute. In questo movimento ciò che emerso sono state le differenze di classe, di posizionamento sociale, di tutte quelle forme di sostegno che in epoca di crisi e cambiamento tornano ad avere peso e a farsi sentire anche nel rapporto fra donne.
Per tutte, inoltre, l’idea di “realizzazione” ha cambiato forma ma è rimasta viva, così come è ancora aperta la domanda sul senso complessivo del ruolo del lavoro nelle vite di tutte. Sottrazione e desiderio si confermano i poli entro cui si muovono i percorsi delle donne, in uno spazio pieno di ambivalenze e contraddizioni. In dieci anni il lavoro è continuato a mutare di statuto, ha cambiato di forma e posizione nello spazio e nel tempo, nelle singole vite e in quelle delle città in cui viviamo. E le donne non sono state ferme: hanno fatto esperienza e costruito sapere.
In questo numero di Dwf abbiamo cercato di tenere insieme riflessioni che inquadrano un tema di cui negli ultimi anni si è parlato molto, quello della precarietà, cercando nuove connessioni (Lorey) e inquadrandolo storicamente (Betti). Abbiamo inoltre pensato di fissare l’attenzione sulle storie e sui pensieri che aprono. Storie che mostrino il rapporto di una singola donna con il proprio lavoro – il gioco di distanza e attrazione, di rifiuto e desiderio – e spesso la consapevolezza dell’inganno di un sistema economico in grado di fare profitto anche di queste ambivalenze.
“E se smettessimo di parlare di (quel) lavoro?” chiede Maddalena Fragnito affrontando di petto questioni che il femminismo si pone da sempre e che negli ultimi vent’anni sono diventate urgenti, in Italia e fuori. Una domanda radicale che va oltre la denuncia dello sfruttamento e che richiama un bisogno di politica alta in grado di tematizzare con profondità i problemi del lavoro anziché cercare soluzioni di piccolo cabotaggio, di operare rovesciamenti, ribaltamenti di senso. Dal rifiuto del lavoro, prospettiva consegnata dalle generazioni precedenti, a un nuovo approccio che cambia l’oggetto e il contesto del confronto: non solo “autonomia” ma “autodeterminazione”, capacità di decidere delle condizioni complessive del proprio vivere e agire. “Voglia di vincere ed estraneità”, una postura che viene da lontano e che ha avuto degli esiti inattesi (Carol, Leiss) come il riconsiderare il lavoro nell’intreccio di più movimenti, anche quello del “voler fare bene”, di usare capacità e competenze per pensare gli spazi della città (Tamalacà), o fidarsi abbastanza di sé e delle proprie intuizioni per cambiare il punto di vista con cui guardare alle cose (Laschi). Quello che rimane chiaro è che la riflessione politica collettiva, ovvero il femminismo, è la prospettiva da cui continuare a mettere a fuoco tutto questo (Wit – Women in Translation).
Esito di tutti questi contributi è che la nostra politica è senza ombra di dubbio il principale guadagno di un percorso fatto, poi interrotto/mutato/trasformato.