Stelle senza cielo: abbiamo voluto aprire questo numero con un’immagine. Fino a un certo punto il “cielo” del cinema è stato letto e interpretato solo al maschile, dove a parlare e muoversi sono corpi visti soltanto da occhi di uomini, così come maschili sono le figure, le finalità, le relazioni produttive, lo sguardo. Eppure, nel buio di quel cielo, sono molte le figure di donne che hanno popolato il cinema e che, una volta illuminate, hanno mostrato un segno diverso e raccontato, cambiandolo, il senso delle storie. Riscrivendo l’utilizzo che di quel mezzo poteva essere fatto. Per questo torniamo a raccogliere delle note per il cinema, a 41 anni dall’uscita del numero La donna dello schermo (DWF, n. 8, 1978). Note che tracciano il quadro delle protagoniste che fin dagli esordi hanno fatto la storia del cinema, ma anche di coloro che lo vivono oggi (registe, documentariste, ecc), oltre che di chi, a partire da un posizionamento femminista, continua a interrogarlo e, anche attraverso rassegne e festival, a rimetterlo in circolo come strumento politico.
Il movimento femminista nei suoi innumerevoli percorsi si è servito di molti ambiti e strumenti per ribaltare e cambiare le carte in tavola. Con il cinema lo ha fatto in modo potente, dando vita a un soggetto imprevisto, desiderante, indipendente e in relazione. Oggi l’insieme delle arti, delle tecniche e delle attività industriali e distributive che producono come risultato commerciale un film, si è popolato di corpi femminili che, sebbene presenti da sempre, sono ormai visibili e riconosciuti in tutti i mestieri della ‘settimana arte’: registe, sceneggiatrici, montatrici, costumiste, scenografe, attrici, doppiatrici… A che punto siamo?
Questo numero in parte si innesta sulle riflessioni e sollecitazioni legate alla nostra uscita precedente: #Femministe. Corpi nella rete (DWF n. 123, 2019), dove ci siamo chieste in che modo i femminismi interagiscano con i linguaggi e i nuovi strumenti della comunicazione, a partire dalle pratiche politiche delle donne da sempre costruite sui corpi, sulla parola e sulla presenza. Una riflessione particolarmente necessaria oggi quando, senza preavviso, ci troviamo in piena quarantena da Covid-19, ma che ancora non sappiamo come evolverà. Quello che sappiamo è che la distanza tra i corpi e le conseguenti relazioni disincarnate, le principali misure per contenere i contagi del virus, ci sfidano su piani inauditi e, talvolta, chiudono le menti.
Più volte questa redazione, complice anche l’autofinanziamento che con desiderio e disciplina ha tenuto la rivista fuori dalle esigenze di un editore o del mercato editoriale dominante, ha saputo intercettare le urgenze del presente frugando tra pensieri, angosce e pulsioni delle nostre quotidianità. Con questo approccio politico abbiamo interrogato qualcosa che è costantemente – e ora in emergenza Coronavirus esclusivamente – nei nostri vissuti quotidiani: la comunicazione digitale. Da qui non è stato difficile raccogliere testimonianze, riflessioni, e persino un fitto elenco di spazi virtuali femministi, creando una base che ora ci aiuta a pensare anche questa eccezionale quotidianità. Mezzi di espressione e di relazione, dunque.
A volgere il nostro sguardo verso il cinema è stata l’esigenza di interrogare nuovamente l’autorappresentazione, la narrazione di sé e delle storie che ci riguardano, ma anche quella di ripercorrere una storia importante di rottura, rivoluzionaria, avviata da donne coraggiose che hanno fatto irruzione dietro (e dentro) lo schermo.
Anche per questo la prima volta che DWF si è occupata di cinema (1978) ha titolato il numero La donna dello schermo dove abbiamo pubblicato per prime in Italia la traduzione di Piacere visivo e cinema narrativo di Laura Mulvey, un testo fondativo della Feminist Film Theory, di cui ci è sembrato opportuno ripubblicare alcuni passaggi nella sezione Poliedra. La teoria e critica cinematografica femminista ci ha permesso di interpretare e ricostruire i ruoli femminili nel cinema, e di riconoscere la costante presenza di donne in questo campo (Pizzuti), così come le lotte per la riappropriazione degli strumenti e delle tecniche del cinema (Topini).
Nonostante il percorso nella progettazione del numero ci è parso molto chiaro, meno semplice è risultato dare corpo alla chiamata che abbiamo fatto alle nostre interlocutrici, alcune delle quali poi diventate autrici di questo numero. Nel corso della costruzione di “Stelle senza cielo. Note per il cinema” sono infatti emerse due traiettorie: da un lato la necessità di continuare a raccontare profili di donne, dall’altro fare i conti con la moltiplicazione degli strumenti che hanno assorbito la funzione cinematografica. Al fondo di tutto ciò, vi è stata l’urgenza di continuare a porre alcune domande che interrogano la costruzione dell’identità personale e di quella politica.
Se – come dice anche chi c’era – negli anni Settanta il cinema era considerato un mezzo di espressione privilegiato per rappresentare un soggetto donna imprevisto allo sguardo maschile, adesso ci sembra di poter rilevare che quelle riflessioni viaggino più su altri canali, compagni anche del cinema ma più immediati, come i video-performance, i documentari, le fiction televisive, le serie più che il film propriamente detto. La narrazione, pur continuando a esistere, si è frammentata in tanti prodotti, ma soprattutto in tanti registri e strumenti diversi dal grande schermo. Pensiamo ad esempio al documentario, ritenuto la cornice più adeguata per una narrazione aperta e corale, dove ogni soggettività è libera di autodeterminarsi e definirsi a partire dal proprio racconto (Cerquetti/Bonu); ma anche uno ‘strumento politico’ che fa spazio al racconto delle altre, rese invisibili dalla Storia (Profeta/Di Martino).
Altro strumento è quello elaborato da gruppi di donne e comunità lesbiche e femministe che, rimescolando la produzione filmica, la propongono attraverso rassegne, festival, giornate di studi. Strumenti questi che assolvono a più funzioni: dal bisogno di comunicare con il quartiere in cui gli spazi femministi si inseriscono, aprendo a momenti di incontro e costruzione di comunità altre (Lucha Y Siesta); alla volontà politica di rendere visibile i soggetti lesbici – le loro esistenze, i loro desideri, le loro rivoluzioni (Coco).
Dall’altro lato la produzione cinematografica continua a esprimere le soggettività impreviste. Se la Feminist Film Theory ha di fatto ‘ripopolato’ il cinema di donne, soggetti desideranti ed esorbitanti rispetto alla rappresentazione maschile, e delle loro relazioni, questo numero di DWF è in parte un aggiornamento della molteplicità dei soggetti-donne nei set, nelle sale di montaggio, negli studi in cui si producono gli effetti speciali.
In questo senso, il numero riprende le riflessioni ‘classiche’ intorno al ruolo del cinema nella costruzione del soggetto politico delle donne, soprattutto – ma non solo – nelle tante prospettive che lo legano alla costruzione di sé e delle identità personali. All’inizio del movimento femminista i “mille piani” potevano apparire in relazione lineare, ma presto abbiamo imparato che non avevamo di fronte una geometria ‘euclidea’, semplice e bidimensionale, e oggi ancor di più1. Ne è una chiara dimostrazione il cinema lesbico: “che cosa hanno guadagnato – e forse anche perso – le lesbiche nel passaggio dall’invisibilità alla visibilità, dalla sottocultura al mainstream, e in che modo l’attuale momento storico ha plasmato ciò che pensiamo e sappiamo di cultura e identità lesbica?” (Fabbiani).
Un’altra riflessione classica ripresa dal numero è quella del “personale è politico”, calandola nel contesto contemporaneo della denuncia globale della campagna #MeToo contro una serie di registi, produttori, autori. Quanto l’opera è autonoma e assolve le condotte individuali e sociali dell’autore? Quanto “l’alibi del genio” agisce ancora? (Arcara/Ardilli).
Nella direzione di contestualizzare gli scritti che raccogliamo nella sezione Materia, va la ricostruzione molto accurata dei filoni principali toccati dalla Feminist Film Theory nel saggio di Toto e Limone, nella sezione Poliedra. In che modo le prospettive femministe hanno continuato ad interrogare e riscrivere il cinema? Quanto quegli strumenti sono tuttora fondamentali per capire i prodotti mediali, le loro cornici, le loro finalità?
Dare luce e voce alle stelle senza cielo è una costante della pratica femminista, e questo numero sul cinema si propone di dare un ulteriore contributo. Bisogna “non perdere l’abitudine”, e tantomeno la tenacia, di raccontare storie, sguardi ed esperienze significative: la base che dà forma a mondi altri, anche nell’esperienza dell’emergenza in cui scriviamo.