Va detto. L’idea di dedicare un numero all’Europa ci accompagna da molto tempo. È stata una lunga gestazione, che ci ha interpellate a più riprese. A volte collettivamente, a volte singolarmente, il sogno del ‘progetto Europa’ ci ha convocate tutte. Chi se l’è ritrovato in testa per una canzonetta dell’infanzia (Carol), chi lo cercava in una rappresentazione che non fosse quella della moneta unica e del ratto d’Europa, tutte abbiamo in qualche modo visto una possibilità, un’occasione, senza rischiare di essere ingenue, nella nascita e nell’evoluzione dell’Unione europea.
Dal Trattato di Maastricht del 1992, il periodo di vita dell’Ue comincia ad essere sufficientemente lungo da vedere ormai adulti i “nativi europei”. Allora noi, femministe, quelle delle relazioni, del partire da sé, europee, che viaggiano senza passaporto e con l’euro nel portafogli, spesso in possesso di tre spazzolini da denti sparsi tra case in mezzo affitto (o in coloc, come dicono i francesi), ci siamo chieste se avessimo da dirci qualcosa e che cosa con le femministe svedesi, austriache, lituane, polacche… Se si potesse parlare, anche un po’ provocatoriamente, dell’esistenza di un movimento femminista in Europa. Le differenze sono molte, ma la sfida è capire se c’è un filo che le lega (Pacella).
E se questo filo ci fosse – ci siamo ancora chieste – il movimento femminista transnazionale sarebbe europeista? E su quali basi, visto che il grande progetto d’Europa unita, quella che voleva tenere insieme le differenze e non appiattirsi su uno standard universale, ha prodotto una governance e un sistema fatto di regole restrittive? Un sistema che ha ceduto alla finanza, ha innalzato muri o, peggio, ha chiesto ad altri di farlo facendosi “fortezza”, insomma che ha preferito le linee definite alle curve meno domabili e più imprevedibili (Gregoratti).
Quello che l’Europa vieta ce l’abbiamo ben presente. In questo numero ci siamo piuttosto chieste – e abbiamo chiesto – quello che l’Europa ha permesso o permette, in primis alle donne. Coscienti del fatto che una prospettiva europea privilegiata la si ha prevalentemente a partire dalle città (Sassen) e che troppo spesso l’Europa stessa (colpa sua) si dimentica che la gente non vive solo nei grandi centri.
Sono riflessioni che, partendo dalle nostre vite, sono arrivate molto lontano (D.A.), hanno fatto esplodere molte domande di cui questo numero di DWF dà conto. Seppure consapevoli di aver lasciato indietro molte questioni, siamo altrettanto certe di aver cominciato ad attraversare la mappa dell’Europa con una domanda politica dai contorni ben precisi.
Abbiamo interrogato gruppi e singole. Gli esiti non sono quelli di un’inchiesta giornalistica che chiarisce questo o quel punto, ma una moltiplicazione di riflessioni e discorsi che consideriamo non meno eloquenti, né meno importanti da presentare e condividere con le lettrici e i lettori di DWF.
I fili intrecciati per capire se è possibile parlare o no di un progetto d’Europa del “movimento femminista europeo” sono principalmente tre:
1. Come costruire una cittadinanza europea: rimettendo ad esempio al centro il discorso sul welfare, sul benessere, sulle possibilità che dovrebbe garantire l’Unione europea (Pacella), sui diritti che alcune hanno e altre ancora no (Björk, Jafari). Non possiamo infatti non constatare che i diritti umani su cui è stata costruita la cultura europea sono da alcuni anni diventati un ostacolo da abbattere in favore delle ragioni del mercato. Possiamo altrimenti dire che l’Europa, per la sua caratteristica disomogeneità, per la molteplicità delle culture di cui si compone, è probabilmente uno dei luoghi votati a pensare una cittadinanza fatta di corpi che abitano un certo territorio, e non di passaporti.
2. Cosa è già cultura condivisa, ad esempio la struttura delle città, e cosa invece ancora non lo è, ossia una figurazione comune diversa da quella della moneta unica e del ratto di Europa.
3. Quali sono le teorie, quali le ragioni e quali i sentimenti per dare un nostro futuro politico all’Europa.
Il risultato di questo interrogare è uno solo, ma determinante: occorrono un nuovo paradigma e un nuovo progetto per l’Europa, che non possono fare a meno di passare dalle donne, come soggetti politici. Le ragioni che vengono esposte sono le seguenti: la costruzione del proprio essere politico per le donne non è mai stata nazionalistica (Virginia Woolf – El Fem), molto probabilmente perché si è radicata nel combattere l’universalismo patriarcale (Braidotti); l’esperienza europea, ossia dell’essere in rete con donne provenienti da altre esperienze, ha prodotto un grande guadagno che è la conoscenza di altre pratiche e il confronto con esse. In altre parole non è soltanto il Programma Erasmus a permettere di conoscerci, ma è anche e soprattutto il confronto tra pratiche diverse. Sono le stesse donne a tessere la rete urbana su cui agiscono i loro conflitti (Sassen), dove si muovono i loro corpi, dove occupano le piazze; sono ancora le donne a conoscere da sempre, sulla propria pelle, il rischio bio politico che oggi riguarda (anche in Europa) molti più corpi, cioè che l’inclusione o l’esclusione può essere ragione di vita o di morte (Braidotti, la lettera alle alte cariche dello stato Italiano e dell’Unione Europea); sono ancora le donne a comprendere ed agire il movimento, la dinamica della contemporaneità tra micro-macro, interno-esterno. Ciò è evidente nei processi migratori (Brinis) che vedono le sindache impegnate sui loro territori, ma anche coinvolte in urgenze europee; le donne inoltre costruiscono la cultura dall’alto e quella dal basso (Spinelli, Hirschman, Warso, Forenza), il che fa dei movimenti femministi l’unica politica che fluisce restando radicata, che percorre le strade, ma sa anche diventare teoria, raccoglie le urgenze e le trasforma in proposte.
Tuttavia, i dati della discriminazione e della diseguaglianza sessuale – nel mercato del lavoro ma non solo – ci dicono che è ancora troppo alto lo squilibrio (inGenere, Squillante, Manca).
Questo numero di DWF è importante, perché mette a tema questioni complicate, ma non dimostra che il nuovo paradigma dell’Europa fondato sui corpi e i saperi delle donne si attui o trovi lo spazio politico per esprimersi. Tutte e tutti ne sentiamo l’urgenza, tanto maggiore se lo spazio europeo è stretto nella tenaglia di una possibile alleanza tra le derive di una democrazia autoritaria (Russia, Turchia, USA), ma non è scontato che la risposta europea ci sia. Il ‘movimento femminista europeo’, qualora ci fosse, potrebbe intanto puntare su altre legittime opzioni: un nuovo internazionalismo, un nomadismo pratico, carovane, le comunità matriarcali, la lotta nei territori comuni.
Il numero non ci offre risposte dirette per avviare già l’agire politico e le alleanze necessarie per costruire il nuovo paradigma all’interno della nostra mappa, quella geografica e culturale in cui viviamo, mare incluso. Sulla nostra esperienza possiamo però proporre un lavoro politico a mosaico che prende forma e forza “tessera dopo tessera”. La proposta è quella di provare a cercare alleanze da subito – l’agire politico – sulle singole tessere del mosaico, invece che rimandare e aspettare di accordarsi sul progetto politico, che è ancora da chiarire.
La prima tessera possiamo già apporla rendendo obbligatorio lo sguardo di genere in tutti i lavori delle istituzioni europee e, a cascata, nazionali. Inserire un pensiero differente e/o una valutazione dell’impatto di genere ovunque e sempre, accanto alle valutazioni di altri impatti. Insomma, bisogna rendere effettivo e dilagante il cosiddetto “Gender mainstreaming” (Forenza).
L’8 marzo del 2016 è stato approvato – durante la plenaria di Strasburgo – un Rapporto proprio sul Gender mainstreaming al Parlamento europeo(1). La relatrice, Angelika Mlinar, liberale, austriaca e membro titolare della commissione FEMM – diritti delle donne e uguaglianza di genere – ha ricevuto il sostegno di una larghissima maggioranza all’interno della Commissione e poi in plenaria con 453 voti a favore, 173 contrari e 79 astensioni. A partire da questo Rapporto gli uffici delle deputate che maggiormente l’hanno sostenuto si sono adoperati perché il Gender mainstreaming fosse appunto una prospettiva trasversale a tutte le politiche dell’UE. È stata anche recapitata una lettera al presidente della commissione AFCO (Affari Costituzionali), in cui viene richiesta la modifica delle regole di procedura del Parlamento europeo, nell’ottica di rendere vincolante l’adozione di una prospettiva di genere diffusa sull’intero lavoro del Parlamento.
L’altra tessera è ridisegnare un’educazione che non ignori il genere, in grado di decostruire gli stereotipi e che abbia programmi europei, manuali europei, per tutti, basati sugli women’s studies con l’esperienza del progetto Athena (2): che punti cioè a implementare una piattaforma mirata a costruire una cittadinanza europea caratterizzata non dai confini nazionali, ma dagli attraversamenti dei suoi territori e dunque sempre soggetta a mutazioni.
Il terzo pezzo del mosaico consiste invece nel continuare a riflettere su tutto quello che ostacola o filtra o provoca il nostro progetto europeo: le derive della sovranità popolare, gli assetti istituzionali, la ripartizione dei poteri, le burocrazie, i beni comuni, la governance dei conflitti, il rapporto città/campagna, l’attualità del patriarcato, le libertà economiche, i nazionalismi.
Le sorelle Dashwood, tutte e tre legittime proprietarie del titolo di questo numero ispirato dal romanzo di Jane Austen, incuranti della Brexit e delle convenzioni della provincia inglese, si sono dette entusiaste del lavoro fatto e di quello che verrà!
(pm e rp)
1 Versione italiana: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=-//EP// NONSGML+TA+P8-TA-2016-0072+0+DOC+PDF+V0//IT
English version: http://www.europarl.europa.eu/sides/getDoc.do?pubRef=//EP//NONSGML+TA+P8-TA-2016-0072+0+DOC+PDF+V0//EN
2 Athena è un progetto ideato e portato avanti da Rosi Braidotti da Utrecht – e realizzato
con finanziamento comunitario – per una serie di manuali europei sugli women’s and gender’s studies.