MATERIA
INTRODUZIONE
Mentre scrivo queste righe per DWF mi capita di rileggere Orientalismo di Edward Said. Scritto nel 1975, conserva una freschezza nell’analisi e soprattutto individua la persistenza di un approccio (quello del mondo occidentale nei confronti di quello orientale) che non muore, anzi appare rafforzato dalle campagne anti-terrorismo/anti islam. Scrive infatti Said.
A CHE PUNTO SIAMO TRA NAZIONI UNITE, FEMMINISMO TRANSNAZIONALE E COOPERAZIONE. Una lettura dell’agire delle donne nel mondo globalizzato
Difficile sfuggire alla domanda su quello che le donne hanno da dire sulla contemporaneità e su quello che rappresentano in una fase così complessa di transizione e di crisi di civiltà. Impossibile forse, per una femminista occidentale come me che cerca di mantenere un filo di un ragionamento avviato più di trenta anni fa, quando il partire da sé assumeva una passione radicale e una tensione rivoluzionaria, perché la presa di parola delle donne trasformava le regole della convivenza. Quel filo, agito nel movimento e nelle istituzioni, è ormai una matassa intrecciata e complessa, come le strisce da rammendo multicolori che apparentemente dovrebbero servire a riparazioni veloci e invece quasi subito si aggrovigliano al punto che non si riesce più a trovare il capo di ogni filo e non si può separarlo dagli altri senza strappi e ulteriori nodi.
LE FEMMINISTE DELL'ASIA DEL SUD CONTRO L'ECONOMIA POLITICA DELLA MORTE
Nel luglio 2006 un gruppo di quaranta femministe dell’Asia del Sud si incontrano per cinque giorni a Negombo, Sri Lanka, per il primo South Asian Feminist Meet organizzato dalla Sangat (South Asian Network of Gender Activists & Trainers), per interrogarsi sulle sfide e sulle prospettive dell’attivismo femminista nel ventunesimo secolo. L’acronimo “sangat” è anche una parola dotata di senso: in alcune lingue sudasiatiche significa “l’incontro di persone simili nella mente” e ben indica la forte enfasi che la rete pone sul comune sentimento, e sulla convinzione che il capirsi, la pace e la cooperazione siano necessari elementi di progresso nella regione. Scrivono nell’incipit della South Asian Feminist Declaration.
IL FEMMINISMO INDIANO DALL'OSSERVATORIO DI KALI FOR WOMEN. Un’intervista con Urvashi Butalia
La casa editrice Zubaan, dove Urvashi Butalia ci ha dato appuntamento, si trova nel quartiere di Hauz Khas, che le guide definiscono la Soho di Delhi. Ovviamente delle guide bisogna diffidare, soprattutto quando si tratta dell’India, dove tutto è diverso da come lo vendono operatori e riviste di viaggio e dove le cose sono dieci volte più difficile di quanto ci si aspetti. Io e Simona Cagnasso, la fotografa con la quale sto affrontando questo viaggio, lo abbiamo capito sulla nostra pelle. Prendiamo un taxi dal centro, se Connaught Place si può definire “centro” rispetto a una città che si estende in modo sfuggente proprio come una macchia d’olio, con quartieri medioevali e zone residenziali a prato inglese che si appoggiano con disinvoltura gli uni sulle altre. Contrattiamo un prezzo con il tassista di turno e ci avventuriamo verso il sud della metropoli nel traffico strombazzante e venefico della capitale indiana.
IL DIRITTO DELLE DONNE ALLA TERRA. Una storia di lotta e cambiamento dal Brasile
La recente crisi dei prezzi dei prodotti alimentari ha riportato all’attenzione dei media l’agricoltura, attività un po’ dimenticata dal cittadino occidentale medio, che visita più frequentemente i supermercati delle fattorie. Settore in cui è impiegato il 40% circa della popolazione mondiale con differenze intuibili per aree geografiche (si dedicano all’agricoltura quattro quinti degli etiopi e solo due statunitensi su cento) e per sesso (sono le donne a fornire il 60% della produzione alimentare asiatica). Guardando in particolare alla dimensione femminile della sovranità alimentare si scoprono elementi interessanti. Uno studio recente su 63 Paesi ha concluso che i miglioramenti nell’istruzione delle donne sono il contributo più significativo alla diminuzione della malnutrizione registrata tra il 1970 e il 1995.
L'ESPERIENZA DEL MOZAMBICO
Nei primi anni Novanta la Cooperazione italiana (grazie a Bianca Pomeranzi) e la Ong Molisv/Movimondo (nella persona di Raffaella Chiodo Karpinsky) contribuiscono alla creazione di un Dipartimento di studi di genere all’interno del CEA (Centro Estudos Africanos) nell’università Edoardo Mondlane a Maputo, Mozambico (vedi Estudos Moçambicanos 2005). La guerra è appena finita e sono seguiti gli accordi di pace di Roma di cui più avanti scrive Chiodo Karpinsky. Si tratta di tempi in cui in Italia praticamente solo Pomeranzi e Paola Melchiorri parlano di femminismo transnazionale e si accorgono di quello che sta succedendo alle donne dei Sud del mondo: presa di parola, affermazione di sé, lobbying, creazione di nuove pratiche di relazione e intervento sul territorio. Soprattutto quello in Mozambico è uno dei primi tentativi di mettere in comunicazione due parti di mondo da parte della cooperazione italiana in ambito di genere.
A PROPOSITO DELLA DISCUSSIONE SULLA LEGGE CONTRO LA VIOLENZA DOMESTICA. A che serve avere un grande numero di donne in Parlamento?
Da due legislature il Mozambico si distacca dal panorama africano e da quello internazionale in genere per il fatto di avere una grande percentuale di donne deputate nel parlamento nazionale. È un dato che è servito a mostrare il compromesso tra governo democratico e avanzamento delle pari opportunità. Da ciò sembrerebbe normale dedurre che avere un numero maggiore di donne al livello del potere legislativo darebbe maggior rilievo alle necessità e agli interessi delle donne, proprio perché esiste uno spazio per affermare una agenda al femminile. Abbandonando il tono trionfalista molte voci, in particolar modo le Ong che lottano per i diritti umani delle donne si interrogano su questa corrispondenza automatica. In altre parole, sarà sufficiente essere donna, avere utero, ovaie e seno per essere automaticamente sensibili ai problemi delle donne e alle strutture che le discriminano e opprimono? Chi sono le donne deputate? Quale il loro percorso? Come sono arrivate al potere e quali ostacoli incontrano? Hanno libertà di voto in dissonanza con il gruppo politico di appartenenza quando si tratta di difendere gli interessi delle donne anche quando questi non portano al consenso?
UNA DONNA. Le radici delle relazioni italiane con il Mozambico
Comincia così un breve capitolo biografico scritto con Bianca Maria Scarcia Amoretti per una pubblicazione dedicata alle donne che hanno contribuito in modo significativo a costruire la storia del nostro paese. Voglio cominciare da qui per raccontare un pezzetto di storia di relazioni fra donne italiane e mozambicane. È quella di Dina Forti, una donna che ha segnato in modo decisivo e originale la storia delle relazioni non solo fra Italia e Mozambico ma fra l’Italia e l’intero continente Africano. È fuor di dubbio che a lei dobbiamo le più significative e positive relazioni con l’Africa. Il suo personalissimo agire ebbe inizio nel quadro della sinistra italiana e specificamente per conto del PCI dell’immediato dopoguerra e fino a giorni più vicini ad oggi, per il quale Dina ha scritto pagine straordinarie di rapporti con i movimenti di liberazione del continente ed in particolare della regione dell’Africa Australe e soprattutto del Mozambico.
L'IMPATTO DEL "Doi Mói"
Dopo aver affrontato più di cinquant’anni di guerra, l’embargo statunitense (conclusosi nel 1994) e la crisi economica asiatica del 1997, il Vietnam sta ora sperimentando un nuovo modello sociale ed economico, il cosiddetto “socialismo di mercato” mostrando in ciò un’impressionante potenzialità economica e la capacità di gestire una transizione sostenibile da un sistema collettivistico ad uno differente. Inoltre, negli ultimi decenni il Vietnam ha effettuato progressi decisivi nella riduzione della disparità di genere. Nell’area del Sudest Asiatico e nella regione del Pacifico, il Vietnam si distingue proprio per i successi ottenuti in tal direzione negli ultimi 20 anni. Secondo i dati offerti dal Gender Development Index, il Vietnam si trova all’ottantesimo posto su 136 Paesi, e sessantunesimo su 154 stando al Gender Equity Index del 2007. Questi sforzi hanno trovato esito in un alto tasso di alfabetizzazione sia maschile che femminile e nella più alta percentuale della regione di donne in Parlamento (almeno il 27% sin dal 2002). Il Vietnam è inoltre una nazione che vanta anche uno dei tassi più alti di partecipazione al mercato del lavoro: 85% degli uomini e l’83% delle donne tra i 15 e i 60 anni hanno partecipato attivamente nel mondo del lavoro nel 2002 (Vietnam Development Report 2004).
LA AGENCY DELLE DONNE TRA OCCUPAZIONE, FAMIGLIA PATRIARCALE E REVIVALISMO ISLAMICO. Il caso palestinese
La centralità della famiglia e delle sue gerarchie come unità base della società è un elemento indispensabile per comprendere la specificità della nozione e pratica della cittadinanza in Medio Oriente. Mentre infatti le costituzioni della maggior parte degli Stati occidentali definisce come unità base della società l’individuo, nelle società mediorientali le costituzioni identificano nella famiglia l’unità base della società. La cittadinanza moderna, che nasceva in Europa come superamento dei legami particolaristici che legavano gli individui alla famiglia, alla comunità o al villaggio, si definiva come una serie di relazioni contrattuali tra l’“individuo” detentore di diritti e proprietario di sé stesso, e lo Stato. La critica femminista ha da tempo messo in discussione la neutralità del soggetto-cittadino, mostrando come le donne siano state storicamente escluse dal contratto sociale, in quanto la cittadinanza moderna ha comportato un passaggio di potere dai padri (patriarcato) ai figli maschi (fratellanza) (vedi Pateman 1989).