Ascolta l’Editoriale del numero
Editoriale
Molti degli incontri della redazione di DWF si svolgono intorno a un tavolo, spesso una scrivania, su cui, a volte, poggia del cibo. Periodicamente organizziamo delle riunioni lunghe, con tempi rilassati in cui si intervallano momenti conviviali e momenti riflessivi: ognuna di noi porta qualcosa da mangiare o da bere “secondo i propri mezzi”, desideri e abilità. Altre volte le nostre riunioni serali finiscono al ristorante o in pizzeria. Eppure, parlare
e scrivere di cibo non ci era mai venuto in mente e ne siamo rimaste quasi stupite.
L’idea del numero ha preso corpo grazie all’incontro con Elena Pioli – una nuova collaboratrice della nostra redazione – che ci ha raccontato la sua esperienza nel mondo della ristorazione e ci ha fornito interessanti riferimenti a un contesto internazionale in cui aspetti della relazione tra cibo largamente inteso e genere vengono fruttuosamente trattati. Nasce, così, il pensiero di indagare quello che il cibo può significare, al di fuori della sua rappresentazione come elemento legato a patologia, disturbo, disagio, come luogo della repressione del corpo, come rapporto primario con il materno. Abbiamo orientato i discorsi intorno alle riflessioni sul cibo come desiderio, sulla relazione di piacere (anche politica) che col cibo si instaura, forse perché in modo implicito nella nostra condivisa relazione il cibo rappresenta altro, o più apertamente perché alcuni spazi di riflessione ci sembrano meno inflazionati e più fertili.
A partire dalla suggestione iniziale, il numero si è costituito attorno a tre principali filoni tematici, che sono emersi gradualmente nei ragionamenti della redazione e nelle riflessioni sui e nei contributi.
Il primo gira intorno alle questioni di genere applicate al mondo del cibo e della ristorazione. Come emerge nel corso del numero (Pioli, Pavan) persistono disparità di trattamento e di visibilità tra le chef e i loro colleghi uomini, definendo un quadro di complementarità inversa tra il lavoro di cura (non retribuito) e l’impiego nelle cucine professionali (fonte di reddito e di prestigio). Emergono anche differenze nella gestione della cucina: se la chef è donna o se la brigata è composta prevalentemente da donne sembra prevalere un agire in squadra, una volontà di conoscersi, un’attenzione alle persone con cui si lavora, così come alle materie prime, ai produttori e produttrici, agli sguardi e ai palati degli altri e delle altre. Aspetti che hanno generato una riflessione più ampia sul mondo della ristorazione e sui cambiamenti che sarebbero necessari nella sua organizzazione e gerarchizzazione per renderlo un ambiente lavorativo più adatto a tutti e tutte.
Il secondo filone cerca di avviare una riflessione più politica sul cibo e sul ruolo giocato all’interno di spazi, gruppi, storie ed esperienze femministe. Alcuni contributi (Lucha y Siesta, Burchi, Circolo della Rosa, Mastrangeli) raccontano una centralità del cibo, pensato politicamente come gesto “amorevole”, gioioso, intimo e pubblico, universalmente faticoso, eppure (o conseguentemente) creativo. Che parte dalle cucine di famiglia, in cui generazioni di donne si sono incontrate, tramandando esperienza e condividendo spazi di libertà e resistenza, per arrivare alle cucine e ai tavoli degli spazi delle donne, occupati e non, organizzati e auto-organizzati. Da qui il cibo come relazione, come cura, come strumento di socializzazione, che risuona nella memoria e nell’immaginario di molte di noi. Eppure, nella pratica delle riflessioni partecipate, delle discussioni collettive che accompagnano la creazione di un numero di DWF, sono balenate ombre di esperienze diverse. Sono Patrizia e Paola – che hanno spesso il compito di raccontare, di portare alle generazioni più recenti della redazione l’esperienza di un femminismo storico – ad osservare come nella loro memoria, nelle occupazioni e nei collettivi, negli spazi che le donne abitavano e facevano vivere, il cibo non fosse un tema. Non c’era il tempo, non c’erano i soldi, non c’era la necessità. Il desiderio ruotava attorno ad altro, il piacere apparteneva ad altri ambiti e così il corpo serviva “per fare sesso convulsamente e per la rivoluzione”. O forse allora era ancora così forte l’immagine dell’angelo del focolare che per rompere le catene era meglio “patire la fame”.
Ed è un po’ così che un terzo ambito di riflessione è andato stagliandosi, progressivamente, proprio attorno alla relazione tra le donne e cibo. Ci è parso che, una volta escluso l’approccio in cui prevale la dimensione patologica di questa relazione, ci fosse molto di inedito da raccontare: il piacere corporeo, vivido, che occupa pochissimo spazio nei racconti delle esperienze delle donne col cibo. Non la descrizione di un piacere privato, ma piuttosto la condivisione di esperienze, studi e riflessioni politiche che vogliono tracciare un percorso pubblico: la possibilità di “leggere la storia delle donne e delle relazioni famigliari e sociali” attraverso l’analisi (sfaccettata) della relazione tra donne e cibo (Muzzarelli); l’indagine delle discriminazioni alimentari subite dalle donne e delle conseguenze sui loro corpi (Sall); la necessità di una riflessione primaria sui corpi, sulla relazione pubblica e politica che intercorre tra cibo e corpo, mostrando quanto dinamiche culturali e politiche basate sul genere, ma anche sulla classe e sulla razza, influenzino questa relazione e contribuiscano alla costruzione di uno stigma che patologizza i corpi non conformi (Bignetti).
A fare da “collante” lungo tutto il numero vi sono alcune ricette, proposte da noi e dalle nostre autrici, che presentano per un motivo o per l’altro un elemento di militanza ma anche, appunto, di piacere. Un connubio che ci auguriamo accompagni con gusto la lettura di questo numero.
(nc, ep)