PER ROSETTA STELLA
Rosetta Stella ci ha lasciate il 10 maggio 2016, all’improvviso. Imprevedibile, geniale, scomoda. Ognuna di noi ha uno o più aneddoti da raccontare su questa donna che, femminista e politica nella sua essenza, è stata una protagonista importante nella politica delle donne e nel femminismo italiani. La sua energia, l’eccentricità di alcune sue posizioni, la sua capacità di sedurre, anche nei momenti più critici e conflittuali, rimangono stampate nei nostri cuori. Amava essere un riferimento per le donne più giovani, che non considerava mai “allieve” anzi, non apprezzava per niente i cosiddetti legami magistrali. Un viso minuto con occhi vivissimi e intelligenti, un ciuffo bianco da rock star (la prima volta che se lo tinse era blu elettrico), un corpo minuto armonico ancor più valorizzato da un’andatura veloce, da ragazzaccia. Indossava spesso magliette di cotone con scritte stampate (famosa una di Taxi Driver) con sotto però solo indumenti di seta. Rosetta era tutto questo: non potevi non guardarla senza sorridere un po’ stupefatta.
Scrittrice e saggista. Studiosa del pensiero della differenza sessuale incrociato alle forme del cristianesimo, soprattutto cattolico. Dirigente nazionale dell’UDI e docente presso il centro culturale Virginia Woolf di Roma. Ha contribuito alla vita della rivista Via Dogana della Libreria delle donne di Milano. Negli ultimi anni era attiva nel gruppo romano “Balena”, nato dopo la guerra in Kosovo, nel “Gruppo del mercoledì” della Casa internazionale delle Donne e guidava la “Scuoletta per un uso politico della teologia” con Gaia Leiss.
Una donna di rottura e di legami, attiva nell’apertura dell’Udi al femminismo, dopo esserne stata un quadro, e ponte tra femminismo romano e quello milanese agli inizi degli anni Ottanta.
Per trenta anni è stata accanto a Luciana Viviani, compagna di vita e di politica fino alla morte di quest’ultima. Da pochissimi anni si era sposata con un uomo, lasciando molte di noi un po’ spiazzate, che l’ha ricordata con gratitudine e commozione il giorno del funerale davanti a tantissime donne e compagne che sono state, per tutta la sua vita, il suo mondo, i suoi affetti, i suoi riferimenti emotivi. Eravamo in molte a darle l’ultimo saluto: quelle con cui ha condiviso anni di politica e quelle incontrate più recentemente, le ‘giovani’ come spesso sono definite. Lei però non le ha mai chiamato cosi.
Rosetta ha scritto molto per la nostra rivista. Le donne più giovani dell’attuale redazione l’hanno incontrata per la prima volta, quasi 10 anni fa, proprio in una delle riunioni allargate della redazione di Dwf. Era una di quelle donne – le cosiddette femministe storiche – che affascinava e intimoriva. Un pensiero potente, una presa di parola scenica. Con una sigaretta fina in bocca era capace di restare in silenzio ad ascoltare, per poi balzare in piedi all’improvviso, guardarti dritta negli occhi e farti la domanda più scomoda e imbarazzante del mondo. Rosetta era così, piena di vita, gioiosa, capace di divertirsi e divertirti. Irriverente e autentica nel confronto diretto, sapiente ed esperta nella scrittura. Proprio con le più giovani decise di fare un numero di DWF, Invenzioni quotidiane, nel 2009. Fu durissima per tutte. Non potevi sfuggirle, non potevi fare finta: lei ti inchiodava a pensare, a difendere il tuo pensiero, a farlo in tutti i modi. In questo caso ogni colpo era permesso.
Rendere a Rosetta Stella tutti gli onori che merita, non è semplice, come non lo è mettere nero su bianco una persona dai mille colori, alcuni dei quali neanche compaiano sui pantoni ufficiali. Noi vogliamo ricordare Rosetta ripubblicando un suo articolo del 2003, scritto per DWF in un momento di grande incertezza globale (dopo l’attacco alle torri gemelle e la guerra in Afghanistan e Iraq), ma che rileggendolo dopo la sua morte risulta attuale e profetico.
Furia e grazia della profezia[1]
di Rosetta Stella
Nell’anticipazione di quello che sarebbe diventato il suo testo per questo numero di DWF, Rita Corsi riportava, citando Simone Weil, il versetto di Giovanni (XXI,18): «Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi andare».
Sono stata contenta di trovarlo citato anche da lei (seppure mediato dalla Weil) perché avevo pensato di partire appunto da lì per riflettere sull’enigma che passa tra illusione e frustrazione, quando, con ansia, prestiamo attenzione all’attività umana del vivere, altrimenti felicemente disattenta.
So che l’idea di una «felice disattenzione» può apparire non weiliana e che perciò forse il mio discorso non sarà politicamente corretto. Conosco la Weil dell’Attesa di Dio (Milano, Rusconi, 1984, p. 82), quando dice che «ogni volta che facciamo veramente attenzione distruggiamo una parte di male in noi stessi». So anche che ha ragione, ne ho fatto l’esperienza. Ciò non toglie che c’è una felicità del vivere che si alimenta di disattenzione. Di una «attentissima» disattenzione, se vogliamo. Cioè dell’equilibrio tra vivere e lasciarsi vivere, necessario per non soccombere nell’angoscia del vivere.
La vita è dotata di una sua energia, che la smemoratezza nutre. Essa abbandona le scorie chissà dove e chiede di saperla assecondare. Intendiamoci: non assecondarla ciecamente, ma saperla assecondare con un misurato sguardo sui ricordi e sui progetti. Sul passato e sui sogni. In breve: con l’attenzione sgombra dell’ansia di controllo su ciò che viene e crea realtà nuova soltanto venendo, e perciò stesso diventando esperienza raccontabile. Adesso per esempio io ricordo la luce accesa dell’estate salentina e i vestiti della domenica di mia madre, fatti di stoffa fantasia, i cui colori si accendevano e si restituivano a quella luce. Che ne sarebbe di questa immagine se la tenessi costantemente legata alla memoria di mia madre cosi come me la ricordo umanamente? Sarebbe scoria senza riflessi sulla realtà dì mia madre e del mio rapporto con lei. Se invece la assecondo sganciata dall’idea che mi sono fatta di mia madre e la lascio vivere nella mia esistenza di adesso, vedo che aggiunge significato alla verità (non alla mia verità, non a quella di mia madre), in maniera per me del tutto inaspettata. E si fa discorso. Comunicabile. Illuminante. Dirla significa per me avere cura della Verità. Impegnarmi in essa per ciò che le è essenziale. Da una parte calcolarne gli effetti diciamo in generale, e dall’altra rendermi visibile nel mio riservatissimo patimento di bambina: fare essere l’estate, la luce, le domeniche, mia madre. E che cosa c’era già tutto detto, previsto, preconosciuto della mia esistenza di adesso in quel ricordo del passato.
Chissà, consultassi una veggente adesso, sul mio destino, forse mi direbbe: «vedo una luce, una donna vestita di stoffa colorata, d’estate …» e sarebbe una profezia.
Non sto scherzando. Non sono fatte d’altro le profezie. Sono frammenti di verità raccolti tra gli scarti della vita organizzata e predecisa secondo ordini di convenienza esistenziali o politici (il che è la stessa cosa), frammenti preesistenti e coesistenti a questa organizzazione. Frammenti che, scovati in anticipo al loro manifestarsi come incidenti o errori o fatalità, costituiscono l’anima dell’atteggiamento profetico, la materia delle previsioni. Per questo le profezie dicono sempre la verità, persino quando sono pronunciate da falsi profeti, e non hanno niente a che vedere con l’assillo preventivo volto a disarmarne la potenza. Esse sono invece, nel bene come nel male, fedeli alla verità del limite. E infatti avvertono che l’io troppo desideroso di infinito è destinato a fallire per propria irriducibile ragione d’essere. L’accento è su quel «troppo» che ingabbia il desiderio vitale entro i confini dell’impossibile onnipotenza e lo condanna alla inevitabile frustrazione dell’eccesso.
«Ho una fiducia sfrenata nei miei desideri, essi sono comunque più forti e più saggi di me»: questa dichiarazione così verosimile nel suo sconcertante affidamento alieno da dubbi, l’ho sentita dire a una giovane donna qualche anno fa. Mi ricordo che la annotai perché già allora mi parve illuminante di una speciale seppure ambigua determinazione. Quella di affidare ai desideri, i propri, un contenuto di assoluto che, in un certo senso, sostituisse o rappresentasse una qualche idea di Dio, in assenza o nel rifiuto di qualsivoglia concetto di eterodirezione della propria esistenza. Determinazione speciale perché filiazione diretta dell’avvenuta libertà femminile, ma ambigua perché, inavvertitamente, andava a postulare una sorta di religione del desiderio, per di più personale, che la rimetteva nella stessa condizione di subalternità dalla quale invece voleva fuggire.
Ma aldilà della ragazza in questione a cui la vita avrà dato senz’altro qualche salutare lezione, di dubbio, resta la minaccia, presente soprattutto nella proterva modernità affluente, di cadere vittime del «complesso di Icaro» che vuole conquistare il sole confidando totalmente nelle proprie forze e poi muore arrostito dal proprio stesso ardimento.
Le ali bruciate del moderno Icaro sono costituite in massima parte dall’ossessione preventiva che caratterizza la nostra epoca. In materia sanitaria per esempio l’organizzazione più potente sembra quella volta a intervenire e a «curare» più le ipotesi di malattia che le malattie stesse. Le quali al contrario ci colgono di sorpresa e spesso impreparati a gestirle con tutto l’armamentario necessario anche di natura psicologica, che prima di tutto è costituito dall’affidarsi ad un disegno del sistema dei viventi che ci sopravanza, e senza il quale tutto è consegnato nelle mani della volontà personale di essere sani o malati. Il senso di colpa cosmico che ci assale ogni volta che ci ammaliamo diventa così l’irraggiungibile «sole» che ci fa prigionieri della malattia, e ci uccide. Da sempre potenziali malati, infatti, non siamo mai sani, ma paradossalmente consegnati, senza nessuna speranza di salvezza (salute), al destino di dover cedere alla paura cieca di ciò che alla fine non riusciamo a prevedere: il morire per caso. Perciò la dimostrazione dell’enigma presente nel versetto che citavo all’inizio sembra trovarsi nella delusione obbligata che accompagna ogni sforzo della volontà, soprattutto di quella buona, a che tutti i problemi, dal raffreddore in inverno al terrorismo internazionale, trovino sempre soluzioni migliori per via preventiva. Salvo poi ritrovarsi a scoprire l’amara ironia di un altro che ci porterà dove non vorremmo andare: un colpo d’aria preso inavvertitamente, o un kamikaze, comprato/venduto al libero mercato delle libertà globali al prezzo di 8000 curo, che decide di condurre la volontà di governo della sua morte fuori dal caso assassino e imprevedibile. Vero eroe moderno dell’assillo preventivo, lo conduce alla massima potenza, quella di poter prevenire, dominandola, la cieca casualità del morire, per finalizzarla, col suicidio, non solo al porre fine alla propria vita, ma soprattutto a disarmare, uccidendo a caso, quella sottile idea di sicuro controllo sulla morte che ci pervade la mente ogni volta che pensiamo di aver sconfitto i pericoli, di aver escluso tutti i rischi.
A questo irride il kamikaze. In questo, è davvero martire, testimone senza confronti della modernità suicida per eccesso di autosufficienza. Perciò il linguaggio moderno non ha per lui parole che lo nominino compiutamente. Non sa trovare nomi per dire ciò che lo aggredisce dal suo proprio interno. Non è criminale o almeno non solo, non è terrorista, o almeno non solo, … attentatore suicida? non basta ancora … fanatico religioso? non basta … non basta … povero e disperato? Non sono poveri né disperati … sono acculturati, conoscono la nostra lingua, la nostra musica, … sono come noi. Sono noi. E però non sappiamo come chiamarli. Il linguaggio si fa muto, ogni parola che li nomina si rovescia nel suo significato e li esalta invece di distruggerli. Sarebbero da chiamarsi la malattia mortale della modernità, quel cancro che non abbiamo saputo prevedere, né prevenire. Non ci siamo corazzati in anticipo nei nostri laboratori di ricerca, ed essi ci minacciano alla radice e ci uccidono. Ma per poterci dire questo, dovremmo saper far fronte al senso di colpa immane che ci assalirebbe per non aver prevenuto. E così non ne usciamo e ci dibattiamo nella gabbia come cavie su cui si sta sperimentando la ricerca di un altro modo di essere umani, diversa da quella che conosciamo e che ci è cara. Ma che è alla fine.
Sto pensando queste cose mentre cerco di immaginare mio fratello, colonnello dell’Esercito italiano e medico, ultimamente collocato di stanza a Nassiriya in Irak, occupato a dirigere l’ospedale da campo che accompagna le nostre truppe in Irak. Cerco di immaginarlo mentre compone nelle bare i resti dei militari uccisi nel «vile attentato» che ha colpito recentemente una delle basi italiane. Poi cerco di immaginare i resti dei «vili attentatori», confusi e mischiati a tutti gli altri resti sparsi ovunque, di persone e di cose, nella stessa polvere.
E così mi viene in mente, come un’allucinazione, la testa mozzata della kamikaze di uno degli ultimi attentati a Gerusalemme. Qualche giornale ne ha riportato la foto. La testa separata dal corpo, in terra, con i capelli neri, lunghi, a fare da corona al viso tranquillo. Una donna. Una delle tante ormai, che si fa «martire». Una delle tante che aggiunge sconcerto a sconcerto. Che scompagina ancora di più tutte le coordinate usuali e usate per capire. Una delle tante che, come tutte le donne, conosce inscritto nel suo corpo il Principio e la Fine. Tutti i principi e tutte le fini dì tutti i tempi. Una delle tante che, per questo, sa di essere oltre — si badi bene: non al di qua, ma oltre — ogni sistema simbolico codificato. Perciò infedele per costituzione, si potrebbe dire. Perciò libera in premessa e in promessa, pure all’interno di qualunque sistema o metodo. Anche per questo pericolosa. Forse, ancora più pericolosa.
Più degli uomini, la sua testa mozzata lì per terra, col suo volto tranquillo nell’annientamento, sta a dire che si sta andando verso uno stare in balia che è autodistruttivo si, ma in maniera non consueta, imprevista.
Il suo essere niente, così mostrato, significa anche che qualcosa del concetto stesso di vita da salvaguardare si va esaurendo verso una deriva di detriti senza significato. Un pezzo rotto di un corpo frantumato non è più corpo, misura, spazio. Lo è meno persino dei corpi bruciati sui roghi. Un pezzo qualunque di un corpo spezzato è rien, (e torna in mente ancora la Weil …), una cosa da nulla, un rifiuto da spazzatura. Oppure un organo, magari ancora utile, da trapiantare in altri corpi, magari malati, che altrimenti morirebbero. E questo, ancora ancora, si potrebbe calcolare nel reimpianto del diverso essere umano, che sembra imminente. Eventualmente rispolverando la parola cura nel senso di recuperare. Una sorta di nuovo e ancorché interessante riciclaggio dei rifiuti.
Uno scenario da fantascienza? Non mi pare, se solo guardiamo a cosa diventa il mondo quando è del tutto alienato da una qualche idea di redenzione. Senza più credere a un qualunque dio, sponda di bene e di verità, quale è la verità del bene? Non resta che credere a quanto ci dicono i medici, i filosofi, i militari, i governanti, i capi religiosi … e lasciar correre. Non resta che credere che la felicità sia un diritto da reclamare, come la stessa vita nel suo apparire. E allora perché non può esserlo anche la morte da prendersi e da dare?
È questa l’ironia nascosta in quel viso tranquillo? L’altra faccia della sua imperturbabile spiritualità? Quella testa mozzata non ha più difetti ed è leggera. Mi parla del bisogno di essere nominata nel suo niente, di consistere nel suo niente. Di rendersi visibile per qualcosa di me, di quel che sono, che altrimenti non saprei dove mettere … una emozione, una visione, una paura, una aspirazione, un progetto, un sussurro, un lamento, un’incoscienza … tutto quel tantissimo niente che sono quando credo, in perfetta autosufficienza, di poter disporre della mia vita, solo che lo voglia.
La sua inerzia però, così pacificata nella morte, mi ricorda anche di quale beatitudine abbia nostalgia la creatura umana. Quella di lasciarsi condurre senza peso, da un desiderio di vita che trascende la volontà. La volontà stessa di nascere.
Di questo è fatto ogni atteggiamento religioso, persino quello dei corpi che si fanno esplodere per fare la guerra. Di questo arretrare delle parole di fronte al nucleo indicibile della realtà di quella nostalgia. E non c’è prevenzione che tenga di fronte a questa aspirazione ultima, irriducibile a trovare i modi per sanarla.
Prevenzione significa saper intervenire su ciò che si è previsto per modificarlo in meglio. Ma non c’è un meglio rispetto a quella beatitudine.
Qualunque volontà, pure incessantemente attiva, è come sedotta da un sollievo dolce quando è costretta ad ammettere che il suo sforzo di potenza è vano, e che conviene infine cedere all’abbandono di lasciarsi disegnare in strategie di cui è impossibile conoscere prima tutti i contorni.
Così, nel ventre di sua madre, fa la creatura ancora in forse, la cui volontà di esistenza è come sospinta da un desiderio di altra forma. Fuori dal gioco perverso del diritto/dovere a nascere e a nascere bene in salute.
Quanta altra morte serve ancora per farla finita con le continue interferenze dell’etica borghese dominante, per cui morire è indecente scandaloso e immorale? Cosa altro deve accadere perché l’individuo borghese, finora trionfante dominatore della storia, del mondo e del destino, accetti di immergersi nella malinconia del suo tramonto e lasci aperta la porta all’imprevisto di tutto ciò che non gli appartiene?
L’incubo della prevenzione a tutti í costi ha dentro tutta la tragicità, ma anche tutta la comicità, degli sforzi inutili e che non fanno centro. Sforzi fasulli che prefigurano prospettive semplificate di cosa è davvero bene e di cosa è davvero male. L’io superbo e prepotente si inalbera e decide a priori: bene e male, salute e malattia li determino io, li faccio accadere io, li domino e li asservisco a uno scopo che è quello di essere come dico io. Tenendo ben distanti da sé tutti gli avvisi e gli annunci della sua verità di creatura soggetta al tempo. Alla sventura massima dell’essere soggetta al tempo. Il quale determina storicamente e ineluttabilmente ogni previsione e ogni smentita. Ogni vittoria e ogni sconfitta della volontà di potenza. Il tempo dominato e regolato dalla fatalità della morte, del deterioramento e della finitudine, che accade scivolando come sabbia tra le dita quando ci esercitiamo. a trattenerlo.
Ci sono momenti però, nella storia delle persone come del mondo, in cui si riesce a sfuggire alla sua morsa. E sono quelli in cui affiora un bisogno elementare di affidamento. La finitudine si può trascendere nel pensare che non sono sola. L’altro, l’altra, gli altri sono costitutivi del mio essere morale, sono lo specchio del mio essere giusta o ingiusta. Mi sono misura e confine, ma anche garanzia, sollievo e consolazione: non tutto dipende solo da me. Qui nascono le invocazioni, le preghiere, una specie nuova di rapporto con la dimensione sacra dell’esistenza. Una fiducia nella condizione misterica della vita, che chiede divinizzazione e precognizione di quanto sarebbe altrimenti un semplice accadere cieco e per caso.
Sorgono così le profezie, abitate da furia e grazia insieme. Prese da furia e grazia in tutto il loro essere. E prese da quella speciale libertà di pensare e raccontarci, convincendoci anche che ci si può salvare dall’ineluttabile. Che si può ribaltare il corso obbligato degli eventi. Con il coraggio innocente dell’amore per il progetto che siamo noi stessi, intesi come umanità.
[1] Pubblicato in DWF, L’algebra della prevenzione, n.4, 2003