Le parole descrivono il mondo, lo costruiscono e a volte lo disgregano. Le parole possono essere potenti. Per noi le parole del femminismo lo sono: hanno destabilizzato quel mondo, “l’ordine naturale delle cose”, che è stato scosso nelle fondamenta, e ne hanno disegnato uno differente, “fatto di una materia finissima”[1], a partire da un soggetto – le donne –, con il desiderio di abitarlo con agio, con la pretesa che parlasse a tutti, con l’intelligenza di non darlo mai per definito ma sempre in costruzione. In questo numero abbiamo preso alcune di queste parole e le abbiamo messe alla prova dell’oggi.
Con il Numero Cento di DWF abbiamo ripercorso la storia della nostra rivista e decenni di femminismo. Lo abbiamo fatto proprio a partire dalle parole divenute graficamente, e non solo, radici e tronco di un grande albero. Tra queste ne abbiamo scelte alcune – significative e problematiche – che abbiamo voluto indagare di nuovo nel presente, per ridefinirne il senso oggi, per capire se e come sono arrivate fuori di noi. La sfida è stata provare a fare un salto in avanti: non solo rintracciare queste parole nel mondo, ma cercare di comprendere come il mondo ci restituisce quel senso preciso, con le stesse o con altre parole.
Sappiamo bene quanto è profonda la trappola dei generalismi, parlare del mondo può voler dire spesso nulla se non si pensano i soggetti incarnati che lo abitano. È per questo che abbiamo scelto singoli e singole che potessero riconsegnarci un vissuto ancorato alla realtà, all’esperienza: abbiamo voluto coinvolgere generazioni più giovani di noi, dai/lle bambini/e fino ai/lle giovani universitari/e.
Abbiamo scelto la scuola e l’università come luoghi privilegiati per questo incontro aperto tra parole e corpi. La scuola innanzitutto è il luogo in cui i/le più giovani trascorrono il loro tempo, in relazione: tra loro, in uno scambio alla pari; con le/gli insegnanti, adulte/i, figure autorevoli, di guida, di mediazione. Poi perché la scuola non è solo luogo di formazione, ma è anche spazio in cui si crea un immaginario nuovo e, soprattutto nel caso dell’università, luogo di produzione culturale. A questo si aggiunge, per parte nostra, il desiderio di entrare in punta di piedi, senza fare irruzione in equilibri già consolidati, e le nostre relazioni, con le donne che hanno effettivamente compiuto questa indagine e che in questo numero compaiono come autrici, ce lo consentono.
Abbiamo scelto questi gruppi di parole:
– Femminista
– Autodeterminazione/scelta/autonomia
– Politica/passione/responsabilità/cambiamento/esperienza/progetti/desiderio/comunità/gruppo/pratica
– Sessualità/corpo/desiderio/esperienza/violenza/aborto
– Cura
– Generazioni/trasmissione/futuro/relazioni/conflitto
– Potere/vissuto/narrazione/esperienza/partire da sé/posizionamento/senso
Le abbiamo affidate a delle donne che lavorano o hanno esperienze all’interno della scuola o dell’università e abbiamo lasciato a loro la scelta: prendere una parola, un gruppo di parole o incrociarne diverse, per restituirci, attraverso gli occhi e la voce dei/lle più giovani, il senso di quello che decenni di femminismo hanno raccontato. Con le loro parole.
Le parole hanno viaggiato da noi alle nostre mediatrici, fino ai/lle giovani. Poi sono ritornate a noi, scritte, riempite di corpi, di vissuti. Vecchie, nuove o rinnovate hanno in qualche modo cambiato il nostro linguaggio. È questo moto perpetuo il senso più profondo che vorremmo restituire in questo numero. Dirsi «femminista» non è più uguale a dirsi femminista (Paoletti-Castelli). Le parole del femminismo sono ancora vive se possono viaggiare e lasciarsi contaminare, cambiare i propri confini, essere permeabili al mondo (Fiorletta).
Ne risulta che prendersi il tempo per sintonizzarsi, il tempo della discussione e della lettura dei testi, lo spazio per un’elaborazione e discussione, è necessario per andare più a fondo della superficie, del senso comune, degli stereotipi, che pure persistono riformulati in un linguaggio politicamente corretto: “uomo o donna non c’è differenza” (Mariani). È nella discussione in presenza, dove tutti e tutte sono in gioco, senza essere costretti a reagire in tempi rapidi e a input continui, che si apre la scena a una libera circolazione delle parole, che si mettono alla prova d’intelligenza e di esperienza.
Le parole discusse hanno a che fare con la vita, sono nodi da fare e disfare.
Nella prima infanzia questo sembra tradursi nell’inizio della conquista dello spazio, nella richiesta di un posto nel mondo, nella legittimità di posizionarsi: “Maestra, ma l’artista può essere una femmina?” (Caporaso). Immaginarsi nel modo più ampio possibile, permettersi un’identità che non è ancora una, contrastare senza sforzi i contorni che la società impone è una possibilità che si dà oggi solo ai più piccoli. A volte.
Il femminismo offre gli strumenti per aprire uno sguardo sul mondo, che smonti un destino già scritto, un dover essere maschile/femminile che diventa una nuova, eppure tanto antica, fissazione normativa riversata sull’infanzia (Caporaso). Per questo fa paura (Pasquino), perché è educare alla libertà.
In un’Italia che parla sempre più di donne, mettendo nello stesso mucchio la questione della violenza, del femminicidio, e quelle del fattore d, quote rosa ecc., qual è il linguaggio che è passato rispetto all’elaborazione femminista? Se analizziamo il linguaggio dei mass media vediamo che una trasformazione è in corso, ma che il sessismo e il paternalismo continuano a rigenerarsi nella trasformazione, mantenendo la rappresentazione di una donna che se non è invisibile, è sovraesposta (Pone).
Piuttosto che scegliere la via della rimozione di quelle parole, care al femminismo, che a volte ci risultano respingenti, scegliamo di rimetterle in discussione, perché il linguaggio di per sé non basta se non teniamo conto dell’altra/o, se non ci poniamo in ascolto, se non ci distanziamo dall’opaco dell’ambiente culturale, se ci sottraiamo ad un lavoro di traduzione (Paoletti).
Così ci assumiamo la responsabilità di dire che la parola “femminista”, spesso soggetta a fraintendimenti, incasellata in stereotipi e raffigurazioni che ci stanno strette, per la sua ricchezza e apertura a molteplici possibilità, può essere smontata e ricostruita (Castelli-Paoletti). E proprio in questa relazione di ascolto e traduzione, ci assumiamo i ritorni scomodi di questa indagine con cui fare i conti: “gli eccessi del femminismo hanno depotenziato il femminismo” (Castelli-Paoletti); oppure “il movimento femminista tende ad avvicinare un certo tipo di persone, con definito profilo politico ed intellettuale, non si ramifica in tutti gli ambienti della società” (Fiorletta). Sono i ragazzi e le ragazze a dircelo, e noi possiamo scegliere di percorrere una via autistica di negazione o provare a rimettere in gioco il femminismo, anche quello degli eccessi, ma in dialogo con loro.
E infine anche in una vita, quella della femminista francese Thérèse Clerc, emerge l’esigenza di adattare le parole conquistate alla materialità dei corpi di donne più anziane che hanno scelto un’autonomia il più possibile aderente al loro presente (Capuani).
Togliere l’abito comodo del linguaggio, disfarlo e ricucirlo sui propri corpi è un lavoro che le giovani generazioni di femministe hanno fatto e fanno ogni volta, di nuovo, alla prova di una traduzione che forse arriverà a essere comunicabile, comprensibile e condivisibile con il mondo. Questa la sfida.
(tdm e vlm)
[1] LUISA MURARO, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, Mondadori, Milano, 2009, Prefazione.