GATTEBUIE. Voci femministe sul carcere, DWF (143-144) 2024, 3-4

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Volevo solo, entrando qua,

tastare il polso del nostro Paese,

sapere a che punto stanno le cose.

Il carcere è sempre stato e sempre sarà

la febbre che rivela la malattia del corpo sociale.

Goliarda Sapienza, 1983[1]

[1] SAPIENZA, G. (2012), L’Università di Rebibbia, Einaudi, p. 110

Per la prima volta nella sua lunga storia DWF sceglie di dedicare un numero alla questione del carcere. In parte questa scelta dipende dal contesto: il 2024 è stato infatti definito l’anno nero delle carceri in Italia. Il sovraffollamento ha superato il 132% a fronte della diminuzione della capienza reale, gli spazi sono inadeguati, le strutture sempre più fatiscenti e senza manutenzione. Si è poi registrato il triste record di suicidi: 88 persone, di cui 2 donne, 23 giovani dai 19 ai 29 anni, 40 persone straniere[1].

Eppure la nostra è una scelta che va al di là dei numeri e della stretta attualità. I femminismi si sono sempre confrontati – e scontrati – con le istituzioni, che sono espressione di una società, dei valori che formula, dei rapporti di forza che la contraddistinguono e delle relazioni tra i generi. Famiglia, ospedali, scuole, governo, sono modelli pensati intorno a un criterio puramente maschile, rappresentazione di un sistema di potere, oltre che di un’unica prospettiva, che definisce e impartisce ruoli, norme, posizioni. Il carcere è uno di questi, in cui la reclusione femminile è da sempre considerata marginale e residuale, inserita nello schema pensato da uomini per uomini, ma attorno a cui le esperienze e il pensiero femminista affondano radici lontane. Dall’incarcerazione di massa delle suffragiste agli inizi del Novecento e la pratica dell’alimentazione forzata in risposta ai loro incessanti scioperi della fame, fino all’abolizionismo del femminismo Nero negli anni Settanta, sono costanti gli sforzi per denunciare il carcere e sfidare la sua logica punitiva e repressiva.

Se il carcere è la risposta dello Stato a chi è considerato deviato rispetto alle norme del vivere civile, per le donne queste forme di devianza hanno significato per molto tempo la trasgressione alle aspettative sociali e ai ruoli di genere, più che il reato. La reclusione per queste eretiche, isteriche o pazze era nei manicomi, nei conventi, in spazi pensati per rieducarle ai modelli sociali, per renderle conformi. Ne è un esempio il complesso del Buon Pastore a Roma, dove ora ha sede la Casa Internazionale delle Donne e la nostra redazione, che è stata reclusorio femminile fin dal Seicento per le ‘peccatrici’, prostitute, adultere, madri nubili, donne con disagi, pensatrici in contrasto con i dettami della religione cattolica.

È a partire dal riconoscimento di questa genealogia che parliamo e interroghiamo il sistema carcerario. Quanto più le norme, anche quelle di genere, sono stringenti, tanto più è facile trasgredire: ecco perché le donne sono state spesso punite ed ecco perché i femminismi denunciano chi definisce la norma, e su chi quelle forme di punizione più comunemente ricadono.

Nella sua Bibliografia Femminista Imprescindibile, María Galindo cita il carcere tra i primi luoghi fondamentali da “leggere” per una ipotetica giovane ragazza che voglia avvicinarsi al femminismo: “Ti propongo di leggere i luoghi imprescindibili della tua città come ad esempio il carcere femminile, la piazza, il mercato. Ti immagini se, al leggere il carcere, potessi capire le donne che lo abitano, quante meravigliose conoscenze potresti acquisire? Chi lo abita, cosa pensano, cosa immaginano, qual è il concetto di libertà con il quale si svegliano?”[2]. È dunque intorno alle norme, alla punizione e alla libertà che si snoda l’urgenza del pensiero femminista.

Specchio della società, il carcere ricalca la divisione sessuale dei ruoli, estremizza le dinamiche di violenza, esclusione e discriminazione, ma fa anche qualcosa di più: infantilizza il soggetto, lo rende passivo, dipendente, ‘spersonalizzato’: “Lo smarrimento che le donne descrivono per questo ‘perdersi’ della propria identità personale a favore di quella stereotipata e standardizzata della ‘detenuta’ è associato spesso alla percezione di perdita della dignità e del rispetto, dimensioni entrambe che risiedono nel diritto a riconoscersi ed essere riconosciute per ciò che si è”[3]. Il carcere regredisce all’infanzia, lo fa a tutte o solo a me? Si chiedeva Goliarda Sapienza nel suo racconto autobiografico dal carcere di Rebibbia. È stata definita “sofferenza aggiuntiva”[4], fatta di discrezionalità e arbitrio, dunque ingiustificata.

Prendere parola su di sé e sul mondo che si abita è stato rivoluzionario per le donne e lo è ancora oggi: in questo numero a farlo sono le donne e le persone trans e non binarie che vivono e conoscono il carcere, perché detenute-3, operatrici-3, avvocate-3, attiviste-3, studiose-3.

Siamo partite da qui per interrogare il sistema carcerario e penale, per provare a rispondere alle domande che hanno guidato il percorso di costruzione di questo numero: cosa ce ne facciamo della differenza femminile in un’istituzione totale come il carcere? Perché ci riguarda tutte? Il pensiero e le pratiche femministe possono essere generativi di una trasformazione del sistema per tutti? È possibile tenere insieme una dimensione di politica trasformativa con le pratiche politiche esistenti?

Il numero che avete tra le mani muove da queste domande e lo fa partendo da noi e aprendosi alla relazione con le altre, con persone variamente implicate col sistema carcerario: perché lo vivono, perché ci lavorano, perché lo studiano criticamente.

È stato un percorso collettivo, in cui ci siamo assunte la responsabilità di stare nelle contraddizioni e in cui abbiamo provato a muoverci, nel solco della strada già tracciata da molte prima di noi, da Angela Davis a Silvia Federici, su un doppio livello: quello della riforma e quello della rivoluzione/liberazione. Analizzare la condizione di oppressione dei corpi femminili e delle donne in carcere, stare nelle battaglie quotidiane per migliorarne la vivibilità, scardinare le narrazioni stereotipate, continuare a lavorare per i diritti di tutte le persone detenute. Ma allo stesso tempo immaginare altro, andare oltre la logica punitiva, verso l’abolizione del sistema penale e carcerario, da una prospettiva femminista e intersezionale.

Non è un terreno semplice, lo dimostra il fatto che la riflessione sul carcere e sul sistema penale non sono sempre state in primo piano nelle lotte femministe. Una possibile spiegazione di questa difficoltà è l’ambivalenza nel rapporto con la punizione quando questa riguarda i casi di violenza maschile contro le donne e violenza di genere. Come coniugare infatti un approccio anticarcerario con la tutela delle persone in fuoriuscita dalla violenza, e dunque con misure di allontanamento, segnalazione o incarcerazione dei maltrattanti?

Su questo fronte i movimenti femministi hanno sperimentato pratiche e pensiero, come raccontano i contributi di Gallicchio, Pali e Ballesteros Pena. Hanno sostenuto posizioni anticarcerarie nette, nonostante la complessità, anche a partire da una prospettiva anarchica (Fiore/Millefiorini); oppure riformiste, come racconta Marietti nella sua intervista in cui leggiamo l’importante lavoro di ricostruzione di dati e storie sulle donne in carcere (Antonelli); fino a interrogare e dialogare con le giovani generazioni su quali aspettative, riflessioni, contraddizioni rilevano su questa istituzione (Palomba).

Un ulteriore nodo riguarda la sicurezza, in un paese nel quale negli ultimi dieci anni questa è stata spesso evocata in nome della difesa delle donne in chiave razzista e securitaria. Abitualmente, episodi di violenza che coinvolgono persone razzializzate sono emersi nelle cronache come esemplari, e utilizzati da governi di ogni colore per l’approvazione di pacchetti sicurezza violentemente razzisti e discriminatori. Così come l’istituzione delle cosiddette ‘zone rosse’ nelle maggiori città italiane, è un intervento securitario che impedisce l’accesso ad alcune zone del centro a persone ‘moleste o con precedenti’, dimostrazione che il sistema penale va nella direzione di quella carceralità diffusa di cui parlano Formoso e Montella.

Ci sono poi le battaglie quotidiane, quelle agite dentro le mura del carcere per migliorare la vita delle persone che lo abitano, per sostenerle legalmente e materialmente (D’Amaro), per portare interventi informativi sulle dipendenze e il diritto alle cure (Mancuso/Ninni), per introdurre, confermare o finanziare attività che possono rivelarsi salvifiche o anche solo utili a darsi un obiettivo, a concedersi una tregua da quel tempo senza tempo che sono le ore trascorse a perdersi nei propri pensieri, spesso dolorosi: il diritto allo studio (Perifano), le attività trattamentali come il teatro (Tricarico), il lavoro, mai abbastanza per tutte-3, ma necessario per sopravvivere e per darsi una possibilità di futuro. Perché esiste anche un dopo, difficile da immaginare per chi è dentro, cancellato dal discorso pubblico fuori. Se di carcere si parla poco, di quello che accade quando si esce dal carcere non se ne parla affatto: un vuoto istituzionale che dimostra il fallimento del sistema punitivo e l’assenza di quel processo di risocializzazione che dovrebbe accompagnare le persone dentro e fuori dal carcere.

E le donne, ancora una volta, lo pagano doppiamente. “I maschi hanno sempre una madre, una moglie, una sorella, una cugina, un’amante, una vicina di casa che va a trovarli per tutta la durata della loro permanenza. Le donne invece vengono abbandonate, lasciate sole, non c’è la stessa cura da parte delle famiglie nei loro confronti”, racconta una delle attrici della compagnia teatrale Le Donne del Muro Alto (Di Martino/Paoletti). La cura delle relazioni, la rete sociale, la salute, l’affettività, la sessualità sono tutti elementi che segnano una differenza nell’esperienza del carcere per le donne e per le persone trans, perché mettono al centro il corpo: “La struttura sessista del carcere impatta e annienta (è fatta per annientare!) chiunque non sia maschio e forte”, ci scrive Bianca Libera Riva dal carcere.

Abbiamo raccolto le voci di chi il carcere lo vive e lo ha vissuto, così come delle compagne che hanno scelto di entrare in ‘altre carceri’, i centri di permanenza per i rimpatri, per supportare donne sopravvissute a violenze come la riduzione in schiavitù, la tortura, lo stupro, la servitù domestica, la prostituzione forzata, sperimentando nuove pratiche di resistenza, ma anche i cortocircuiti del percorso (Quinti/De Masi).

Pratiche politiche di responsabilità che mettono al centro il soggetto detenuto e che stanno nelle contraddizioni di cui dicevamo, ma senza alcuna illusione di cambiamento radicale dell’istituzione carcere, oggi più che mai lontana dall’idea di un modello più aperto e inclusivo.

Mentre chiudiamo questo numero è in discussione al Senato un ddl sicurezza che punisce il dissenso e rafforza i reati penali nei confronti delle persone più vulnerabili, incluse le persone detenute, introducendo il reato di rivolta penitenziaria che comprende anche le manifestazioni di protesta non violenta, e apre il carcere alle donne incinta o con minori di un anno, evidentemente ‘cattive madri’, un fantasma patriarcale che non smette di riaffacciarsi (Ronconi).

Il numero si arricchisce delle illustrazioni di Michela Negri, Silence and Duties, Anahi Mariotti, La luna insieme, e Croma, Untitled, che con la potenza delle immagini ci aiutano a scavalcare il limite della parola.

Ci auguriamo che questa pubblicazione sia cassa di risonanza e occasione per ulteriori riflessioni, per tutte quelle voci femministe che contestano l’ingiustizia dei sistemi penali e di detenzione, e che possa essere sollievo e rilancio per chi ostinatamente va alla ricerca della liberazione, in modo più o meno irriverente, fuori e dentro le gattebuie.

 

(gbr, tdm, rp)

 

 

[1] Antigone, Report 2024: https://www.antigone.it/upload2/uploads/docs/Reportfine2024.pdf

[2] GALINDO M. (2024), Femminismo Bastardo, Mimesis, p. 40.

[3] RONCONI S. e ZUFFA G. (2014), Recluse. Lo sguardo della differenza femminile sul carcere, Ediesse, p. 41.

[4] RONCONI S. e ZUFFA G. (2020), La prigione delle donne. Idee e pratiche per i diritti, Ediesse

Indice

MATERIA

DENTRO, FUORI, AL DI LÀ DELLA LEGGE. Prospettive femministe attorno alla gestione penale della violenza di genere
LA DETENZIONE FEMMINILE IN ITALIA. Intervista a Susanna Marietti
LA 'CATTIVA MADRE' È REA E DETENUTA. Il ritorno di un fantasma patriarcale
SILENCE AND DUTIES. Illustrazione di Michela Negri
OLTRE IL CARCERE, LA CARCERALITÀ DIFFUSA ALLA PROVA DELL'ABOLIZIONISMO FEMMINISTA
STORIE DI TRATTA E VIOLENZA DELLE DETENUTE. L'esperienza di Be Free
LETTERA DAL CARCERE
CORPI ESTRANEI. L’esperienza di Bianca
FEMMINISMO ANTICARCERARIO: dal pensiero anarchico all'abolizionismo
LA LUNA INSIEME. Illustrazione di Anahi Mariotti
IL CARCERE RACCONTA LE INGIUSTIZIE SOCIALI. Le Donne del Muro Alto raccontano il carcere.
ALLA RICERCA DELLA VERITÀ. Il teatro in carcere
IL DIRITTO ALLO STUDIO IN CARCERE. Uno sguardo profano
DONNE, DROGHE E CARCERE: per cure e diritti realmente esigibili
GIOVANI E CARCERE, TRA PERCEZIONE E RAPPRESENTAZIONE. In dialogo con Marica Fantauzzi e Valentina Calderone
UNTITLED. Illustrazione di Claudia Romagnoli

POLIEDRA

OLTRE IL SISTEMA CARCERARIO: soluzioni femministe contro la violenza interpersonale e sessuale
POLITICHE DI UGUAGLIANZA, PRIGIONI E FEMMINISMI TRASFORMATIVI

SELECTA

Lea Melandri e Cattive Maestre dietro la cattedra, sotto il banco. il corpo a scuola Prospero editore, 2024
Angela Balzano, Eva virale. La vita oltre i confini di genere, specie e nazione Meltemi, 2024