Il proposito con cui si chiudeva l’editoriale del numero 97 – Gli spazi dell’agire politico. Tra radicalità, esperienza e conflitto – era quello di ricevere tra le mani un numero 98 che, facendo tesoro del pensare in presenza e del partire da sé degli incontri della redazione allargata, riflettesse delle differenti forme di relazione della nostra politica.
Detto, fatto. O meglio, messo in pratiche.
Perché parlare di relazioni? Perché è da qui che siamo ripartite per essere efficaci in un sistema e in un tempo che sanno più di sconfitta che di vittorie, che raccontano, in nostra assenza, di noi e dei nostri corpi.
DWF – lo ricordiamo spesso – ha sempre avuto un’attenzione particolare alle relazioni. Questo ha significato nel tempo che la rivista ha raccolto parole vive di donne – e a volte di uomini – che le donne della redazione hanno incontrato, con cui hanno percorso un pezzo di strada, gioito e sofferto nell’agire della politica. Oggi, facciamo un passo avanti.
La politica delle donne raccoglie l’eredità, preziosa e faticosa assieme, di un linguaggio costruito sull’esperienza e sulle relazioni. Genealogie che riconosciamo, le cui parole però non sono date per scontate, ma hanno bisogno di essere riempite di nuovo di contenuti vivi, fatti delle esperienze delle donne che vivono una condizione sociale e politica – quella dell’oggi – a tratti profondamente cambiata e a tratti incredibilmente sovrapponibile al nostro passato prossimo.
Si è scelto così, in Materia, non tanto di restituire delle riflessioni compiute sulle pratiche di relazione in atto nella nostra politica, quanto di metterle in scena, di abbandonare il linguaggio già consolidato e rassicurante dell’analisi per entrare in quello del dialogo vivo di donne che si confrontano sulle forme e sulle pratiche delle loro relazioni in atto. Sfumano i contorni noti in cui si struttura il pensiero per lasciare spazio alla vivacità della scena di una relazione, senza mediazioni.
Una finestra aperta alla possibilità di una nuova nominazione.
La relazione ha la forza di rimettere al centro il corpo che detta una sua misura, che vuol dire responsabilità e fatica nella politica delle relazioni (Di Martino e Lo Moro), a cui si accede anche per una relazione di affidamento e conflitto (Burchi e Bora).
Le donne del Collettivo Benazir ci donano stralci dei report dei loro incontri che mostrano le difficoltà e la potenza dell’essere tutte intere nella relazione, del restare nell’autenticità della narrazione di sé, a costo di uscire fuori dal tracciato (intervista di Lo Moro) e c’è chi scommette sull’atteso imprevisto che genera il riconoscimento dell’altra, l’altra sé e l’altra da sé (Chiricosta).
Una riflessione più sedimentata torna nella sezione Poliedra, che accoglie in questo numero il Manifesto del Collettivo Femministe Nove, un lavoro lungo un anno di donne provenienti da esperienze e percorsi politici diversi che hanno riconosciuto in queste energie un potenziamento della propria singolarità e nella condivisione della responsabilità e del desiderio la possibilità di produrre spostamenti e cambiamenti nella realtà.
Un lavoro che ritrova un po’ il sapore dell’autocoscienza, ma che non ne ricalca tutte le linee e tutti i contorni, come ci aiuta a capire il saggio ben strutturato di Mercandino.
L’(auto)narrazione è un terreno da riconquistare per poter essere in relazione, sia che si tratti di una pratica da mettere in atto con donne che vivono condizioni materiali particolari, come le donne recluse in carcere (Simone), sia quando si è in un dialogo lungo con una pensatrice autorevole e generativa (Bonacchi su Joan Scott).
Restano i contorni già tracciati nel numero precedente: la radicalità, l’esperienza e il conflitto come molle della relazione della nostra politica. La radicalità dell’essere autentiche; l’esperienza, quel di più che si porta e da cui non si può tornare indietro, che riconfigura qualcosa di nuovo, modificabile ma ineludibile; e il conflitto, quello spostamento che si gioca prima di tutto a partire dal riconoscimento dell’altra.
(rp)