Ho proposto alla redazione questo numero – e il successivo, che ne riprende il tema – alla vigilia della mia partenza per l’Australia, dove mi accingevo a trascorrere parte di un sognato anno sabbatico come Visiting Research Fellow presso la School of Languages, Cultures and Linguistics della Monash University di Melbourne. Sapevo che lì, senza impegni di sorta che non fossero studiare, fare ricerca, pensare e scrivere, avrei avuto finalmente il tempo di dedicarmi a questo progetto, da tempo confusamente ma fortemente presente al mio desiderio: l’individuazione di alcune figure di donne contemporanee significative nelle arti performative, e di altre donne capaci di far emergere la politicità del loro lavoro in termini parlanti per la nostra sensibilità. Per nostra intendendo quella di donne, ormai di diverse generazioni e sicuramente di diverse esperienze, accomunate però da una appartenenza di genere scelta e non subita, autonomamente significata nella relazione con altre, e dall’amore per la libertà femminile e per quella trasformazione di sé che chiama in causa il mondo.
La redazione mi ha dato fiducia, e nella lontananza degli antipodi ho quindi tessuto rapporti con le autrici dei pezzi raccolti in questi due numeri di DWF, avendo prima identificato le artiste di cui mi sembrava interessante interrogare la storia e la produzione – una scelta non facile, inevitabilmente soggettiva e discutibile, giacché nella ricchezza di presenze di donne nel campo delle arti performative molte altre me ne sono venute in mente… Artiste di formazione diversa, provenienti da una varietà di luoghi e di culture, non necessariamente femministe (anzi, in alcuni casi – Sarah Kane, Ariane Mnouchkine – quasi infastidite dalla possibile imposizione di una connotazione sessuata al loro lavoro), donne di spettacolo in una accezione ampia del termine: drammaturghe, registe, attrici, artiste della performance, da “leggere” a nostro vantaggio, per quel di più del linguaggio artistico che sa dire oltre le intenzioni di chi dice e che – soprattutto nelle arti performative, dove il corpo è segno e significato – non può mantenere una opaca neutralità.
Intanto avevo partecipato alle prime riunioni di discussione per il numero Aggiunta e mutamento, e avrei poi continuato a seguirne gli sviluppi scambiando messaggi di posta elettronica con le altre della redazione: hanno così viaggiato tra Roma e Melbourne gli appunti delle riunioni, le diverse stesure di “Per la pratica politica”, le ipotesi dei vari pezzi. Una relazione segnata dalla distanza (sappiamo che lo scambio in presenza non è mai pienamente sostituibile) che però lavorava dentro di me oltre la mia stessa consapevolezza, permettendomi al mio ritorno di prendere parte – quasi come se niente fosse – alle ultime fasi di completamento del numero. Per cui, leggendo i pezzi che avevo commissionato, ho avvertito con naturalezza che c’era un legame, che quel che emergeva dai ritratti, dalle interpretazioni, dalle analisi che inseguendo il mio progetto originario avevo chiesto e “contrattato” con le autrici, aveva molto a che fare con quella sfida al pensiero politico da parte dell’arte individuata in Aggiunta e mutamento, con il riconoscimento della capacità – oggi molto rara e invece così necessaria – propria della pratica artistica di “comunicare ed esprimere il bisogno di senso e di cambiamento del mondo in modo molto efficace, aprendo all’ascolto e allo scambio”.
Guardando al lavoro delle artiste di cui si parla in questi due numeri: Julia Varley – attrice dell’Odin Teatret; Odile Sankara e Werewere Liking – eclettiche donne di spettacolo africane; Sarah Kane e Caryl Churchill – drammaturghe inglesi di due generazioni successive; Ariane Mnouchkine – regista geniale e innovativa; Marina Abramovic´, performer e figura di primo piano nelle arti visive, si vede bene la loro “forza nell’indicare con precisione”, nell’esprimere il mondo in cui viviamo e nel modificarlo nominandolo, in un intreccio tra vita e arte che non significa superficiale (auto)biografismo ma radicamento nell’esperienza e sua ripresentazione in modi che ne conservano l’intensità del sentire soggettivo ma anche la allargano al mondo.
Dono prezioso nel momento attuale, segnato da una dolorosa “individualità” del rapporto con gli eventi terribili che quotidianamente ci feriscono come singoli corpi e singoli pensieri, “implosione nell’intimo di ognuno/a, nel ventre molle del privato”. Citare da “Per la pratica politica” nell’introdurre casuale; è come se la riflessione iniziata in Aggiunta e mutamento, il volgersi alla pratica artistica per coglierne la forza costruttiva contro “la miseria che schiaccia le singolarità in individualità […] rendendole incapaci di autorappresentazione e di “mondificazione”, si esemplificasse – oltre mio il progetto iniziale – nel lavoro di queste donne, che davvero ci aiuta “ad elaborare il dolore, a farne lutto, a superarlo come anche ad alzare la soglia dell’insopportabile” e a spezzare “il senso d’impotenza e di avversione per questo mondo” con un altro “stato delle cose” e con i segni della loro ricerca.
(pb)