Un passo indietro, c’è qualcosa da riscoprire.
Lo diciamo così, quasi d’istinto, ma senza nascondere che su questo s’è a lungo meditato o che un lungo percorso ci ha condotte a queste considerazioni.
Nei primi due numeri del 2012 abbiamo dato spazio e voce ad alcune esperienze di “saper fare comune” sparse per tutt’Italia. Ne sono emerse le pratiche di cui queste esperienze sono nutrite; pratiche che si reggono sulle esistenze, sulla condivisione, sui corpi. Questa riscoperta delle esperienze politiche dal basso, in modo così diffuso e potente, porta con sé una enorme critica al modello istituzionale dato, neutro, universale e statico che non riesce da lungo tempo, e chissà per quanto ancora, a rispondere alla richiesta di essere all’altezza delle trasformazioni delle vite.
Tempi lunghi, dunque, perché la critica al modello istituzionale dominante è profondamente legata alla critica ai tipi tradizionali di femminilità, su cui ancora in questo numero interveniamo (vedi in ‘Poliedra’ i pezzi di Leonetta Bentivoglio su Pina Bausch e di Coral Herrera Gòmez, il Manifesto degli amori queer).
Il discorso dominante parla di una politica che si misura solo sulla moneta. Misure altre, come fiducia e responsabilità, sono state dimenticate, e quelle nate dall’esperienza e dai movimenti, come beni comuni o restituzione, sono state assunte dal discorso politico svuotandole del loro significato. È questo lacerante silenzio sulle vite, o questo parlare a sproposito dei governi della crisi, che aumenta la distanza da questo modello e da questa politica. Se da un lato il ritorno a una partecipazione politica dal basso restituisce lucidità nel mettere a fuoco i limiti del modello istituzionale e la sua degenerazione, dall’altro le istituzioni stesse – parte integrante di un sistema che fatica a reggere – possono garantire la durata lunga di diritti, e quindi servizi, che non siamo disposte a perdere. Se negli ultimi decenni abbiamo visto rompersi più di un patto tra Stato e cittadine/i (da quello sulla promessa della piena occupazione a quello sulla salvaguardia dalla privatizzazione di alcuni beni che si pensava fossero inalienabili, come l’istruzione e l’acqua), il sistema – nonostante i tagli e le umiliazioni – non riesce ancora a espellere definitivamente o con leggerezza ciò ne mantiene viva l’utilità sociale, i servizi pubblici.
Ma in questo filo teso così logoro tra Stato e cittadinanza, per tentare di rassettare alcune trame, c’è bisogno di capire da quali servizi pubblici ripartire e cosa di questi si può mettere al centro di una “politica di recupero”, che non si trasformi soltanto, come troppo spesso è accaduto in questi anni, nella sola resistenza ai tagli o in battaglie di retroguardia, ma che punti a ripartire da ciò che funziona e ci piace. Tra queste esperienze ne abbiamo interrogate alcune, quelle che mantengono per loro natura un legame con i territori in cui sono collocate, e che costituiscono e costruiscono ancora e nuovamente lo spazio pubblico in cui si crea scambio, confronto e crescita tra culture differenti. Sono esperienze di servizi pubblici che agiscono e restituiscono alla città il senso del loro esistere: luoghi che aprono orizzonti e in cui la contaminazione e la condivisione delle esperienze è già cittadinanza.
Ripartiamo dalle pratiche di quelle donne che abitano e lavorano in strutture pubbliche – come i consultori – per restituirli alle donne (Bruno, Di Martino); dalle esperienze di chi sfugge alle regole neutre dei tagli di bilancio e della retorica dell’efficienza, che si dimenticano dei corpi, delle terre e delle vite (Veltri, Petrungaro); dai saperi di chi porta con sé una competenza e un bagaglio simbolico femminista nel proprio lavoro e ruolo istituzionale (Storti); dai luoghi in cui si incontrano le differenze, in cui si fa sapere in modi imprevedibili e in cui si costruisce la cittadinanza (Paoletti, Mercandino).
Ma soprattutto ripartiamo dalle donne che gestiscono strutture pubbliche, che le custodiscono e che se ne prendono cura. Non un semplice servizio, ma una irriducibile differenza messa a disposizione della cittadinanza attraverso i servizi, perché l’amministrare – a dispetto di quello che passa ormai nel discorso dominante – non ha a che fare soltanto con il denaro e con indici numerici, ma anche e soprattutto con le relazioni e con la fatica di corpi che ogni giorno fanno vivere in modo sempre rinnovato questi luoghi.
Un passo indietro. Riscopriamo gli spazi di libertà.
(tdm e rp)