“Sei una scatenata!” Quante volte ce lo siamo sentite ripetere da bambine, perché troppo esuberanti, troppo attive, troppo impegnate in giochi ‘da maschio’. S-catenarsi, liberarsi dalle catene, è un gesto inevitabile per le bambine ogni volta che scelgono di godere di qualcosa che è loro socialmente precluso: correre molto veloci, arrampicarsi, fare la lotta nel fango, giocare a pallone. Ma scatenate sono anche le sportive che rifiutano i limiti imposti da un mondo ancora troppo maschile e scelgono di sperimentare nuovi modi di intendere la disciplina a partire dal lavoro col corpo. Libere dalle catene e irriverenti.
La possibilità di fare sport non è storicamente scontata per le donne, relegate ad alcune discipline anziché altre o inquadrate in regimi corporei stringenti, dove la muscolatura e la prestanza fisica devono essere subordinate al mantenimento di un certo canone di femminilità e tenute lontane dallo stigma del lesbismo. I cambiamenti sono stati molti a partire da quel 1922, quando a Parigi la Federazione Sportiva Femminile internazionale, esclusa dalle moderne Olimpiadi di Pierre de Coubertin, organizza i primi Giochi Olimpici Femminili, permettendo così alle donne di accedere alle Olimpiadi nel 1928. Eppure, a distanza di un secolo, le strutture sessiste di esclusione nel mondo dello sport rimangono, nel contesto professionistico e non.
L’estate 2019 ha però segnato un passaggio nell’immaginario comune: un po’ per caso – vista l’esclusione della squadra maschile dai mondiali di calcio e la necessità di convertire i milioni già spesi dagli sponsor –, un po’ per fortuna e molto per il lavoro fatto in precedenza, la partecipazione della squadra italiana ai mondiali femminili e la grande copertura mediatica avuta, hanno catalizzato l’attenzione generale per settimane. Questo “imprevisto”, le donne che giocano a calcio e lo fanno ai mondiali, ha spostato l’asticella di un mondo dello sport ancora arroccato su regole, parole e immagini declinate al maschile. L’evento, con tutte le contraddizioni del caso, ha senz’altro prodotto nuovi modelli a disposizione delle giovani generazioni, e ha aperto uno spazio di possibilità. Uno spazio di libertà.
Un cambiamento su cui abbiamo iniziato a interrogarci, a partire da noi, dalle nostre esperienze, consapevoli che lo sport non è stato al centro delle rivendicazioni ed elaborazioni dirette del movimento femminista. Basti pensare che questo è il primo numero che, dal 1975, DWF dedica interamente allo sport. Che cosa significa approcciare una disciplina sportiva per chi ne è storicamente stata esclusa? Cosa cambia dopo? Cosa emerge dalle pratiche delle sportive contemporanee? Cosa ci raccontano della relazione col corpo? Di quali nuovi modelli e immaginari abbiamo bisogno?
Dalle risposte che abbiamo cominciato a darci sentivamo emergere alcuni punti. Al centro il ruolo del corpo, da sempre nucleo della riflessione femminista: un corpo allenato e plasmato dalla disciplina sportiva e costantemente a contatto col proprio limite. Ma anche esposto al confronto con modelli iper-femminilizzati che non lasciano spazio alla molteplicità di corpi altri – tonici, muscolosi, sportivi tanto quanto ‘fuori forma’. L’immagine di un corpo in rapporto con il sacrificio e lo sforzo, il sudore e i suoi fluidi: ci siamo chieste ad esempio se le mestruazioni nell’agonismo fossero ancora un tabù, e quanto ancora si pensi che una ciclicità cosi naturale possa influire sulla prestazione sportiva. E ancora, cosa significa diventare madri rispetto alla carriera sportiva, se e quanto la scelta della maternità sia ancora ‘ostacolo’ al raggiungimento di obiettivi sempre più sfidanti.
Sfida, competizione e conflitto sono gli altri elementi su cui ci siamo soffermate, per indagare quanto lo sport diventi pratica di relazione fra donne, fonte di comunità e dimensioni collettive: lo sport come dimensione sociale e politica nella vita delle donne, ma anche come tema femminista.
Abbiamo cercato alcune risposte nel modo che preferiamo: intrecciando gli sguardi e le esperienze di donne con cui siamo in relazione politica, e che a partire dal proprio vissuto hanno molto da raccontare.
Ne è emerso che la pratica sportiva è innanzitutto una riappropriazione del rapporto col proprio corpo in cui riscrivere e risignificare la vulnerabilità, un implicito del femminile (Trovarelli), e veicolare una forza, spesso inattesa, in un movimento di auto-coscienza e auto-disciplina sportiva (Chiricosta, Leiss). L’autodifesa femminista diventa la risposta alla relazione antica e strutturata con la violenza: invertire l’ordine delle cose, mettere in discussione (Kilde), così come le discipline da combattimento ci parlano della relazione con l’altra: «C’è qualcosa di erotico in due persone che si allenano o che combattono insieme: sono singole ma non possono che essere in relazione, confliggono toccandosi, devono vedere con precisione lo spazio occupato dal proprio corpo e dal corpo dell’altra. Una specie di dialogo sensoriale che non può prescindere dalla conoscenza di te e dell’altr*» (Bilancetti e Settembrini).
E’ sull’accesso del corpo delle donne allo spazio pubblico che si gioca tutta la questione politica: «Quello che spaventa è l’entrata nello spazio pubblico di un soggetto per molto tempo relegato al privato, la messa in discussione dell’eteronormatività e la definizione di un soggetto che sa difendersi» (Virgili). E il partire da sé svela la fatica che tutte conosciamo nel rompere gli schemi e superare le strutture ancora radicate in quel donne ‘e’ sport che accosta le categorie senza connetterle (Passarelli, Sclocco), anche nel linguaggio dell’informazione (GiULiA Giornaliste). Eppure, c’è chi dello sport visto con lenti femministe ne fa una scommessa editoriale indipendente dando vita a nuove narrazioni (Leccardi/Bonu).
In questo numero lo sport emerge sia come parola di sé, sia come percorso di scoperta e autodeterminazione. Un intreccio di attualità e storia personale, che racconta la commozione durante l’epifania dei mondiali femminili 2019 (Forenza) e la liberazione di desideri per troppo tempo censurati: “da quel momento ho concesso a me stessa di essere tutto” (Cagnamaledetta). Ma anche lo sport come pratica collettiva, cura della cosa pubblica, che diventa risposta politica al vuoto istituzionale e contrasto al degrado e alla microcriminalità (Atletico San Lorenzo).
Nella sezione Poliedra, ospitiamo il saggio di una giovane ricercatrice che mette a fuoco la relazione tra la dimensione letteraria e quella teorica nel pensiero femminista nell’Italia degli anni Novanta. Tema ancora poco indagato (Frasisti).
Ci piace pensare che questo numero di DWF sia il primo di una serie di scorrerie femministe in ambiti meno trattati e politicamente osservati, come in questo caso lo sport. Si tratta di incursioni che a volte restituiscono in maniera plastica quanto la nostra politica abbia inciso e trasformato le donne in maniera profonda e incontrovertibile. Ci fa bene, fa bene alle altre. Soprattutto alle donne del futuro.
(gb, tdm)