SCOMODE. Voci e pratiche femministe in accademia
VERSIONE INTEGRALE
Scomode
Scomode. Come quando la sedia è dura, o peggio non c’è e tocca stare in piedi. Come quando in una stanza, in un treno, in un gruppo si prova un vago senso di inadeguatezza. Ancora, scomode come quelle voci che danno fastidio, come quando si prende parola, anziché stare in silenzio, agendo per spostare l’ordine delle cose.
Partiamo da una sensazione, trasformata una condizione politica - la scomodità - per comporre la cornice dentro cui i contributi di questo numero si muovono. L’intenzione è guardare oltre i perimetri di vite lavorative e relazionali dove abbiamo spesso fatto fatica ad immaginare un altrove. Ai linguaggi codificati dell’accademia, alle sue gerarchie, alla rigida divisione di ruoli, posizioni, carriere, abbiamo cercato di opporre l’orizzontalità delle pratiche, la collettività, lo stile narrativo, la parzialità, il posizionamento, il partire da sé.
La storia di questo numero comincia un pomeriggio dello scorso inverno, in uno dei piccoli uffici della Scuola Normale Superiore, a Firenze, sede della nostra facoltà. Sul tavolo c’era la disponibilità di alcune risorse economiche (L'evento ha ricevuto il sostegno del programma Horizon 2020 dell'Union Europea, Marie Sk?odowska-Curie grant agreement No. 746168 — AGenDA) e intorno al tavolo noi - dottorande, ricercatrici - con un vago desiderio, all’epoca ancora inespresso, di ritrovarci e fare, insieme. Quel desiderio ha assunto in fretta la forma di alcune parole: volevamo parlare della nostra esperienza di donne e persone LGBTQ nell’accademia, discutere della percezione, condivisa, di abitare spazi inospitali, e parlare anche di sciopero, in vista dell’8 marzo 2020, quando per la quarta volta i movimenti femministi transnazionali avrebbero sperimentato questa pratica.
Da allora abbiamo creato uno spazio di relazione, fatto di riunioni e bicchieri di vino a fine giornata, chiamate su Zoom e documenti condivisi su Drive (Rispettivamente: Zoom - applicazione che consente chiamate virtuali con numerose/i partecipanti e l’utilizzo del video; Drive - piattaforma di condivisione di documenti online). Un processo che ha condotto alla nascita delle Nine, il nome collettivo dentro cui la molteplicità delle nostre voci si esprime - anche con un contributo in questo numero di DWF – e all’organizzazione il 21 Febbraio 2020 del convegno “Sciopero femminista. Riflessioni, pratiche e lotte collettive”, tenutosi a Firenze, nella sede della Scuola Normale Superiore. L’idea nasceva anche dal bisogno di condividere questa riflessione con persone di altri atenei, ma soprattutto con i movimenti femministi e transfemministi, che per primi hanno dato vita allo sciopero: le attiviste della Casa delle Donne Lucha y Siesta di Roma, il movimento Non Una Di Meno, il Movimento Identità Trans, il Coordinamento delle Assemblee delle Donne dei Consultori di Roma e Lazio, il Sister Group, Obiezione respinta. Dopo aver discusso in una prima tavola rotonda pensieri e pratiche sullo sciopero, la seconda parte della giornata ha ospitato riflessioni e testimonianze sulle pratiche femministe in università. Quest’ultima è stata resa possibile dall’invito circolato nei mesi precedenti a reti di colleghe/x, amiche/x e compagne/x che a vari livelli di precarietà lavorano nelle università, di scrivere una storia collettiva. Magari coinvolgendo anche chi lavora in amministrazione, chi tramite cooperative. Non un articolo o un saggio accademico, dunque, ma una narrazione che per sensazioni e per immagini restituisse la nostra storia plurale, troppo spesso invisibile. In tante/x hanno risposto, da Genova a Roma, da Bologna a Firenze, da Pisa a Venezia, da Trento a Verona, da Torino al Quebec.
Non è stato possibile riportare in questo numero la circolarità di emozioni, la complicità, il riconoscersi, e l’intimità politica che abbiamo condiviso durante quella giornata. Non è mai possibile tradurre fino in fondo in parola ciò che avviene in presenza. Non è un caso che per lungo tempo le femministe abbiano rifiutato di lasciare traccia dei propri percorsi di autocoscienza, perché la traccia scritta, così definitiva, tradisce la dinamica della relazione. E’ stato possibile però setacciare da quel momento pensieri e azioni. Il numero raccoglie questi granelli, scritti in forma plurale o per voce sola, in forma autobiografica, narrativa o più formale. Di questa ricchezza vogliamo segnalare alcuni dei nodi più importanti.
Pratiche femministe in accademia
Il metodo da cui nasce questo numero che DWF pubblica è frutto della pratica femminista. Da questa modalità di relazione muovono tutti i contributi. Sono due, quattro, quattordici le mani che si sono incrociate nella loro stesura. Una catena di affetti e mutuo riconoscimento, la cui potenza attraversa tutto il numero.
Abbiamo aperto questa introduzione riferendoci al primo numero di DWF, pubblicato nel lontano 1976 e dedicato proprio alle donne in accademia e al loro ruolo nella ricerca scientifica. Che cosa è cambiato da allora? Soprattutto, possiamo dirci che le cose siano cambiate per il meglio? Non è possibile dare una risposta univoca a questa domanda e, purtroppo, risulta altrettanto impossibile rispondere che le cose siano andate indubbiamente migliorando.
E' senz'altro vero che un numero sempre maggiore di donne ha avuto accesso agli spazi accademici, così come è vero che il ribaltamento epistemologico che gli studi femministi hanno generato è riuscito in larga parte ad affermare gli studi di genere come sapere legittimo, anche se ancora non completamente accettati o istituzionalizzati in Italia. Se questi risultati, ottenuti con le lotte e le rivoluzioni quotidiane di tante che prima di noi hanno attraversato questi luoghi, vanno a nostro favore, ci tocca però constatare che dal 1976, un anno che aveva alle spalle le lotte del '68 e degli anni '70 e un periodo relativamente prolungato di crescita economica, la situazione strutturale in cui ci muoviamo oggi è diversa. L'università è stata presa d'assalto dalla politica dell’austerità negli ultimi trent’anni che da un lato l'hanno sistematicamente privata di fondi e dall'altro l'hanno resa un luogo di lavoro neoliberista, in cui la competitività, la corsa per le pubblicazioni, l'estrattivismo di conoscenze e saperi sono diventati la realtà con la quale ci scontriamo ogni giorno.
In queste condizioni, ogni sapere non conforme è una voce che lotta per non sparire; non è un caso che questo numero racconti gli ostacoli che incontrano i saperi queer e trans e le persone che se ne fanno portatrici all'interno dell'accademia.
In questo contesto, la nostra pratica di collaborazione e rifiuto delle condizioni dell’università neoliberale diventa una forma di resistenza. E così ci siamo ritrovate a scrivere assieme alle nostre compagne, a farci rassicurare dalle nostre compagne, ad aggirare meccanismi di pubblicazione perversi che svalutano ogni forma di cooperazione, a organizzare convegni e conferenze femministe, nei metodi e nei temi trattati, ad affidarci alle nostre compagne per la revisione dei nostri lavori, a sostenerci a vicenda. In ognuna di queste azioni, consapevolmente scegliamo e costruiamo reti che ci proteggano dalle parti più corrosive dell'accademia.
Non sempre è facile o possibile, mettere in atto pratiche femministe specie quando l’unica posta in gioco sembra essere la performance individuale e la possibilità di carriera di ciascuna presa singolarmente. Una possibilità di carriera, ce lo siamo dette, anelata, promessa e così di rado ottenuta. Sappiamo bene che è molto alto il numero di persone che non riesce nemmeno a mettere piede in accademia, e di chi accede, sono tante/i a un certo punto a decidere di uscirne.
Abitare l’accademia a partire da un posizionamento femminista significa inventare pratiche del quotidiano, camminare sentieri scivolosi, a volte non riuscire a camminare affatto. Scegliere il tessuto delle relazioni, in un luogo costruito sull’individualismo, consente non solo di ripensare il lavoro di ricerca ma anche il modo in cui la conoscenza si produce. La complicità, fra noi e con tutte/x coloro che incrociamo nel nostro percorso accademico, è una scelta politica di rottura rispetto alle logiche di competizione. Ripartire dai margini e non dal centro è uno sforzo di pensiero ma anche una pratica di trasformazione femminista: per questo la scelta stesse delle referenze bibliografiche, l’utilizzo della letteratura femminista, decoloniale, queer, sia nel disegno della ricerca che nei materiali didattici, per disinnescare la reiterazione dei saperi bianchi ed egemonici su cui tuttora l’università di fonda. A partire da quadri di riferimento diversi, abbiamo aperto nuove linee di ricerca – come nel caso degli studi sulla cura, sulle nuove forme di affetto e di intimità, sulla salute, la relazione fra ambiente, specie animale e specie umana. Non siamo indenni alle dinamiche di potere, ma proviamo a sperimentare micro pratiche di resistenza alla meritocrazia e al familismo patriarcale. Crediamo che quando possibile, sia necessario scegliere e posizionarsi criticamente, anche quando costa fatica. Di contro però non crediamo nelle scelte da martiri: preservare la nostra salute fisica e mentale, avere cura di noi, è un processo di acquisizione di libertà. Fare fronte comune, creare reti che sono al tempo stesso di lavoro, pensiero e affetto, rappresenta un esercizio quotidiano di sopravvivenza, ma anche di creatività.
Queste singole pratiche non sono soluzioni organiche al problema. Né pensiamo che siano risolutive, o valide per tutte/x, o sempre praticabili. Allo stesso tempo, sono queste micro pratiche che rendono le nostre vite vivibili e che spostano i tasselli di un mosaico che è attraversato da molte crepe.
Il contributo del laboratorio Femminismi parla delle possibilità generate dalle pratiche, liberando parole ed energie nella costruzione di nuovi progetti. Il contributo di Beatrice Gusmano mappa una complessità di pratiche, linguaggi, relazioni, illuminando l’esistenza di una trama molecolare di trasformazione dell’università che ancora non sappiamo nominare, tuttora parzialmente sommersa.
Una buona pratica di relazione passa anche dal riconoscere le differenze. Donne, persone trans e non binarie non sono tutte uguali nelle università, così come non lo sono i ruoli. Condizioni di lavoro differenti, diversi salari, contratti e prospettive. Diverse anche le condizioni di vita: c’è chi è sola/x, chi ha una compagna/, chi ha i figli piccoli, chi genitori anziani, chi una famiglia lontana. È difficile capirsi, aiutarsi, essere amiche/x e alleate/x. Le strutture all’interno dell’università ci dividono così come i rapporti gerarchici. Eppure, basta poco per cambiare le cose. Ascoltarsi è quel primo passo: i divari rimangono ma le distanze progressivamente si accorciano.
Una stanza che – ancora – non è tutta per noi
La scomodità è espressione di una forma di disagio. Il contrario del disagio, però, è l’agio. Cosa significa sentirsi a proprio agio? Chi prende parola con agio in un contesto accademico?
L’accademia è un luogo strutturalmente maschile, etero, bianco e cis (termine con cui si intende la corrispondenza tra identità di genere e genere assegnato alla nascita). In questo non è molto diversa da altri luoghi di lavoro o da contesti istituzionali costruiti e strutturati sulla base della norma universale maschile. Solo chi abita i confini segnati da questa norma può sperimentare fino in fondo la sensazione di agio. I corpi “nella norma” passano inosservati dentro i corridoi di qualsiasi Università. Abitano una stanza che sembra fatta per loro. È infatti a loro misura che altri uomini hanno pensato l’Università. Con delle sedie davvero comode.
Chi si trova in una posizione egemonica può prendere parola senza timore e senza giudizio. Nessuno lo metterà in discussione.
Ma ad abitare l’accademia ci siamo anche noi - donne, persone trans, lesbiche, non binarie, non bianche/x. Tutte/x, a partire dalle proprie differenze, facciamo esperienza di una sensazione profonda, carnale, di dis-agio. La neutralità nasconde sempre il soggetto di un privilegio. In accademia, come altrove, non tutti i corpi hanno lo stesso peso.
Il lavoro in accademia, un lavoro mentale si direbbe, può essere svolto con estrema efficacia solo quando il corpo non pesa nulla. Quando resta imperturbabile, seduto composto, schiena dritta, occhi fissi sullo schermo di un computer.
Al contrario, attraverso l’esperienza del dis-agio, sentiamo costantemente il peso del nostro corpo. Lo percepiamo come iper-visibile quando ci muoviamo, facciamo attenzione a quando e come occupiamo lo spazio, ci chiediamo come verrà vissuto dalle persone attorno a noi.
Per noi, prendere parola nel contesto accademico richiede qualcosa di più degli altri. Dobbiamo dimostrare che la nostra parola vale, perché in qualche forma è ancora illegittima.
Da quando una molteplicità di corpi ed esperienze hanno fatto incursione nell’accademia, norme e gerarchie sono state perturbate. Lo raccontano Antoniucci, Cirimele, Costa, Marini, Moselli, Rosati e Zammuto, restituendo uno spaccato su sessismo, transfobia e marginalizzazione che l’istituzione universitaria pone di fronte a questa molteplicità di corpi.
In accademia, lo spazio e la sua mancanza sono organizzati in maniera gerarchica, riflettono la distribuzione differenziale dei privilegi. Come capita nella nostra università, dove chi ha potere dispone di uno spazio in cui poter riporre le proprie cose, una tazza, un libro, una pianta, e chi no si deve accontentare di spazi risicati, mai pensati per se.
Eppure, lo spazio è fondamentale per r-esistere nell’università. Questo numero di DWF nasce dalla possibilità di vivere diversamente gli spazi, costruendo legami al di là delle differenze, sentendoci più sicure, e trovando nuovi modi di lavorare assieme e di starci vicino.
Riflettendo sulla materialità dei corpi, abbiamo cercato una coerenza tra questa spinta astratta e la dimensione fisica del nostro ritrovarci. Abbiamo provato ad immaginare in maniera diversa gli spazi perché potessero accoglierci. Abbiamo eliminato gli elementi gerarchici che dividono i luoghi del sapere, distinguendo tra produttori e fruitori della conoscenza. In quanto accademiche e attiviste femministe abbiamo avvertito il bisogno di ritornare ad una forma circolare, assembleare. Spostando una ad una le sedie abbiamo formato un cerchio all’interno del quale sperimentare ascolto e cura reciproca. Uno spazio in cui potessimo parlare in coro, lasciando che alcune voci stridessero.
Non siamo così ingenue da credere di essere immuni alle forme pervasive del potere in accademia. Il meccanismo di funzionamento dell’università, basato sulla competizione, sulla solitudine, sull’economia della promessa, produce linee gerarchiche che operano su livelli diversi. Così può succedere, come raccontano Le Imperterrite in questo numero, che a cavallo tra accademia e attivismo si finisca per ricalcare le dinamiche maschili che ci si racconta di combattere.
Noi stesse/x assecondiamo la dinamica performativa dell’accademia che cerca di costruirci come soggetti competitivi, prestanti, disposti a sacrificare relazioni, luoghi e salute sull’altare della carriera. Il desiderio del lavoro universitario esiste, così come il piacere, ma questi sono terreni scivolosi al prezzo dei quali viene costruito l’imperativo della produttività e del lavoro d’amore, che quindi non è lavoro, come racconta Non una di meno Torino nel suo contributo.
Se è vero che ci sono condizioni che riguardano il mondo del lavoro in generale e altre tipiche del lavoro accademico, è vero anche che esiste una dimensione di genere specifica che le attraversa, come tracciato da DWF nel 2010 nel n. 85 “Diversamente occupate” e nel 2018 nel n. 113 “Lavori aperti”. Il lavoro in accademia spesso - soprattutto negli scalini inferiori della gerarchia - non è riconosciuto come lavoro: è studio perenne, oppure piacere. La ricerca sociale diventa un vacuum, un capriccio. Chi lavora in università vive una posizione ambivalente, da un lato legata al privilegio relativo di status, dall’altro alle schiaccianti dinamiche neoliberiste basate su meritocrazia, autoimprenditorialità e autosfruttamento. L’eccellenza è un dispositivo che, a volte più a volte meno, modella le carriere lavorative, in una selva di contratti a termine, ipertrofia delle pubblicazioni, corsa all’internazionalizzazione. La merce è il lavoro cognitivo ma anche la competenza relazionale, la capacità di fare rete, la performance, la tenuta psicologica, il capitale sociale e culturale. Il sorriso, la bella presenza, la cura, la condiscendenza. Lavorare in università permette in qualche forma di “avere una voce”, ma a quale prezzo? Come riportano le Impostore nel loro contributo, in questa dimensione lavorativa ambigua esiste chi, più di altri, vive la pesantezza dell’asserzione del merito e dell’eccellenza.
La pandemia che ha investito le nostre vite all’indomani del nostro incontro ha sicuramente reso tutto più difficile: ha moltiplicato il bisogno di pubblicare, di “esserci”, e accelerato i tempi di vita; ha sovvertito i nostri spazi, interdicendo quelli pubblici e costringendoci a rendere pubblici i nostri spazi privati. Dall’altro lato, ha sottolineato l’assurdità di un sistema che ci chiede di procedere e lavorare come se non fosse successo nulla, come se la nostra quotidianità non fosse stata stravolta. Come sottolinea Elena Pavan esistono alternative fatte di tempi lenti e di cura, per iniziare una ricostruzione che è sia personale che accademica.
Produrre sapere. Scompaginare le gerarchie
“Chi, per chi, come” si chiedevano nel 1976 le redattrici Annarita Buttafuoco, Tilde Capomazza, Maria Teresa Morreale, Maria Grazia Paolini, Biancamaria Scarcia, Dora Stiefelmeier, Flo Westoby nel primo numero di Nuova dwf donnawomanfemme “Donna e ricerca scientifica”, discutendo della supposta neutralità del lavoro scientifico e il bisogno di politicizzare la presenza e la parola delle donne nel campo della produzione di conoscenza.
Il pensiero femminista si è a lungo interrogato sulle possibilità di un sapere incarnato e situato che, lungi dal rappresentare un contraltare alla ricerca maschile, fosse in grado di scardinarne i presupposti. Se il sapere scientifico si presenta come universale e neutro, rendendo invisibili i soggetti che lo producono, la ricerca femminista ha saputo insistere sull’importanza del partire da sé, dal proprio posizionamento, anche in ambito accademico. Così sono nati gli studi di genere e le teorie femministe, che hanno preteso l’ingresso nel contesto accademico, e a cui la nascita di questa stessa rivista è intrecciata.
Per me fare scienza dalla parte di qualcuno significa fare scienza con riferimento ad una precisa struttura di potere. Fare scienza dalla parte delle donne significa farlo da una posizione di oppressione sociale che comporta anche un disagio nei confronti della cultura prodotta dal sistema che ci opprime. Ovviamente è necessaria una coscienza dell’oppressione. il concetto di oppressione implica una non-accettazione dei rapporti sociali così come sono. Lo scopo ultimo dell’analisi scientifica diventa allora la trasformazione di tali rapporti. (DWF, 1, 1976, p. 6)
A distanza di oltre 40 anni, Pignedoli e Faddoul ripercorrono nel loro contributo il modo in cui gli studi trans, secondo un processo simile vissuto dagli studi di genere, vivano oggi una relativa inclusione, che ha più i tratti di un meccanismo di estrazione di sapere, vista la perdurante cancellazione delle persone trans in quanto ricercatori trans e in quanto identità politiche. Come se la ricerca fosse “qualcosa che si fa e non qualcosa che si è”.
Ancora oggi, lo studio delle questioni di genere è spesso guardato come una disciplina minore. L’università riproduce le gerarchie sociali anche nella conoscenza. Bisogna sempre giustificare perché non si studino i grandi conflitti sociali, le lotte di classe, la crisi ambientale, le trasformazioni del capitalismo e dell'economia globale. Eppure, interessarsi di genere significa proprio questo; studiare questi fenomeni da una prospettiva critica. Il convegno “Sciopero femminista. Riflessioni, pratiche e lotte collettive” è diventato un’occasione per rivendicare la centralità tanto delle teorie quanto degli spazi e delle pratiche transfemministe dentro l’università. Da un lato, abbiamo svuotato le stanze dalle tradizioni di pensiero maschili, mettendo al loro posto noi stesse, le nostre vite, le nostre esperienze. Abbiamo tentato di rompere gli argini che separano i movimenti dall’accademia, che ci costringe troppo spesso in una torre d’avorio.
Interrogarsi criticamente sull’università come luogo deputato alla produzione di conoscenza mette in luce come l’esperienza di soggetti considerati marginali possa disinnescare i paradigmi tradizionali delle scienze. Possa articolare altri sguardi sul mondo, altre metodologie, altre forme di connessione con la realtà sociale. Ma anche, dall’altro lato, come la produzione di conoscenza trascenda i margini dell’accademia, e attraversi una ricchezza di movimenti sociali, di movimenti femministi, transfemministi, queer, di archivi indipendenti e spazi politici che producono e conservano nuove memorie del presente - come raccontato nel numero da CRAAAZI – Centro di Ricerca e Archivio Autonomo transfemminista queer “Alessandro Zijno”.
Qualunque sia la forma e il luogo in cui il sapere viene prodotto, questo è un sapere frutto della relazione. È prima di tutto un processo collettivo. Questo filo rosso, che lega il modo in cui il numero è nato attraverso il nostro incontro, continua fin qui tramite la molteplicità delle nostre relazioni. Le pratiche femministe e le forme collettive di presa di coscienza sono l’unico strumento in grado di produrre una trasformazione delle condizioni emotive e materiali che viviamo.
Le voci raccontano
Nelle università, la nostra voce trema per la paura di non essere all’altezza, di non dire la cosa giusta, di essere al centro dell’attenzione e di non meritarlo. Quel giorno a Firenze invece abbiamo trovato una condizione spaziale e relazionale nuova, e con essa la nostra voce ha acquisito l’incrinatura tipica delle voci cariche di emozioni. Eravamo emozionate per esserci riconosciute ancor prima di conoscerci, per aver condiviso una storia personale e intima e per aver trovato la forza di trasformarla in materia politica, nel suo senso più alto, quello di liberazione da un peso che si crede singolare.
Ci siamo a lungo chieste quali linguaggi abbiano funzionato per mettere in comune le nostre esperienze dentro l’accademia e abbiamo trovato nella forma narrativa e collettiva un canale inedito. Ci siamo divertite a ricomporre le figure che caratterizzano così nitidamente il nostro vissuto quotidiano, disponendo per una volta di tutta la libertà immaginativa di cui avevamo bisogno. Abbiamo per un momento dimenticato i canoni della scrittura accademica che ci costringono ad esprimerci in maniera impersonale, a nascondere le nostre esperienze e idee dietro una montagna di citazioni, a restituire una realtà spacchettata in piccoli segmenti analitici, ripuliti, formalizzati nella quale nessuno è più capace di riconoscersi, né i soggetti che ne stanno al centro né le autrici. Quel giorno invece, la scrittura è diventata corale, liberandoci da questi vincoli. Anche se non ci sarà sempre possibile mantenere questa voce nei nostri scritti, adesso sappiamo di possederla. Sappiamo che è possibile parlare a partire da noi. E’ quello che abbiamo tentato di fare in questa nota editoriale, scritta in tanti incontri, da mani diverse che si sono avvicendate ad aggiungere frasi, parole ed idee per portare avanti una riflessione su come abitare e trasformare gli spazi scomodi in cui ci collocano le nostre università.
Questo numero di DWF ci da l’opportunità di dare un seguito al germoglio nato a Firenze. Speriamo sia l’inizio di un percorso che ci porti a moltiplicare e intrecciare ancora le nostre strade.