Ci sono fili che legano tra loro, pur nell’indubbia eterogeneità, le proposte di lettura raccolte in questo numero – in primis, naturalmente, il loro intrinseco interesse, motivo che innanzitutto ci ha spinto a sceglierle e a offrirle a lettrici e lettori come una sorta di regalo di fine d’anno, giacché trattano argomenti, assai diversi, di cui in Italia si è scritto poco e a volte nulla.
Certamente i giornali hanno a suo tempo parlato dell’epocale esperienza sudafricana di una pesante, e ancora difficile, transizione che poteva assumere derive di ritorsione o di rimozione, e che attraverso la parola e la relazione in presenza ha scelto invece la strada di una giustizia senza vendetta e senza oblio; ma non vi sono state riflessioni più approfondite, come quella presentata qui da Livia Panici, che a partire da una attenta ricognizione di documenti ufficiali e di analisi già condotte ripercorre la storia della Commissione per la Verità e la Riconciliazione – e con un taglio che mette al centro il contributo delle donne a quel processo straordinario, nel passaggio (come le ha scritto Federica Giardini, indirizzandola in questo senso) “dal paradigma dell’oppressione a quello dell’espressione”.
Una frase che si potrebbe usare anche per Anne Lister, studiosa settecentesca di anatomia la cui passione per questa scienza si lega all’indagine su di sé e sulla sua sessualità fuori dalle regole; una figura da poco uscita dal silenzio anche nel mondo anglofono dei gender studies e dei gay and lesbian studies, la cui vita eccezionale, registrata in un diario in codice amorosamente decifrato, ci viene restituita da Cristina Grilli. L’approccio e le metodologie della “new musicology” non sono ignote a una ristretta cerchia di studiose italiane, ma il panorama delineato da Serena Guarracino costituisce una introduzione accurata e profonda a questo campo di ricerca, arricchito da notazioni originali, e inoltre leggibile e riutilizzabile nelle sue suggestioni anche da non addette ai lavori.
Come di tanti altri, si sarebbero potute perdere cognizione e memoria del tentativo – in parte riuscito, ma che segna anche lo scacco non elaborato di una conclusione senza apparente motivo – del gruppo teatrale Divina, significativa in sé e per le questioni che pone rispetto al lavorare tra donne per una ricerca espressiva svincolata da quella, pure praticata con successo, della partecipazione a imprese e progetti, in questo caso di carattere creativo, con uomini. Riprendendo il titolo di una rubrica che non compare più come tale in DWF, ma che nella sostanza ci è piaciuto conservare, potremmo dire – secondo punto di contatto – che tutti e quattro i testi sono testimonianze di “legami magistrali”, di un dipanarsi e persistere nel tempo, attraverso la pratica dell’insegnamento, rapporto delicato, difficile e felice, di quel pensiero femminista che per tante di noi è nato e cresciuto nei luoghi del “movimento”.
Oggi certamente ci sono ancora luoghi privilegiati di riflessione e invenzione, politica e culturale, in cui le donne di allora e donne venute dopo continuano insieme un percorso di cambiamento: ci piace pensare, ad esempio, che proprio DWF lo sia – e negli ultimi tempi si sono unite a noi in redazione alcune giovani donne che speriamo entrino a farne parte in modo stabile. Ma nel frattempo, e sempre di più, è anche il rapporto pedagogico istituzionalmente strutturato a creare occasioni – senza necessariamente aver bisogno di corsi ufficiali di women’s studies – per avvicinamenti e scoperte, con la possibilità di attingere alla ricchezza della produzione femminista anche attraverso libri e articoli, insieme alla parola viva della docente con cui si stabilisce una relazione significativa.
Così è stato per le autrici dei testi che presentiamo qui, come fanno fede da un lato le brevi introduzioni di Roberta Gandolfi per Carlotta Pedrazzoli e di Helena Whitbread per Cristina Grilli (quest’ultima in ideale successione alla relatrice della tesi di laurea di Cristina, Silvana Colella, in un estendersi geografico e culturale del circolo virtuoso della comunicazione di saperi), e dall’altro le premesse di Livia Panici e Serena Guarracino, che riconoscono e vogliono mettere in parola l’importanza, nel loro itinerario formativo di venuta alla scrittura e di presa di consapevolezza sessuata, delle docenti felicemente incontrate durante gli studi universitari, nominando l’apporto per loro fondamentale per l’una di Federica Giardini, per l’altra di Jane Wilkinson e Lidia Curti. Ed è bello che nel caso del rapporto tra Livia e Federica questo sia un passaggio a sua volta radicato in un passaggio, essendo la stessa Federica – l’invenzione linguistica è anzi proprio sua – una donna venuta dopo, che ha potuto avere “maestre” cui fare riferimento nella sua crescita di vita e di pensiero. Infine, e in vari modi, è l’elemento della narrazione a tenere insieme questi contributi.
Narrazione di storie che si vuole salvare, e qui il discorso della memoria e della trasmissione si ripropone con forza, ma anche narrazione che ad altre narrazioni fa riferimento. La verità e la riconciliazione che, con mossa inedita e coraggiosa, il Sudafrica uscito dall’apartheid ha scelto di perseguire – invece di prendere la strada tutta legalistica della punizione attraverso procedure giuridiche e esiti carcerari, oppure quella facile e lacerante di una amnistia aprioristica e generalizzata – hanno messo al centro proprio una pratica di narrazione, con la raccolta di “testimonianze delle persone comuni, delle vittime e dei carnefici che hanno partecipato alla stessa discussione contribuendo alla creazione di una sorta di archivio nazionale”;
Anne Lister si è narrata nel suo diario, lasciandoci da un lato una preziosa testimonianza del suo lavoro nel campo dell’anatomia, allora precluso alle donne, e dall’altro il racconto delle sue esperienze amorose omosessuali, cui sottende il desiderio di costruirsi una tradizione, una sorta di genealogia lesbica che va a rintracciare nello studio di testi classici una memoria perduta su cui fondare l’autorizzazione di sé;
le storie che il teatro d’opera racconta – ma che racconta, e ciò è fondamentale, attraverso parole in musica, attraverso voci e corpi sessuati in cui si iscrivono la differenza e l’indagine della differenza – possono essere rilette in una diversa ottica per farne emergere “l’eccesso di significato, espressione e percezione di una presenza incommensurabile rispetto alle categorizzazioni della modernità occidentale”;
le interviste alle donne di Divina, spinte a ripercorrere quel periodo della loro vita, a ritrovare i motivi del loro gesto separatista, a indagarne guadagni e difficoltà, sono lievito di comprensione nella consultazione delle fonti d’archivio per farci conoscere quella “stanza tutta per loro” in cui hanno potuto sperimentare altri modelli creativi dopo anni di lavoro in collettivi strutturati con una forte leadership registica maschile.
(pb)