MATERIA
Introduzione. Per una prospettiva (trans)femminista sulla salute ai tempi del neoliberismo
‘Per noi donne salute vuol dire controllo del nostro corpo’. È sull’espropriazione del corpo che si fonda la nostra condizione materiale di sfruttamento e di oppressione: per questo è così importante, per le donne più che per ogni altro gruppo di oppressi, lottare per la sua riappropriazione[1].
Al principio degli anni Settanta, quando il corpo era saldamente al centro della politica delle donne, il tema della salute faceva prepotentemente il proprio ingresso nel discorso del movimento, acquisendo centralità nel percorso personale e collettivo di rivendicazione di una autonoma soggettivazione femminista. Per essere reso operativo in una lotta che avesse al centro l’autodeterminazione, esso doveva innanzitutto essere strappato al monopolio epistemologico di una medicina che – attraverso il binomio normale/patologico – si era storicamente dimostrata pronta ad arginare ogni forma di ribellione spontaneamente espressa dalle donne, mettendone sotto tutela e controllo la sessualità, sorvegliandone ogni espressione corporea e silenziando i bisogni eccedenti la riproduzione intesa come “naturale” principio organizzatore del “corpo femminile”. La medicina, infatti, aveva avuto un ruolo chiave nella naturalizzazione e cristallizzazione di quelle “funzioni femminili” che il femminismo stava iniziando a contestare: i corpi delle donne, constatavano le femministe, sono l’oggetto storicamente privilegiato del controllo veicolato dalla medicina e dalle sue istituzioni. «Noi donne (…) affidiamo ai medici non soltanto la nostra patologia, ma anche una serie di manifestazioni che fanno parte della nostra vita sociale e biologica», osservava nel 1974 il Gruppo femminista per una medicina delle donne di Milano, annunciando la fondazione di uno dei molti consultori autogestiti ai quali il movimento stava dando vita in quegli anni. L’elaborazione della nozione di medicalizzazione[2], è stata quindi consustanziale alla critica femminista alla medicina. Gli effetti disciplinari del dispositivo di medicalizzazione, tuttavia, non sono familiari solo al movimento femminista: negli anni Ottanta e Novanta, in piena crisi HIV/AIDS, i movimenti LGBTQ* si organizzano per riappropriarsi del diritto alla salute e alla vita – messo in scacco da un’organizzazione sociale strutturalmente omofoba e da un capitalismo mortifero – con la consapevolezza che il sapere biomedico aveva storicamente costruito corpi, sessualità e piaceri non etero-riproduttivi come intrinsecamente “malati”[3]. Il concetto di medicalizzazione, inoltre, è stato fondamentale anche per la riflessione sulla de-patologizzazione delle espressioni, traiettorie e identità trans cresciuta in seno a un movimento transnazionale che ha rivendicato l’autodeterminazione dei corpi e delle soggettività oltre le strettoie dei percorsi di transizione istituzionalizzati e dei protocolli che li regolano. Un movimento sociale che non ha solo combattuto la patologizzazione dell’esperienza trans e il controllo biopolitico su questa esercitato dal sapere psichiatrico, ma ha anche rivendicato la possibilità di veder garantito a tutt* l’accesso alle tecnologie desiderate[4].
Infine la categoria di medicalizzazione è ed è stata centrale per il movimento intersex/dsd, che, a partire dagli anni Novanta, ha contestato i trattamenti e gli interventi chirurgici di “normalizzazione” dei genitali considerati “ambigui” – ovvero, non corrispondenti ad a una norma anatomica rigidamente binaria -, a tutt’oggi praticati su* neonati, al di là di ogni ragionevole concetto di “consenso informato” e che, in generale, ha messo in discussione la costruzione dei corpi con variazioni intersex come essenzialmente “patologici”.
Tutti questi movimenti sociali hanno costruito prospettive e pratiche politiche in grado di contrapporre alla “salute”, intesa come dispositivo biopolitico di amministrazione della popolazione in funzione della “ottimizzazione” della sua (ri)produttività e strumento di management dei corpi e delle condotte, una nozione di “benessere” che ha invece saputo tenere al centro l’autodeterminazione e le soggettività.
Rileggere queste diverse esperienze non è solo un esercizio genealogico fine a se stesso. Siamo convinte, infatti, che questo patrimonio politico sia fondamentale per tutte e tutti coloro che oggi intendono costruire una risposta alla ristrutturazione neoliberista e alle politiche di austerità che sulla nostre pelle – fuor di metafora – stanno smantellando il welfare e la sanità per come li abbiamo conosciuti fino ad oggi in Europa. Crediamo sia necessario costruire una risposta conflittuale e trasformativa a queste politiche, senza cedere alla tentazione di una difesa pura e semplice dell’esistente. Pensiamo che sia urgente rilanciare piuttosto che lasciarci paralizzare dal ricatto delle retoriche sul debito, dal “non ce n’è più per nessuno” o “non è il momento di avanzare certe questioni”. Ma, per costruire una prospettiva politica che sovverta la razionalità e il discorso neoliberista tenendo al centro la questione dell’autodeterminazione contro la norma eteropatriarcale, sentiamo l’urgenza di un deciso passo verso l’intersezione di diverse prospettive. Crediamo sia vitale incrociare riflessioni, esperienze, prospettive situate per produrre una critica alle forme del controllo biopolitico veicolato dalla medicina e dalle sue istituzioni ai tempi dell’austerità. Una critica che prenda in considerazione le condizioni materiali che influiscono sul benessere, il fatto che le soglie di accesso alle tecnologie mediche e le possibilità di negoziazione nel loro utilizzo sono regolate da classe, “razza”, cittadinanza, genere. Solo attraverso uno sguardo intersezionale possiamo articolare una critica alla medicalizzazione che non sia transfobica, che non si affidi alla problematica nozione di corpo autentico/naturale e sappia sfuggire ai rischi dell’essenzialismo binario uomo/donna: una critica, dunque, che non sia tecnofobica e che prenda sul serio sia il rifiuto dei trattamenti sanitari socialmente obbligatori (come quelli sui corpi intersex), sia il desiderio/bisogno di accesso alle tecnologie mediche (come quello espresso dalle soggettività trans e non solo).
Il posizionamento politico nel quale ci sembra che tutte queste tensioni possano trovare una parziale ma convincente sistemazione, è quello transfemminista, in particolare nella sua accezione “meridiana”, ovvero soprattutto per come si è configurato in Spagna[5].
Quando abbiamo letto per la prima volta il Manifesto per un’insurrezione transfemminista della Red PutaLesboNeraTransFemminista, come tantissime altre compagne con le quali condividiamo i nostri percorsi di attivismo, siamo rimaste folgorate dal senso di eccitazione che riusciva a trasmettere. Si tratta di un testo, infatti, che ha una sorprendente capacità: nel momento stesso in cui sta impietosamente nominando i limiti storici dell’identitarismo radicale e del pariopportunismo istituzionale (o più semplicemente del femminismo), li sta già contemporaneamente trasformando nella fondazione di un nuovo campo di soggettivazione politica, incitando alla lotta comune. In quel branco furioso abbiamo visto correre insieme gridando alla carica le guerriere di Monique Wittig, la mestiza di Gloria Anzaldua, la fica futura di VNS Matrix e Harriet Tubman alla testa delle compagne del Combahee River Collective: praticamente un supergruppo di supereroe, il The Avengers delle femministe.
Come descrive benissimo Miriam Solà nell’introduzione all’antologia Trasfeminismos. Epistemes, fricciones y fluidos, se l’influenza del pensiero queer aveva consentito l’articolazione dei discorsi e delle pratiche politiche, artistiche e culturali che stavano emergendo nelle comunità femministe, di occupanti, lesbiche, anticapitaliste, froce e trans durante gli anni Novanta, favorendo le connessioni tra soggettività, il gesto di rivendicazione del concetto transfemminista è riuscito a suggerire una nuova forma organizzativa all’altezza di quelle connessioni.
Questo nuovo vocabolo materializza la necessità politica di farsi carico della molteplicità del soggetto femminista. Ma è anche un termine che vuole situare il femminismo come un insieme di pratiche e teorie in movimento che danno conto di una pluralità di oppressioni e condizioni, mostrando anche la complessità che le nuove reti devono affrontare e la necessità di una resistenza congiunta/comune riguardo a genere e sessualità (pp. 19-20).
Sebbene non si sia ancora delineato come specifico campo di intervento, il tema della salute è, in un certo senso, un “naturale” oggetto della politica transfemminista. Sono già diverse, infatti, le esperienze di attivismo sui temi della salute, del benessere e della medicina che assumono esplicitamente una prospettiva transfemminista o che presentano le caratteristiche di una prospettiva di questo tipo. In Europa, alcune di queste esperienze sono emerse in Spagna, in Francia e in Italia: sono soprattutto queste ultime che vanno a comporre la Materia di questo numero di DWF.
In che senso, quindi, crediamo che un postura transfemminista possa aiutarci a costruire discorsi e pratiche politiche sul corpo e la salute che siano all’altezza delle sfide poste dalle nuove forme della normalizzazione biomedica?
Tra i limiti della politica su corpo salute e medicina cresciuta in seno al femminismo della “seconda ondata”, perlomeno negli Stati Uniti, le femministe nere avevano già criticato la “bianchezza”[6] e le lesbiche la forte eteronormatività. Il ricorso a un’idea di “esperienza femminile” e alla nozione di corpo (femminile) “autentico” e “incontaminato”[7] per resistere alla “colonizzazione” biomedica e alla medicalizzazione, nonché la conseguente “accusa” di “subalternità” al tecno-patriarcato spesso implicitamente (e, talvolta, esplicitamente) rivolta a molte forme di approccio desiderante alle tecnologie mediche, ci rende oggi evidente anche il fatto che questo tipo di critica alla medicina ha rischiosamente (ri)prodotto un discorso essenzialista e cis-normativo.[8] E’ proprio da un punto di vista femminista, dunque, che -? se vogliamo farci carico di questi limiti storici e, contemporaneamente, attualizzare il portato politico di liberazione del movimento femminista per la salute -?, dobbiamo concederci la possibilità di ibridarlo con altre prospettive, (ri)connettendolo alle altre genealogie politiche incarnate che in questo campo hanno riflettuto e agito.
In che modo, dunque, i transfemminismi ci offrono un vantaggio nella riarticolazione del discorso e delle prassi femministe sulla salute?
In primo luogo, un approccio transfemminista ci consente di interpretare la liberazione e la lotta contro la medicalizzazione non dentro un orizzonte di sottrazione alle tecnologie, bensì dentro una logica di riappropriazione. Tale riappropriazione può essere tradotta su diversi piani.
L’esperienza di GynePunk e dei suoi bio-lab DIY (do it yourself) DIT (do it together), di cui rende conto uno dei testi di questa raccolta[9], ad esempio, la concretizza in una pratica trans-hack-femminista: il DIY/DIT che strappa le tecnologie al controllo delle istituzioni mediche e le risignifica in una logica trans-femminista, decoloniale e anticapitalista, diviene quindi, quasi una ripetizione eterodossa, spuria e cyborg, del gesto fondativo della riappropriazione dello speculum nel self-help o della diffusione dal basso del metodo dell’aspirazione attraverso le “illegali” cliniche autogestite per l’aborto degli anni Settanta.
Dentro una logica di riappropriazione trasformativa, possiamo collocare anche la lotta contro la psichiatrizzazione/patologizzazione dell’esperienza trans – centrale nella politica transfemminista. Rifiutando caparbiamente di accettare la patologizzazione come l’unica garanzia di accesso alle tecnologie mediche, questa lotta prefigura un “modello sanitario”[10] basato sull’esercizio attivo dell’autodeterminazione, che si oppone alla reificazione e all’infantilizzazione intrinseche al modello medico basato sull’amministrazione del “sano” e del “malato”. Un modello, che, come mostra chiaramente l’articolo di Viviana Indino in questo numero, non permea solo i protocolli che regolano “il percorso di transizione”, ma anche, ad esempio, quelli oncologici.
Una politica della salute fondata sulla logica dell’empoderamento può essere la chiave di volta anche per il ribaltamento dei rapporti di forza e potere che storicamente governano la relazione tra corpi – in particolare, tra i corpi fuori norma – e le istituzioni mediche, come spiega l’articolo di Michela Balocchi e Egon Botteghi del collettivo Intersexioni: motore di questa politica non può che essere la costruzione di intersezioni, di ponti, di connessioni tra soggettività – umane e non umane – e il riconoscimento della molteplicità che le attraversa, come mostra anche l’articolo della Consultoria Queer di Bologna. Si tratta di un movimento fondamentale per aggredire il dispositivo biopolitico di “amministrazione delle differenze”, che informa anche il modello sanitario vigente, e spiazzare i meccanismi di soggettivazione/assoggettamento che le categorie del sapere medico producono.
Il carattere costitutivamente intersezionale dei transfemminismi, quindi, può essere un ottimo punto di partenza per la costruzione di un approccio “espansivo” alla politica della salute, che si faccia carico della distribuzione differenziale del benessere regolata da determinanti sociali quali classe, cittadinanza, “razza” etc. e, contemporaneamente, presti costantemente attenzione anche agli effetti che le stesse forme dell’attivismo producono. Come scriveva l’associazione trans-femminista francese OUtrans nel 2013, «per pensare la salute in modo globale […] ci serve uno sguardo largo, critico attento alla complessità delle poste in gioco della politica su diversi livelli della vita sociale»[11]. Esemplare, in questo senso, il documento Santé trans. Pour une approche féministe de notre santé sexuelle, diffuso dal gruppo in occasione dell’Europride di Marsiglia di quell’anno, nel quale il discorso sulla salute viene incorporato nella critica alla gentrificazione prodotta anche da questo tipo di grande evento, in un intreccio in cui divengono immediatamente rilevanti le questioni del reddito, della casa, del razzismo istituzionale, della precarietà e dello sfruttamento. Crediamo infatti che posizionare il nostro sguardo all’intersezione tra i diversi modi in cui viene esercitata l’esclusione, possa anche aiutarci a smarcarci dalla retorica dei “diritti”, dal neoindividualismo (singolare o comunitario) alimentato da una concezione neoliberale di libertà, sforzandoci di rimettere al centro della nostra politica anche le condizioni materiali che regolano l’accesso al benessere. In questo senso, le lotte transfemministe per la salute, sono lotte per la giustizia sociale, per il sovvertimento dell’organizzazione sociale capitalistica. Allo stesso tempo, però, un posizionamento transfemminista ci mostra che non possiamo limitare la nostra azione politica alla difesa dello status quo, ma dobbiamo pensare le lotte contro l’austerità e le politiche neoliberiste di smantellamento del welfare come a un laboratorio politico per una diversa organizzazione sociale.
E’ proprio in questa prospettiva che possiamo leggere i riferimenti al neomutualismo che attraversano il contributo della Queersultoria di Padova e sono alla base del progetto della Consultoria Queer di Bologna, entrambe impegnate nella discussione su questi temi che si è sviluppata nel Sommovimento NazioAnale.[12]
Le consultorie transfemministe/queer, infatti, proprio perché si collocano esplicitamente nella genealogia femminista che ha portato alla nascita dei consultori pubblici, intendono assumersi fino in fondo la parabola di quell’esperienza: il fatto che il femminismo degli anni Settanta abbia trasformato il welfare costruendo nuove istituzionalità dal basso, che sono poi state progressivamente svuotate della loro valenza politica, non deve distogliere dalla potenza sovversiva che quell’esperienza ha saputo esprimere. Oggi, non si tratta quindi di costruire nuovi ambulatori o “sportelli”, ma piuttosto di creare spazi politici di consapevolezza personale e collettiva – come dimostra l’autonarrazione di Viviana Indino – per dinamitare l’asimmetria tra corpi/sessualità e il potere medico/statuale tipica dei servizi di ciò che rimane del welfare familista, e contemporaneamente darsi la possibilità di sperimentare nuove relazioni costituenti. Come sottolinea la Consultoria Queer di Bologna:
Non vogliamo, infatti, che le nostre reti rispondano a una logica di emergenza o di sussidiarità, ovvero che si limitino a “tappare i buchi” del welfare statuale consentendogli di tirare a campare grazie al nostro lavoro gratuito: al contrario, vogliamo orientare il nostro agire politico verso la costruzione di relazioni mutualistiche nella lotta e nella resistenza, per reinventare e continuare a costruire insieme nuove “istituzioni”.[13]
In conclusione, quindi, non potevamo progettare la Materia di questo numero di DWF se non come un archivio aperto di esperienze e pratiche politiche collettive. Soprattutto in questi tempi di enclosure dei saperi e individualizzazione della produzione intellettuale, la scelta stessa di privilegiare riflessioni che sono il frutto dell’intelligenza collettiva e della cooperazione cresciuta dentro movimenti sociali, assume per noi un valore politico. Abbiamo infatti valorizzato questo aspetto tanto nella scelta dei contributi quanto nell’organizzazione della raccolta, chiedendo ai gruppi e alle attiviste che hanno partecipato a questo numero di dare ai loro contributi la forma che preferivano.
Speriamo quindi che questo archivio possa essere utile a potenziare le esperienze di attivismo sui temi del benessere e della salute emerse negli ultimi anni in Italia, che in parte sono già in relazione all’interno del movimento transfemminista e queer. Da questo punto di vista programmaticamente “militante”, affidare la chiusura all’esperienza di GynePunk, oltre a costituire un’apertura politica su una prospettiva bio-gyne-hack femminista e decoloniale, vuole suonare anche come un vero e proprio invito a creare connessioni e avviare convers/azioni transnazionali. La cartografia disegnata da questa raccolta vuole – e non può che essere – contingente e aperta, non solo perché non potremmo né abbiamo l’intenzione di definire una volta per tutte il campo di forze dell’attivismo transfemminista su questi temi, ma soprattutto perché ci auguriamo che possa funzionare come uno strumento di lavoro o – chissà – come un innesco per nuove esperienze di attivismo.
Indicazioni bibliografiche
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[1] Centro per la salute della donna, Salute e condizione materiale della donna, Padova, 1974, cit. in Jourdan C., (1976), Insieme contro, esperienze dei consultori femministi, Milano, La Salamandra, p. 14. Sul movimento per la salute/medicina delle donne negli anni Settanta in Italia si veda anche Percovich L. (2005), La coscienza nel corpo. Donne, salute e medicina negli anni Settanta, Milano, Fondazione Badaracco-Franco Angeli; Tozzi S., Corpo e scienza nel movimento per la salute. Un percorso di difficile lettura, in Atti del Seminario Esperienza storica femminile nell’età moderna e contemporanea, Unione Donne Italiane, Circolo “La Goccia”, Roma 1989. Si veda inoltre il numero speciale di Memoria,11-20, 1984.
[2] Con il termine medicalizzazione non ci riferiamo tanto – o solo – all’intervento massiccio – talvolta violento – delle istituzioni o delle tecnologie mediche nella vita corporea delle donne cis o – come vedremo – delle persone trans, queer, LGB, o di quelle il cui corpo presenta tratti intersex. Con questo termine ci riferiamo piuttosto – o soprattutto ? agli effetti performativi delle categorie del sapere medico-scientifico nell’organizzazione delle possibilità espressive dei nostri corpi e al ruolo della biomedicina nella definizione delle norme che regolano la loro intelligibilità.
[3] Ci riferiamo qui, in particolare, all’esperienza di ACT UP!. Su ACT UP! E il suo “stile della militanza”, si veda, tra gli altri Gould D. B. (2009), Moving Politics: Emotion and ACT UP’s Fight against AIDS , Chicago, University of Chicago Press; Shepard B., Hayduk R. (eds.) (2002), From ACT UP to the WTO: Urban Protest and Community-Building in the Era of Globalization, Verso; Hilderbrand L. (2006), Retroactivism in GLQ: Journal of Lesbian and Gay Studies , 12(2), pp. 303-317.
[4] Le origini dei movimenti per la depatologizzazione trans si possono forse far risalire agli inizi degli anni Novanta negli Stati Uniti nel contesto di una emergente “new gender politics” e dell’ascesa del movimento transgender (nel 1993 Transgender Nation contestò la convention dell’American Psychiatric Association per protestare contro la patologizzazione della “transessualità”). In Europa un movimento per la depatologizzazione trans ha preso forza soprattutto nei primi anni di questo millennio. Per un’idea delle rivendicazioni portate avanti da una campagna mondiale tra le più attive su questi temi si rimanda a Stop Trans Pathologization 2012 http://stp2012.info/old/it. Si consiglia inoltre la lettura di Missé, M., Coll Planas G., El género desordenado, critica en torno a la pathologización de la transsexualidad, Barcellona-Madrid, Egales 2010; Thomas M. Y., Espineira K., Alessandrin A. (2012), La trans-yclopedie, 2013, Les ailes sur le tracteur; Spade D. (2006), Mutilating gender, in Stryker S., Whittle S., The transgender studies reader, New York London, Routledge, pp. 315-32; per l’Italia si veda Padovano R., Ballarin C., Esquimesi in Amazzonia. Dialoghi intorno alla depatologizzazione della transessualità, Mimesis 2014. Altri siti internazionali utili da consultare sono https://octubretransbcn.wordpress.com/octubre-trans-2014/; http://www.observatoire-des-transidentites.com/; http://transactivists.org/; http://www.icath.org/ Inoltre sebbene ormai fermi, si vedano anche http://transencolere.free.fr/index_2.htm e http://guerrilla-travolaka.blogspot.pt/.
[5] Per una genealogia “americana” del trasfemminismo si veda Koyama E. (2003), The Transfeminist Manifesto, in Dicker , Piepmeier (eds) Catching A Wave: Reclaiming Feminism for the Twenty-First Century, Northeastern University Press, oppure http://eminism.org/readings/pdf-rdg/tfmanifesto.pdf
[6] In particolare le femministe afroamericane avevano criticato il focus esclusivo del movimento sul diritto di scelta in tema di aborto e contraccezione che ostacolava lo sviluppo di una nozione espansiva di “giustizia riproduttiva” che prendesse in considerazione le condizioni materiali delle donne non bianche a cui semmai era spesso negato il diritto di avere figli o la possibilità di crescerli. Si veda Eherenreich Barbara, English Deirdre, Le streghe siamo noi. Il ruolo della medicina nella repressione della donna, Milano, La Salamandra. Si veda anche Miller Jaffe J., Borderland Bodies: Queering Intersectional Health Activisms, tesi di laurea, Wesleyan University, aa. 2008/9, http://wesscholar.wesleyan.edu/cgi/viewcontent.cgi?article=1347&context=etd_hon_theses, (ultimo accesso 17 marzo 2015).
[7] Fiorilli O., Biomedicina. Affari di donne, in Mascat, Marchetti, Perilli, Femministe a parole, cit., p. 37-43.
[8] Per un esempio si veda Hausman B. (1995), Changing sex, transsexualism, technology and the idea of gender, Durham, Duke University Press.
[9] Questo ha una genesi complessa e collettiva: esso è il frutto di materiali che Anarcha Gland ci ha inviato rispondendo alla nostra sollecitazione e che noi abbiamo tradotto dallo spagnolo e dall’inglese e organizzato per la pubblicazione. A questi, su suo invito, abbiamo aggiunto altri frammenti, ricavati dal sito http://anarchagland.hotglue.me/.
[10] Fernandes S., Derechos sanitarios desde el reconoscimiento de la diversidad. Aternativas a la violencia de la psiquiatrización de las identidades trans in Missé, Coll Planas (ed.), El genero desordinado, cit. p. 178.
[11] Si veda http://outrans.info/infos/articles/transfeminismes. Il documento Santé trans, da cui sono tratte le citazioni, si trova all’indirizzo http://outrans.info/infos/articles/sante-trans-pour-une-approche-feministe-de-notre-sante-sexuelle-intervention-outrans-a-leuropride, ultimo accesso, 17 marzo 2015.
[12] Per un ulteriore approfondimento vedi il report del tavolo di discussione sul neomutualismo che si è svolto durante la prima campeggia transfemministaqueer nel 2013:
http://sommovimentonazioanale.noblogs.org/files/2014/01/report-tavolo-neomutualismo.pdf
[13] Dal progetto della Consultoria Queer di Bologna, consultabile sul blog (ancora in costruzione, ultimo accesso 17 marzo) all’indirizzo http://consultoriaqueerbologna.noblogs.org
Ormonautica: le favolose avventure della Consultoria Queer nel mondo degli ormoni “sessuali”
Nel corso di assemblee succedutesi nell’arco di un anno la Consultoria Queer di Bologna ha enucleato alcuni temi specifici su cui lavorare a partire dalle esperienze e dagli interessi de* partecipanti, e uno di questi è stato quello degli ormoni sessuali. Nel ciclo di incontri dedicato a questo tema abbiamo approfondito i diversi approcci alle modificazioni corporee che gli ormoni producono e i rapporti tra queste modificazioni e le percezioni di sé, prendendo in considerazione casi che vanno dalla transizione alla contraccezione farmacologica alla medicalizzazione della menopausa.
Negli incontri abbiamo discusso, ciascuno/a a partire dalla propria esperienza di corpo sessuato e dai saperi a propria disposizione, dei significati e degli usi sociali degli ormoni sessuali, sia “biologici” (endogeni) che di sintesi (cioè assunti sotto forma di farmaci), e di cosa possiamo fare per agire su tutto ciò a vantaggio della nostra autodeterminazione.
La trasversalità e la molteplicità dei posizionamenti delle soggettività coinvolte nella consultoria (non solo rispetto al genere e alla sessualità, ma anche rispetto al ruolo “sociale” di medico, piuttosto che di studiosa, di utente, ecc…) è fondamentale, perché rappresenta il tentativo di superare la separazione e la frammentazione delle identità e dei ruoli che sono il risultato delle gerarchie prodotte dall’egemonia del discorso biomedico e dall’eterosessualità obbligatoria.
Ognun* può parlare di ormoni sessuali facendo riferimento al proprio vissuto personale, essendo questi una componente biochimica presente in ogni corpo umano a prescindere dall’aver assunto o meno farmaci a base di ormoni sessuali nel corso della propria vita. La “scoperta” di questa trasversalità ci ha incoraggiato ad intervenire creando un’atmosfera di densa condivisione di esperienze.
Abbiamo iniziato sfatando la credenza che esistano ormoni “femminili” e ormoni “maschili”. Infatti anche i corpi “femminili” producono testosterone e anche i corpi “maschili” producono estrogeni, sebbene in differenti quantità. Inoltre, i farmaci ormonali che permettono ai trans e alle trans di trasformare i propri corpi sono gli stessi che assumomo le persone cisgenere[1] per i più svariati motivi (evitare gravidanze, ridurre gli effetti della cosiddetta “sindrome mestruale”, “curare” l’acne, il calo o l’eccesso di desiderio sessuale, ecc.). Siamo unit* dalle stesse molecole. Tuttavia, mentre estrogeni e progesterone sotto forma di pillola contraccettiva sono le molecole più vendute della storia della medicina, l’accesso e il consumo di prodotti a base di testosterone da parte di coloro ai quali è stato assegnato alla nascita un genere femminile[2] è, volendo rimanere nel mercato legale dei farmaci, molto più difficoltoso.
In questo articolo ripercorriamo solo uno dei fili del nostro ragionamento sugli ormoni, quello sui significati e sugli usi sociali del testosterone, sia perché ci sembra adatto a illustrare il lavoro di un gruppo composto da soggettività con diversi posizionamenti (cisgender, trans, persone che si identificano come donne, uomini o nessuno dei due; gay, lesbiche, donne eterosessuali; utenti, operatrici, studenti e studiose dentro/contro il sistema sociosanitario), sia perché ci sembra che abbia condotto a delle riflessioni interessanti rispetto al piano più generale degli usi delle tecnologie in rapporto al corpo e alla costruzione dei generi.
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Il metodo di lavoro principale, negli incontri della Consultoria, è quello dell’autonarrazione. Narrazione delle nostre esperienze, ma anche, dopo qualche tempo, narrazione delle emozioni e delle reazioni che il racconto dell’esperienza altrui ha avuto su di noi. Dopo aver sentito un ragazzo trans che ti parla degli effetti del testosterone, è difficile per qualunque assegnata-femmina non pensare almeno per un momento “lo voglio anch’io!”. O almeno, è quello che è accaduto ad alcune di noi. Abbiamo quindi capito quasi subito che la questione della maggiore desiderabilità sociale degli effetti del testosterone rispetto a quelli degli ormoni presunti “femminili” non poteva essere elusa.
I “doni” del testosterone sintetico, confidenzialmente detto T., sembrano essere maggiore energia, resistenza alla fatica, lucidità, immediatezza del desiderio sessuale, facilità nel raggiungimento dell’orgasmo e cura dell’ansia: è quanto riportano sia i nostri compagni trans, sia la filosofa (ora filosofo) queer Beatriz (ora Paul B.) Preciado, che per otto mesi ha assunto cento milligrammi di testosterone alla settimana, raccontando la sua esperienza in un libro, Testo Yonqui, che abbiamo letto nella versione spagnola, traducendone alcune parti. La dose di testosterone da lei assunta, scrive Preciado, «non è sufficiente per produrre in un corpo di bio-donna dei cambiamenti esteriori riconoscibili nei termini di quello che la medicina chiama “virilizzazione” (barba, baffi, massa muscolare, cambio della voce)» e tuttavia produce «dei cambiamenti sottili ma determinanti dei miei affetti, nella percezione interna del mio corpo, nell’eccitazione sessuale, nel mio odore corporeo, nella resistenza alla stanchezza» (Preciado 2008, p. 109). Lo scopo di questo «protocollo di intossicazione volontaria» (Preciado 2008, p. 15) non è ‘diventare uomo’ ma «fare del proprio corpo una piattaforma sessuale e affettiva né maschile né femminile» (Preciado 2008, p. 51).
Nonostante ciò, nel racconto autobiografico della propria sperimentazione, Preciado dà voce spudoratamente al proprio desiderio di T., all’eccitazione di trasgredire i confini imposti dal binarismo di genere, non risparmiando ironia verso il tabù posto da un certo femminismo su ogni tipo di desiderio di maschilità da parte delle donne.
E’ per questo che P., uno degli uomini trans che partecipano alla consultoria, sa di doverlo dire sottovoce e con molte cautele e distinguo: certamente, essendo trans, molto del benessere che ha sperimentato assumendo T. è conseguenza del fatto che sta finalmente trasformando il suo corpo, avviciandolo alla sua immagine di sé; ma il miglioramento del suo stato psicofisico è talmente evidente che ci deve essere anche qualcosa di “oggettivo”, un “effetto doping” che ha a che fare con gli effetti diretti della sostanza sul corpo. Dobbiamo concludere che i corpi che producono naturalmente maggiori quantità di testosterone sono stati avvantaggiati dalla natura? Ci concediamo di indugiare su questa domanda: d’altronde chi ha un corpo naturalmente predisposto alla carenza di vitamine le assume attraverso i farmaci, ma ciò non fa sì che si crei una gerarchia tra i corpi che ne producono in misura sufficiente e quelli che hanno bisogno di integrarle dall’esterno.
Per districare questa questione, una compagna ci segnala il lavoro dell’antropologa femminista Emily Martin, che ha affrontato un problema simile a proposito del ciclo mestruale: le mestruazioni sono necessariamente “oggettivamente” un disagio? La maggioranza delle donne coinvolte nella sua ricerca riferisce di sperimentare disagi psico-fisici di vario tipo durante il flusso mestruale; ma c’è anche un numero ridotto di donne che invece dice di sperimentare uno stato di maggior benessere. Martin nota che queste sono proprio quelle che fanno lavori creativi e che non richiedono troppa disciplina, e ne trae la conclusione che in fondo nessuno stato psicofisico è negativo o positivo in se stesso, ma lo è solo in relazione ai compiti che richiediamo in quel momento al nostro corpo (Martin 1987).
La società capitalistica contemporanea è un ambiente evidentemente più confortevole per i corpi che sono in grado di sostenere un certo tipo di stress psicofisico, di reggere la stanchezza e l’ansia, di mantenere costante la capacità performativa in ambito lavorativo. Un ambiente di questo tipo probabilmente privilegia i corpi con più testosterone, o forse i corpi con un livello ormonale più costante (come gli assegnati-maschi o gli uomini trans) rispetto a quelli con un andamento cicliclo (come le assegnate-donne alla nascita che non prendono la pillola). Il privilegio maschile, in questo senso, consiste in un senso di agio e di efficenza/efficacia del proprio corpo rispetto all’ambiente e ai compiti che deve svolgere, prima ancora che nel successo sociale che ne deriva. Il fatto che il testosterone sembri più desiderabile degli estrogeni e del progesterone, quindi, ci parla degli effetti di queste molecole sui corpi, di come i nostri desideri sono influenzati dalla cultura, ma anche di quali prestazioni sono richieste ai nostri corpi e del diverso valore sociale che è attribuito ad esse. Quindi gli effetti biochimici e gli effetti socioculturali del testosterone (come di qualunque altra sostanza) sono inseparabili. Qualsiasi effetto è allo stesso tempo chimico e sociale, o semio-tecnico (Haraway 1991). Non a caso Preciado, pur essendo evidentemente una grande fan del Testosterone come droga sintetica, in alcune pagine di Testo Yonqui parla degli effetti e delle emozioni del drag king quasi negli stessi termini in cui altrove parla del suo consumo di testosterone, e in effetti alcune (solo alcune) sensazioni che lei imputa all’effetto T sembrano simili a quelle che molte di noi hanno provato durante il laboratorio di drag king organizzato dal Laboratorio Smaschieramenti[3]. Se il testosterone aumenta il desiderio sessuale, questo aumento di desiderio dovuto a cause fisiologiche o biochimiche è assolutamente inscindibile dall’ascolto e dai significati che diamo alla nostra voglia ‘fisica’ di scopare: se la sentiamo come troppa o come troppo poca, come legittimata ad assumere un ruolo dominante nella nostra vita emotiva o no, come qualcosa da ignorare o da coltivare, come qualcosa che ci costituisce o come un accessorio, come qualcosa di cui andare orgogliosi o verso cui essere indifferenti o di cui addirittura vergognarsi. Tutte cose che, come è noto, hanno molto a che fare con il fatto di avere un corpo assegnato al genere femminile o al genere maschile[4].
Lo sforzo di capire l’effetto T ci spinge a superare il binarismo che oppone le scienze dure alle «interpretazioni» delle scienze sociali per arrivare a pensare alla natura e alla cultura come sistemi comunicanti che si alimentano a vicenda. Non vogliamo pensare la materialità come un’entità passiva che attende che qualcuno sveli la sua reale e oggettiva natura (si pensi alle cosiddette “scoperte” scientifiche), intendiamo bensì vederla nella sua dimensione attiva e trasformativa. Desiderare pelle diafana e seni grandi, ingerire la pillola, sviluppare una certa manualità e integrazione percettivo-motoria attraverso l’uso del mouse o dell’i-pad o attraverso la guida di automobili, camminare in un certo modo per via dell’apprendimento, dell’abbigliamento e dell’ambiente fisico nel quale siamo abituat* a muoverci, afferrare gli oggetti in un certo modo, scopare in un certo modo, sono tutte cose che fanno il nostro corpo. Sono tecniche e tecnologie del corpo[5] che apprendiamo e che dipendono dai sistemi culturali in cui cresciamo, ma che finiscono per diventare corpo e che tendiamo a immaginare come dipendenti da una verità biologica pre-esistente. Sono effetti certamente percepibili fisicamente e presenti in tutta la loro materialità, ma comunque mediati dal nostro sguardo e dalle norme sociali e culturali (che comprendono tanto i valori che ci vengono inculcati, quanto i modi in cui sono costruite le case, le immagini che vengono consumate, il cibo che si mangia, le tecnologie che si usano nella vita quotidiana… o le cose che ci vengono concesse o proibite in quanto assegnate donne, o uomini).
Le assegnate-donne coinvolte nella Consultoria si sono così interrogate sul proprio desiderio o non-desiderio di T. Per alcune, la parte più affascinante riguarda il desiderio sessuale. Ci siamo sempre sentite dire che il desiderio maschile è più “fisico” di quello femminile (che invece sarebbe più “mentale” o “emotivo”), con il sottinteso più o meno implicito che per questo motivo gli uomini hanno più bisogno o più diritto di fare sesso. Abbiamo lottato contro questa idea, ci siamo conquistate il diritto di godere, di fare sesso occasionale quando ne avevamo voglia e di rifiutare rapporti sessuali alle/i nostre/i compagne/i quando non ne avevamo voglia. Ma ci rendiamo conto che abbiamo ancora molto lavoro da fare per legittimare pienamente la nostra sessualità.
Per altre, invece, non è tanto la questione sessuale quanto quella dell’efficienza psico-fisica a rendere attraente l’effetto T. Alcune infatti investono il testosterone del desiderio di avere condizioni psicofisiche più favorevoli per affrontare ritmi di vita impegnativi.
Tra noi ci sono anche quelle a cui è stata diagnosticata un’eccessiva concentrazione di testosterone nel sangue, che è stata “curata” con la pillola contraccettiva o altri farmaci a base di ormoni. Ci informiamo da un’ostetrica, R., che ci spiega che un’eccessiva produzione di testosterone – o meglio, una produzione troppo superiore alla media – in un corpo assegnato femmina di solito ha come conseguenza una minore probabilità di ovulare e quindi una minore fertilità. In alcuni casi, ciò si accompagna anche a una maggiore crescita di peli superflui e alla comparsa o all’accentuazione di brufoli e acne. La pillola contraccettiva interrompe l’attività ormonale delle ovaie, compresa, quindi, la produzione di testosterone: per questo può “correggere” quelli che vengono identificati come difetti estetici, e di fatto viene sempre più spesso utilizzata per questo scopo, come testimoniano le strategie di marketing impiegate negli ultimi anni e l’esperienza di molte donne di nostra conoscenza. Per quanto riguarda invece la questione della fertilità, molti medici ritengono che, dopo aver preso la pillola per un certo periodo di tempo, quando poi ne si interrompe l’assunzione, i cicli di produzione ormonale endogeni dovrebbero riprendere in modo più regolare e risultare “riequilibrati”, rendendo più probabile il concepimento. In realtà R. ci riferisce che, nella sua esperienza clinica, questo accade molto di rado e anche che talvolta lo “squilibrio” ormonale addirittura si accentua.
Eppure, molte nostre compagne cui è stato “curato” l’eccesso di testosterone non avevano sintomi estetici tali da creare disagio, né erano interessate a “riequilibrare” i loro livelli ormonali per aumentare la probabilità di rimanere incinte. Nessuno tuttavia ha chiesto il loro parere e l’assunzione della pillola è stata presentata loro come una necessità medica non meglio giustificata. Questo è uno dei molti casi in cui l’interazione tra medico e paziente si rivela essere un rapporto gerarchico, in cui il medico si fa esecutore di un regime politico eteronormativo e patologizza uno stato fisico non conforme alla norma eterosessuale.
Per assumere un maggiore controllo su queste tecnologie che incarnano ambiguamente sia l’oppressione sia la lotta per l’emancipazione (come la pillola contraccettiva) è indispensabile costruire collettivamente un immaginario alternativo dei corpi che non sia basato sul binarismo di genere e su una identità sessuale fissa e determinata biologicamente e che dia legittimità a incarnazioni fluide e molteplici della maschilità e della femminilità.
La critica consapevole della medicalizzazione obbligatoria non è per forza sinonimo di rifiuto e demonizzazione delle tecnologie biomediche e dei servizi sanitari, ma è di sicuro uno strumento che ci permette di acquistare agency nel rapporto medico-paziente, sia a livello personale sia a livello collettivo, proponendoci come soggetti attivi nella produzione dei discorsi sulla salute intesa come benessere. Ad esempio, le informazioni che abbiamo acquisito e il lavoro che abbiamo fatto per smontare, in qualche modo, l’incubo della virilizzazione del corpo femminile ci permettono di avere più chance di rifiutare, se vogliamo e se lo riteniamo opportuno nel nostro personale bilancio di costi e benefici[6], la prescrizione della pillola a scopo estetico, e di appropriarci criticamente delle tecnologie con cui vengono vigilati i nostri corpi al di fuori del binarismo “normale” vs. “patologico”.
Discutendo delle nostre rispettive esperienze durante le assemblee della consultoria, ci accorgiamo anche che mentre la pillola anticoncezionale a base di estrogeni e progesterone viene prescritta con facilità, l’accesso al testosterone è estremamente sorvegliato per i corpi assegnati alla nascita al genere femminile. In generale, il grado di difficoltà nel reperire farmaci a base di ormoni dipende dal genere di assegnazione di chi li sta chiedendo: le persone assegnate-uomo che richiedono farmaci a base di testosterone per presunte carenze o disfunzioni “fisiologiche” possono accedervi facilmente, in genere con una semplice ricetta del medico di base, così come le assegnate-donna che richiedono la prescrizione di estrogeni e progesterone[7]. Quando tuttavia è una persona che è stata assegnata-donna chiede la somministrazione di testosterone, o un assegnato-uomo a richiedere la somministrazione di estrogeni, l’accesso è soggetto a molte più restrizioni.
L’uso di testosterone sintetico per aumentare la libido nelle donne, per quanto si presenti come un business promettente, ha incontrato diverse resistenze da parte dell’agenzia del farmaco statunitense; nel nostro paese, è stato approvato solo di recente ed è subordinato a una serie di visite specialistiche preliminari[8].
All’interno del percorso di transizione per la riassegnazione del sesso, l’assunzione di ormoni sessuali è regolata dalla necessità di una diagnosi di “disforia di genere” certificata da uno psicolog* o da un* psichiatra, e di una prescrizione medica firmata da un* specialista endocrinolog* (non dal medico di base). Da un lato, questa regolamentazione è uno strumento che garantisce il diritto delle persone trans ad accedere al servizio sanitario pubblico, conquistato peraltro grazie alle lotte delle stesse persone trans negli anni ’70 e ’80. Dall’altro, è anche vero che è molto difficile capire dove finisce la tutela del diritto alla salute e dove inizia la “messa sotto tutela”, il disciplinamento e il controllo di esperienze che, se non relegate all’eccezionalità della malattia e se non incanalate in un certo tipo di percorso “da qui a lì” (da un sesso all’altro sesso), rischiano di mettere in questione l’esistenza stessa dei sessi e con essa il fondamento dell’organizzazione eteronormativa e misogina della società[9].
Del resto, la creazione di un immaginario alternativo non può passare unicamente dall’accesso ad una molecola: ci rifiutiamo di pensare che le nostre possibilità di sabotare/hackerare i generi debbano dipendere dalle condizioni del mercato legale o illegale delle sostanze farmaceutiche. Per costruire una critica radicale e non cadere in un essenzialismo chimico che fa del testosterone sintetico lo strumento principale della lotta al binarismo di genere[10] è fondamentale capire quali sono le nostre aspettative e i nostri immaginari e cosa li crea, prendere consapevolezza di ciò che è già a nostra disposizione, delle potenzialità dei nostri corpi, che spesso superano le nostre stesse aspettative, e lavorare sulle tecnologie del corpo e sull’auto-legittimazione del nostro desiderio.
Ciò non significa negare il valore (emotivo, sociale, politico) che l’assunzione degli ormoni sintetici può avere e di fatto ha: il percorso della terapia ormonale rappresenta per molte/i una conquista. Tuttavia, analizzando criticamente i modelli a cui ci rifacciamo e ampliando il nostro immaginario attraverso la condivisione delle esperienze e la creazione di scenari alternativi, siamo in grado di rendere esplicitamente politico ciò che viene sistematicamente relegato all’ambito del privato. Il lavoro sulla legittimazione del nostro desiderio – desiderio sessuale, desiderio di maschilità, desiderio di appropriarsi di una o più pratiche e modalità corporee convenzionalmente riservate ai “nati maschi” – acquista un’importanza ancor maggiore se viene concepito come un atto collettivo, e le potenzialità dei nostri corpi ne risultano ulteriormente accresciute.
In effetti, anche se a volte riusciamo a riconoscere una determinata sostanza (T., pillola, SSRI[11], etc) nella sua dimensione eterogenea, semio-tecnica o material-semiotica, performativa e socialmente costruita o di attore non-umano, quasi sempre poi l’assunzione della sostanza, il suo desiderio\rifiuto e i suoi effetti, tendono a ricadere sull’individuo, soprattutto per quanto riguarda le sostanze farmacologiche[12]. In questo senso abbiamo voluto assumere pienamente la dimensione socio-culturale delle sostanze che abbiamo discusso, ossia la loro esistenza in una rete di relazioni: tra generi, classi, tra soggettività. E’ proprio la dimensione collettiva, quindi, ad essere in grado di potenziare queste azioni di sovversione e a dare un nuovo significato politico agli atti di terrorismo di genere.
Indicazioni bibliografiche
Baldo M., Borghi R., Fiorilli O. (2014), ?l re nudo: per un archivio drag king in ?talia, Pisa, Edizioni ETS
De Lauretis T. (1987), Technologies of Gender: Essays on Theory, Film, and Fiction, Bloomington, Indiana University Press
Haraway D. (1991), A Cyborg Manifesto Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century, in Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, New York, Routledge, pp.149-181.
Martin E. (1987), The woman in the body: a cultural analysis of reproduction, Beacon Press
Mauss M. (1950), Les techniques du corps [1936], Sociologie et anthropologie, Paris, PUF, (trad. it. “Le tecniche del corpo, Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965)
Preciado B. (2008), Testo Yonqui, Barcelona, Espasa Libros
[1] ?l prefisso cis deriva dal latino e significa “al di qua”. Con uomo “cisgenere” o “cisgender” o semplicemente “cis” si intende una persona che alla nascita è stata assegnata al genere maschile in base alle correnti convenzioni sociali e ha accettato come propria questa assegnazione, mentre con uomo “transgenere”, “transgender” o semplicemente “trans” si intende una persona che è stata assegnata-donna e che ha poi adottato un genere maschile (con o senza modificazioni tecnologiche del proprio corpo). Secondo la Trans-yciclopédie (Espineira, Thomas, Alessandrin 2013: 121) è stata Julia Serano ad introdurre nella letteratura accademica il concetto di cisgenere nel 2007. Baldo M., Borghi R., Fiorilli O. (2014), ?l re nudo: per un archivio drag king in ?talia, Edizioni ETS, Pisa, p. 11, nota 15.
[2] Seguendo la scelta di Michela Baldo, Rachele Borghi e Olivia Fiorilli (2014) abbiamo scelto di usare l’espressione “persone assegnate-donne/uomini” e non “bio-donne/bio-uomini” perché « riteniamo che quest’ultima formula rimandi indirettamente ma inevitabilmente a un’idea di natura (se non addirittura di biologia) per noi altamente problematica. […]» L’assegnazione del “sesso” alla nascita e la produzione di corpi “maschili” e “femminili” sono sempre processi pienamente sociali, e non esiste «nessun automatismo tra ‘assegnazione’ del genere alla nascita ed espressione del genere nella vita di un soggetto». ?nfine, «la forma ‘persona assegnata donna/uomo’ ci permette di alludere alla varianza di genere espressa anche da soggetti che non si definiscono transgenere». (Baldo, Borghi, Fiorilli 2014, p. 12, nota 16).
[3] Collettivo transfemminista frocio nato da un’iniziativa di Antagonismogay e attivo a Bologna dal 2008, si riunisce nella storica sede di Atlantide, in Porta Santo Stefano. Http://smaschieramenti.noblogs.org
[4] Gli ormoni esistono “fisicamente” e i loro effetti sono “fisici”, ma questa fisicità, come ogni altra fisicità, è sempre mediata dalla cultura. Infatti spesso si dice che il testosterone rende aggressivi, e in particolare sessualmente aggressivi (l’Androcur che prendono le trans MtF è, ad esempio, un anti-androgeno usato anche per “sedare” uomini con un eccessivo desiderio sessuale) ma pare che chi non è stato educato a una cultura dell’aggressività sessuale o non sente su di sé un’aspettativa in questo senso non abbia questo tipo di “effetto” quando assume T. Questo non significa che questo effetto, quando si verifica, sia “finto”, falso o ideologico: tutti i possibili effetti di T., come di qualunque altra sostanza o processo fisiologico, sono il risultato dell’interazione fra processi biochimici e soggettività. Non esistono effetti “oggettivi” o “puri”.
[5] Mauss M. (1950), “Les techniques du corps” [1936], Sociologie et anthropologie, Paris, PUF, (trad. it. “Le tecniche del corpo, Teoria generale della magia e altri saggi, Torino, Einaudi, 1965). De Lauretis T. (1987), Technologies of Gender: Essays on Theory, Film, and Fiction, Indiana University Press, Bloomington.
[6] L’assunzione della pillola contraccettiva aumenta significativamente il rischio di trombosi e ictus e ha spesso effetti negativi sull’umore. Solo la persona interessata può valutare se il proprio disagio per acne e peli superflui giustifichi l’assunzione di questi rischi: non intendiamo stigmatizzare chi prende la pillola per questi motivi, ma contestiamo la pratica diffusa del “consenso disinformato” o dato-per-scontato da parte dei medici, e l’immaginario estetico dominante che non prevede nemmeno la possibilità che una persona assegnata-donna possa gradire o comunque non odiare i propri peli superflui.
[7] La situazione, tuttavia, non è totalmente simmetrica, perché mentre fa parte del senso comune il fatto che un’assegnata-donna possa assumere farmaci a base di ormoni “femminili” per i più svariati motivi (contraccezione, acne, irsutismo, disagi legati alle mestruazioni o alla menopausa, terapie dell’infertilità), l’uso di testosterone sintetico da parte degli assegnati-uomini è ancora avvolto da un alone di segreto. La visibilità sociale dell’uno e dell’altro tipo di ormoni sintetici non è nemmeno paragonabile.
[8] Come abbiamo già spiegato, questa associazione meccanica fra testosterone e desiderio sessuale ci sembra molto problematica.
[9] L’erogazione di queste prestazioni mediche è organizzata in modi diversi a seconda delle aziende sanitarie regionali e dei protocolli (ONIG o WPATH) adottati dalle singole strutture. Si ricorda che la legge italiana richiede una sentenza di un tribunale ordinario per autorizzare gli interventi chirurgici, e un’ulteriore sentenza in cui il giudice, constatati i cambiamenti fisici avvenuti, decreta la riassegnazione del sesso anagrafico. Sebbene la legge sia vaga sul tipo di cambiamenti richiesti, la prassi indiscussa è quella per cui senza l’asportazione chirurgica di utero, ovaie e seno o dei testicoli non si può ottenere il cambio di sesso anagrafico. Questa pratica giurisprudenziale ha inevitabilmente degli effetti anche sulla cultura medica de* professionist* che si occupano della transizione e su quella delle stesse persone trans, avvalorando l’idea che l’esperienza trans sia necessariamente un percorso da un corpo “sbagliato” a un corpo totalmente coerente con il genere scelto in base ai canoni normativi di maschilità e femminilità. Istanze diverse non sono istituzionalmente previste e l’accoglienza che viene loro riservata nelle strutture è affidata alla sensibilità de* singol* operatori e operatrici sanitar*.
[10] Ci sembra questo il rischio di una prima lettura entusiasta di Testo Yonqui. Del resto, è come se Preciado abbia materializzato il testosterone in forma di libro, come se fosse riuscit* a far sì che gli effetti della lettura mimassero quelli della sostanza: concordiamo con Virginie Despentes quando dice che dopo aver letto questo libro «hai voglia di uscire in strada, di fare cose strane». Proprio a partire da questa considerazione si è consolidata la nostra consapevolezza che il corpo è il risultato dell’intersezione di molteplici discorsività che si fanno materia.
[11] Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, farmaci antidepressivi.
[12] Già diverso il discorso sulle sostanze “ad uso ricreativo”, la cui somministrazione è più spesso legata a contesti collettivi di socialità.
Nod(ul)i di senso e fiocchi rosa
“Credo nella teoria dal basso prodotta in luoghi popolari,
credo nel piccolo, nell’incongruo, nell’anti-monumentale,
nel micro, nell’irrilevante,
e ritengo che si possano cambiare le cose
pensando piccoli pensieri e condividendoli a largo raggio.
Il mio proposito è provocare, infastidire, confondere, irritare e divertire;
inseguo progetti piccoli, micropolitiche, intuizioni, capricci e fantasie.”
Judith Halberstam
È difficile e doloroso riuscire a rendere sistematiche e narrabili tutte le sensazioni, emozioni, idee e analisi che ho vissuto nel corso di quest’anno e mezzo. Vivere l’esperienza del tumore ha gettato una luce diversa sulla mia quotidianità e mi ha portata a una sospensione dell’ordinarietà, del senso che ho sempre dato al tempo, al mio corpo, alla mia persona. Ciò è avvenuto in particolare perché ho un tumore al seno. Uso il presente e non il passato, nonostante la mastectomia e il ciclo di chemioterapia adiuvante, poiché penso che questa esperienza rimarrà sempre con me e poiché penso che da un cancro non si “guarisce”. Ciò non vuol dire gettarsi in un mare di disperazione ma prendere atto, a volte con momenti di serenità, che qualcosa è cambiato per sempre. Io non tornerò più la persona che ero prima di accorgermi che il mio corpo stava producendo un nodulo. Il cancro è ormai un connotato della mia vita, come lo è essere alta, con gli occhi marroni, bianca, con una protesi al posto di una tetta.
Per cercare di aggredire in modo meno doloroso possibile e magari più fruibile, il groviglio che ho voglia di narrare, non posso fare altro che partire dalla cronaca perché ciò che è avvenuto è scandito da date e luoghi, reali e virtuali, ben precisi. Se non avessi una cronologia di tutto questo percorso mi perderei completamente nel marasma della trasformazione della mia persona.
Verso la fine di giugno del 2013, mentre accarezzavo il mio seno e mi davo piacere, mi sono accorta di qualcosa di diverso nella sua conformazione. Sentivo al tatto qualcosa di duro, estraneo, leggermente rigonfio. Con la mia solita “beata incoscienza” non mi sono allarmata ma ho ritenuto opportuno condividere questa scoperta con le persone con cui faccio politica transfemminista da ormai sette anni e con il mio medico di base il quale, dopo una breve palpazione, mi invitava a fare urgentemente un’ecografia. Nel momento in cui sono entrata, per la prima volta, nella Breast Unit dell’ospedale Bellaria di Bologna, ho preso consapevolezza di ciò che stava avvenendo. Dall’ecografia si è passati a una biopsia e dalla biopsia si è passati a una diagnosi di cancro al seno. Dopo il primo momento di estraniamento dato dalla notizia, mi sono resa conto che io e il mio corpo saremmo cambiate e che, a prescindere dalla mia volontà, ci sarebbe stata una trasformazione irreversibile.
La relazione di cura in ambito ospedaliero.
Improvvisamente le mie routine si sono stravolte e ho dovuto familiarizzare con l’ambiente ospedaliero. Al posto di bambini e bambine con cui entrare in una relazione di cura, mi sono ritrovata a svolgere un nuovo ruolo e ad essere io a dover ricevere cura. Non riuscendo a essere passiva rispetto a ciò che implicava la “manipolazione” del mio corpo, ho dovuto negoziare informazioni, strategie e terapie con medic* e infermier*. La sorpresa più grande è stata proprio ribaltare completamente l’idea che avevo della disciplina medica. La presunta certezza, che nel senso comune è una caratteristica del sapere biomedico, in realtà si è rivelata essere un “governo dell’incertezza” che, per darsi una certa solidità, si arma di protocolli, ruoli, lessico specialistico, talvolta volutamente oscuro, e presunte verità sul corpo. Già durante l’ecografia e la biopsia ho cercato di capire, osservando sul monitor, cosa fosse questa nuova presenza nel mio corpo. Ho fatto molte domande ma le risposte sono state spesso vaghe e talvolta contrastanti. A volte questa vaghezza era data dal non conoscere fino in fondo ciò che il mio corpo stava producendo e le sue cause. Altre volte erano evidenti difficoltà nel comunicare qualcosa che è, anche per il personale addetto, difficile da nominare, soprattutto a una giovane donna. Ho avuto modo di sperimentare sulla mia pelle ciò che dice Susan Sontag: «Si mente ai malati di cancro non solo perché la malattia è (o si pensa che sia) una condanna a morte, ma perché la si considera oscena, nell’accezione originaria del termine: nefasta, abominevole, ripugnante per i sensi» (Sontag 1979, p. 15) ancor di più quando si è di fronte a qualcuno che rappresenta un idealtipo di giovinezza e vitalità.
Nel percorso di medicalizzazione ho potuto constatare, in modo più ravvicinato rispetto a tutte le mie precedenti esperienze con la classe medica, come i ruoli siano cristallizzati e spesso forieri di danni sia ai pazienti sia agli stessi medici. Un esempio lampante è avvenuto durante il mio primo ricovero. Il giorno successivo alla mastectomia, un medico di turno, gastroenterologo, in modo molto schietto e cinico, disse a me e alle mie compagne di stanza di non “piangerci addosso” e di alzarci subito dai letti. Al di là della rabbia che può comprensibilmente suscitare, questo atteggiamento spiccio mi fece venire in mente, anzitutto, che un tale tono paternalistico e lesivo della nostra sensibilità, probabilmente non lo avrebbe usato se si fossero trovato di fronte a degli uomini a cui avessero asportato i testicoli a causa di un tumore. Era dunque evidente l’incapacità di questo medico, uomo, nel gestire una situazione di dolore sia reale (l’asportazione di una ghiandola mammaria, la presenza di drenaggi nella ferita e i postumi di un’anestesia totale fanno male fisicamente) sia simbolico. L’unica maniera che avevo per affrontare questa arroganza era ribaltarla sul piano del paradosso e dell’ironia. Infatti, durante una medicazione gli chiesi chiaramente se potevo almeno dire “Ahi!” mentre mi spostava i tubi drenanti.
Quando ho cominciato la chemioterapia, il rapporto con i medici è diventato ancora più complicato. Per quanto potessero apparire accoglienti e comprensivi, presumibilmente formati a relazionarsi con i pazienti, i molti oncologi che ho incontrato[1], non avevano neanche il tempo materiale per informarsi e leggere attentamente la cartella clinica[2]. I ritmi di lavoro dei medici sono tali da non consentire un attento ascolto del paziente, tanto che le visite settimanali, della durata media di cinque minuti, appaiono più che altro come una routine dettata dal protocollo. Ero all’interno di un rapporto di produzione da catena di montaggio, ero un ingranaggio a cui somministrare una terapia standard. Questo stato di cose presuppone un modello ben preciso di scienza medica e di rapporti fra le varie figure nell’ambito della cura: tutti i corpi sono uguali, nelle loro varie patologie, e rispondono, più o meno, alla stessa maniera alle terapie somministrate; il medico sa meglio del paziente come funziona il suo corpo, quali reazioni può avere e, soprattutto, quali non può avere; il medico è depositario di una verità sul corpo che il paziente non può avere. Questi presupposti sono il corollario di una vera e propria espropriazione del sé e di un’infantilizzazione del paziente. Un’infantilizzazione che, oltre a rendere standard l’immensa variabilità dei corpi, permette una più agevole governabilità dei soggetti. È un processo che, nel nostro sistema culturale, vivono quotidianamente i malati, le persone con deficit, le persone anziane, le bambine e i bambini e chiunque si trovi in un rapporto di potere impari.
In alcuni casi il paziente, inoltre, risulta essere, nella visione del medico, colui il quale ha abitato in modo poco corretto il proprio corpo causandogli dei danni. Non sono pochi i casi in cui, in particolare per ciò che riguarda le patologie oncologiche, si colpevolizza il paziente e si attribuisce l’insorgenza di neoplasie o di imprevisti effetti collaterali nelle terapie, ai cosiddetti “stili di vita”. Pur non esistendo uno studio esaustivo ma solo una serie di statistiche sulla correlazione fra “stile di vita” (abitudini alimentari, sedentarietà, fumo…) e insorgenza del carcinoma mammario, ho avuto modo di sentire vari medici affermare che, addirittura, il non aver avuto gravidanze rientra nei fattori di rischio. Da un punto di vista politico ciò comporta una colpevolizzazione verso chi si autodetermina al di fuori dei ruoli di genere imposti, verso chi, come me, decide con cognizione di causa di non volere figli. Solo la lucidità data dagli strumenti politici a mia disposizione mi ha permesso di non cadere nella spirale del senso di colpa dato da questa vulgata.
Ma cosa accade quando il medico “toglie il camice”? Da cosa deriva questo rapporto di sapere/potere nella relazione medico-paziente? I vari racconti presenti in Medici senza camice[3], un testo essenziale che mette in discussione proprio i ruoli prestabiliti all’interno della relazione di cura, svelano la presenza di un «dispositivo formativo orientato sia a stabilire la superiorità del medico sul paziente, sia a sviluppare un senso di appartenenza fra i medici».
All’interno dell’università – continua il testo – si viene formati attraverso un doppio curriculum: c’è un curriculum esplicito, che è composto da quegli apprendimenti che strutturano il piano di studi ufficiale, ma anche dal sistema di regole interne all’istituzione chiaramente codificate. Esiste però anche un curriculum nascosto, formato dalle pratiche e dalle regole non dichiarate, che istituiscono una sorta di codice non scritto ma ugualmente efficace e spesso in contraddizione con il curriculum esplicito. Può così accadere che per dimostrare la propria competenza sui processi diagnostici è bene che lo studente sappia, perché così è scritto, che l’anamnesi, cioè la storia clinica del paziente, deve essere raccolta sempre con molto scrupolo perché costituisce un momento decisivo per arrivare alla giusta diagnosi, quindi, se ne dedurrebbe che i pazienti vanno ascoltati, trattati con riguardo, con gentilezza. Ma, in parallelo con quanto si apprende nel curriculum esplicito, si incontrano costantemente, nella pratica quotidiana i comportamenti che sono stati narrati, che inducono ad agire in modo opposto e che alla fine vengono assunti da neo medici. (AA.VV 2013, p. 13)
Una delle pratiche di resistenza rispetto al rapporto di potere fra medici e pazienti – oltre a quella di informarmi il più possibile – che ho provato a praticare nel corso della cura è stato il continuo confronto con var* pazient* oncologic*. Il rapporto paziente-paziente all’interno delle sale d’attesa o nelle stanze dell’ospedale è spesso un rapporto arricchente sotto vari punti di vista. Si ha, anzitutto, il tempo dell’ascolto e del confronto. Un ascolto e confronto caratterizzati dalla sospensione del giudizio poiché, fra pazienti, si sa che non esiste una verità intorno al cancro, una verità sulle terapie, una verità sulle cause e, soprattutto, una verità su come viversi la malattia e su come performarla. Emotivamente ci si sostiene e si comprendono le reazioni poiché, semplicemente, si ha un vissuto simile. Ci si scambia vari tipi di saperi sia sulle terapie, sia sui vari tipi di cancro, sia sugli effetti che questo percorso ha sulla qualità delle proprie vite, sia sui modi, più o meno ortodossi, per ovviare agli effetti collaterali dei medicinali. Questo tipo di condivisione informale però è osteggiata dai medici. Un’oncologa in particolare, dopo un incontro informativo fatto nel reparto di Psicologia Ospedaliera, all’interno di un ciclo di incontri fra figure professionali e un ristretto gruppo di pazienti, ci disse chiaramente che non era il caso che parlassimo fra noi degli effetti delle terapie poiché potevamo alimentare paure e dare informazioni sbagliate. Questo è l’esempio lampante di come l’infantilizzazione delle pazienti produca un rapporto gerarchico e di potere.
Il cancro al seno e la performance
Il cancro al seno ha un genere pur non comprendendo solo il sesso femminile[4]. Ha un genere poiché colpisce uno degli organi che dal punto di vista simbolico caratterizza più di ogni altro la femminilità. Subire un intervento di rimozione di una parte o di tutto il seno comporta una grossa ferita dal punto di vista simbolico. Molte donne che ho incontrato durante questo percorso difficilmente mi hanno raccontato dell’effetto che la perdita di un seno aveva nella percezione di se stesse. Io stessa ho grosse difficoltà a riprendere un rapporto sereno con il mio corpo e a percepirlo nuovamente come fonte di piacere.
Quando mi hanno diagnosticato il cancro al seno, la prima reazione è stata, razionalmente, cercare di dare un senso a ciò che mi stava accadendo e accogliere questa trasformazione con curiosità. Ho cercato di ripercorrere tutte le analisi che nel Laboratorio Smaschieramenti[5] e nella Consultoria queer di Bologna abbiamo affrontato sulla costruzione del genere, per farle riverberare sulla vita che avrei avuto da quel momento in avanti. Rideclinando sul mio corpo e su ciò che stava producendo, il discorso contro-egemonico dell’arte del fallimento di Judith Halberstam[6], ho cercato di immaginare il “fallimento” e il “tradimento” del mio corpo, come un processo di trasformazione che mi avrebbe investito totalmente. Ho cercato di dare un senso e una possibilità a me stessa ripensandomi in chiave trasformativa, nonostante, al contrario di tant* trans a cui sono legata, questo processo di modificazione del mio corpo non fosse né voluto, né desiderato. Ho cercato di cogliere il fallimento come un percorso inedito da intraprendere, qualcosa che rompe lo staus quo e che apre possibilità per nuove consapevolezze. Ciò però non esclude il fatto, ovviamente, che il cancro sia qualcosa di veramente doloroso e che se ne farebbe volentieri a meno.
Dal momento della diagnosi fino a quando non ho subito il secondo intervento di ricostruzione del seno ho lavorato in modo tale che il mio corpo e la mia persona, corrispondessero il più possibile all’idea che avevo di me. Una nuova cura di me stessa mi ha portato a scoprire nuovi piaceri, a performare orgogliosamente ciò che sentivo di essere, calata nella circostanza drammatica della cura oncologica. Credo che, fra tutte le terapie che ho affrontato, la più spaventosa sia stata proprio la chemioterapia poiché, a differenza di un seno che può essere celato allo sguardo altrui, gli effetti dell’adriamicina e del taxolo sono evidenti, si manifestano sul volto, sulla testa, sugli aspetti del proprio corpo che chiunque di noi usa per relazionarsi col mondo reale. È interessante a riguardo ciò che afferma Eve K. Sedgwick:
Dimenticate la letteralità della mastectomia, della menopausa indotta chimicamente, ecc.: vorrei incoraggiare caldamente chiunque sia interessato alla costruzione sociale del genere a trovare il modo di trascorrere sei mesi da donna completamente calva […] è difficile non pensare a questa esperienza in corso come, fra le altre cose, a un’esperienza di decostruzione applicata. Come sarei potuta arrivare a una dimostrazione più efficace dell’instabilità delle presunte opposizioni che strutturano l’esperienza del “sé”? (Sedgwick 2012, pp.167-168)
Il timore che avevo nell’essere visibile come malata oncologica non era tanto il non essere “graziosa” quanto l’essere percepita come malata di una patologia che può portare alla morte. Eppure, o forse proprio per questo, ho scelto di non indossare parrucche, ho scelto di inventare altri modi per guardare il mondo ed essere guardata. Gli sguardi che ho incontrato, talvolta erano sfuggenti. Ricordo con divertimento e allo stesso tempo con un po’ di tristezza, la sera di Halloween del 2013 quando, per festeggiare il mio trentanovesimo compleanno, dopo una cena con il mio compagno, ho deciso di attraversare il centro città a piedi con un bel turbante sulla testa. Immersa fra zombi, fantasmi e vampiri vedevo lo sguardo della gente in maschera fissarmi solo per pochi istanti. In quel momento, non ho potuto non pensare al racconto del Edgar Allan Poe La maschera della morte rossa. Ero proprio abominevole allo sguardo degli altri, ricordavo la realtà e non l’esorcizzazione della malattia e della morte. Ero un paradosso e non ero travestita.
Sono stata una malata oncologica inconsapevolmente fuori dalla performance che ci si aspetta da chi è sottoposto a chemioterapia. Inevitabilmente fragile, con il sistema immunitario indebolito, gonfia di cortisone e affetta da alopecia, ho ritrovato un orgoglio e una forza inaspettata.
Un orgoglio che non coincide con la gioia e con il sorriso che molte campagne Fiocco Rosa prescrivono a chi è in chemioterapia. Grazie alla visione del documentario “Pink Ribbons, Inc.”[7] ho potuto approcciarmi criticamente a questa retorica e nel momento cui me la sono letteralmente sentita addosso, la rabbia mi ha dato la possibilità di analizzare con lucidità come perfino dalla performance delle donne con carcinoma mammario si possa estrarre valore, collocandola pienamente all’interno di un rapporto di produzione e riproduzione capitalistico.
In “Pink Ribbons, Inc.” vengono descritti in modo lapalissiano i paradossi della raccolta di fondi destinati alla ricerca per la cura, quindi a vantaggio delle case farmaceutiche. Solo il 5% dei fondi raccolti attraverso gli sponsor, infatti, sono destinati alla ricerca delle cause primarie del carcinoma mammario, unica vera forma di prevenzione. Nel documentario vengono esaminati vari aspetti delle campagne legate al Fiocco Rosa, anzitutto il fenomeno del pinkwashing, che si concretizza nel business attraverso il quale le aziende utilizzano progetti filantropici legati al cancro al seno per aumentare le vendite e spostare l’attenzione dalla loro responsabilità nell’immissione di inquinanti cancerogeni. Contemporaneamente vengono evidenziate tutte le retoriche legate al cancro al seno e all’immagine della malata confacente a questo processo. In particolare in “Pink Ribbons, Inc.” la malata descritta è una donna bianca, occidentale, middle class. Gli aggettivi che risuonano maggiormente sono: forte, combattiva, guerriera, sopravvissuta. È qualcuna a cui vendere qualcosa, qualcuna su cui costruire una retorica per vendere qualcosa, siano essi beni materiali o immateriali.
In questo caso, adattando le suggestioni suscitate dalla lettura del saggio Elementi per una teoria della Jeune-Fille[8] del collettivo Tiqqun, potremmo dire che la malata protagonista delle estenuanti marce legate alla Race for The Cure e alle campagne Fiocco Rosa è una sorta di “merce-faro”: pur alimentando un processo di empowerment collettivo, il suo fine ultimo è devolvere denaro o acquistare altre merci. La cosa che più mi fa rabbia nelle campagne del Fiocco Rosa è la mercificazione della sincera volontà dei partecipanti di contribuire alla lotta contro il tumore al seno, spostando tutte le loro energie da obiettivi concreti e praticabili verso un rituale collettivo che invece arricchisce solo i soliti ignoti.
Alcune mie colleghe, nell’ottobre del 2013, hanno partecipato alla Race for The Cure e me lo hanno riferito con grande soddisfazione. Questo è un chiaro esempio di come la “mobilitazione degli affetti” venga usata in chiave commerciale. È evidente come il marketing riesca a dare risposte di facile portata e illusorie rispetto a un vuoto dato dal senso di impotenza che il cancro porta con sé. Io stessa sono stata cooptata da una delle tante campagne che ruotano intorno al carcinoma mammario. Quando mi fu comunicato l’esito della biopsia e il percorso chirurgico e chemioterapico che avrei dovuto affrontare, l’infermiera e la dottoressa presenti, mi invitarono a partecipare ad un incontro de “La Forza e il Sorriso”[9], dove mi avrebbero aiutata nel make-up e mi avrebbero regalato dei cosmetici molto costosi per poter apparire al meglio anche durante la chemioterapia. Con molta curiosità e “spirito laico” partecipai all’incontro. Pur essendomi divertita e avendo condiviso, anche in quel caso, varie informazioni sugli effetti delle terapie con le pazienti lì presenti, notai che le mie compagne di “imbellettamento” erano tutte bianche, sui 40/50 anni, non povere. Successivamente, nel Day hospital oncologico, parlando con altre donne di questa esperienza, mi accorsi che non a tutte avevano proposto questa opportunità. In particolare una signora sui 60 anni di chiare origini meridionali, molto simpatica ma poco curata ed evidentemente con modeste risorse economiche, dovette chiedere più volte all’infermiera di essere inserita fra i nominativi del progetto “La Forza e il Sorriso” di cui ero stata io stessa a parlarle.
La malata presente nelle campagne del Fiocco Rosa, quindi, è una donna “vai e vinci”, una donna che, per avere consenso ed essere socialmente accettata, non può soffermarsi a riflettere sul proprio lutto e sul dolore. È una donna che assume un archetipo di guerriera contro le ombre, ma che della guerriera ha solo l’aspetto e non l’obiettivo. Questa retorica è frustrante per le malate incarnate e ne tradisce la realtà. È ancora più frustrante non solo perché presenta un modello di malata tipo ma anche un preciso modello di donna. Nel Fiocco Rosa è pervasivo lo stile ladylike della cultura renziana: una donna in grado di essere sempre bella, intraprendente e innovativa, una donna che non può mai fallire. Un modello di donna moderna, tutto fare, ambiziosa, solidale senza essere complice poiché non può abbandonarsi alla condivisione del dolore. È, banalmente, l’immagine della donna bella e con un bel seno che pubblicizza ogni anno l’ottobre rosa delle varie Race for The Cure. Una donna lontanissima da tutte le compagne di (dis)avventura che ho incontrato nel Day hospital oncologico, lontanissima dalle nostre cicatrici e dalle nostre mutilazioni. Questa donna è immersa in una grande grossa e nauseabonda nuvola rosa, la stessa che a volte vedo circondare le mie alunne a scuola. Un mondo rosa fatto schizofrenicamente di guerriere docili, guerriere che non riescono davvero a combattere perché il nemico rimane invisibile. È l’estetica della guerriera che però non combatte poiché non riesce a riconoscere il suo nemico. È, ancora, una guerriera che non prevede la caduta in battaglia, la possibilità di perdere e di non sopravvivere semplicemente perché si ha l’illusione che se si combatte, se lo si vuole veramente, il cancro può essere vinto. Una volta che il cancro entra nelle nostre vite però, a mio parere, sopravvivere è solo una questione di fortuna.
Il concetto di guerriera che invece ci viene presentato da Audre Lorde è quello di una donna sostenuta da altre donne nella battaglia per non essere ridotte al silenzio sulle cause che provocano il cancro al seno e riguardo a ciò che ognuna di noi ha da dire sui propri vissuti di sofferenza e di rabbia: «Il cancro al seno e la mastectomia non sono esperienze uniche ma condivise da migliaia di donne americane. Ognuna di queste donne ha una sua particolare voce da levare in quel che deve diventare un grido di protesta femminile contro ogni cancro prevedibile, così come contro le segrete paure che permettono a quei cancri di prosperare». (Lorde 2014, p. 29)
Il convitato di pietra
Nel documentario “Pink Ribbons Inc.” viene chiaramente evidenziato come, all’interno delle retoriche sul tumore al seno, l’argomento della morte venga sistematicamente rimosso. Quando mi hanno diagnosticato il tumore al seno ho pensato, e mi è stato ripetuto più volte, che la mortalità legata a questa forma di neoplasia è minima. La realtà che ho incontrato è stata un’altra. Esiste uno stadio di tumore al seno, cosiddetto metastatico, che conduce alla morte e può insorgere a distanza di anni, anche dopo una presunta guarigione poiché il cancro al seno non segue la “regola dei cinque anni” (generalmente in ambito oncologico, dopo cinque anni dal termine delle terapie, qualora non siano subentrate recidive o nuove neoplasie, viene dichiarata la guarigione del paziente), peraltro recentemente rivista. Questo argomento è omesso completamente sia in tutte le retoriche legate alle varie campagne per gli screening, sia nelle discussioni fra pazienti. La morte non è contemplata nei forum, nelle pagine facebook, nelle discussioni nelle sale d’aspetto, negli incontri formativi. Spesso chi fa presente questo aspetto viene zittita in quanto portatrice di negatività. In molti casi si è letteralmente bannate dai forum. Una donna che ho incontrato durante i cicli di chemioterapia, si lamentava del fatto che non ci fosse una precisa disposizione che vietasse l’inserimento nella stessa stanza, di donne che facevano la chemio per la prima volta e malate con recidive. Pur comprendendo la paura e la vertigine che si prova nell’avere una malattia che può portare alla morte credo che il silenzio riguardo a questa eventualità sia una vera e propria violenza contro chi è terminale. Anche sulla parola terminale ci sarebbe una riflessione da svolgere. La questione morte non riguarda più se morirò (tutti e tutte prima o poi dobbiamo morire e viviamo dimenticandocene o non rammentandolo di continuo) ma quando. Ciò non è negativo, né deprimente, è solo prendere atto di una “malattia minacciosa” come la definisce Eve K. Sedgwick. Questa consapevolezza mi ha permesso di «sprigionare le mie energie per andare ad abitare nell’incertezza più remota, là dove rappresentazione, identità, genere, sessualità e corpo non posso essere ordinatamente allineati» (Sedgwick 2012, p. 169) o, come racconta Audre Lord, di diventare «forzosamente ed essenzialmente consapevole della mia mortalità, e di quello che desideravo e volevo per la mia vita, per quanto breve possa essere» (Lorde, 2014, p. 25). È qui che si àncora maggiormente l’idea della guerriera: c’è una guerra in atto e la condizione di consapevolezza della caducità della nostra esistenza può concedere il coraggio di passare dalla neutralità nella battaglia al prendere posizione, al divenire guerriere, semplicemente perché non si sa quanto tempo si ha disposizione ed è bene, almeno per me, riuscire a fare ciò che voglio fare, dire ciò che voglio dire, vivere ciò che voglio vivere. È una contraddizione fra vertigine di morte e senso di potenza che ormai abito, come vivo le varie contraddizioni che hanno strutturato la mia personalità e che ho deciso di accogliere sospendendo il giudizio su me stessa. Un meraviglioso senso di potenza che mi ha permesso di affrontare e usare strategicamente il pietismo che suscita l’immaginario della vita a termine di una malata di cancro, per portare avanti con maggiore forza e sfrontatezza la mia vita personale/politica, le battaglie che ci riguardano e condividere i saperi e le competenze che ho acquisito. In questo continuo bipolarismo fra depressione e forza d’animo, la solidarietà con le mie compagne e le “altre intimità e affetti” che mi circondano, mi hanno permesso e mi permettono di vivere con maggiore consapevolezza e sostegno emotivo la miseria e la ricchezza che porta con sé il tradimento del proprio corpo. In questo percorso a ostacoli non sono mai stata sola. Il cancro che ho non è mai stato solo mio, ma, dal momento che mi è stato diagnosticato, ha investito come uno tsunami, tutte le persone a cui sono legata. L’unica maniera che abbiamo avuto tutte noi di poter resistere, ancora una volta, alla devastante vertigine di morte è stato ascoltarci, accoglierci l’un l’altra e condividere il più possibile tutti i saperi a nostra disposizione per poter continuare il nostro percorso.
Indicazioni bibliografiche
AA.VV., (2013), Medici senza camice, Roma, Sensibili alle foglie
Halberstam J., (2011), Low Theory: Queer Negativity and the Art of Failure, in Frabetti F., (2010, a cura di), Maschilità senza uomini. Scritti scelti, Pisa, edizioni ETS, pp. 155-173
Lorde A., (1980), I diari del cancro, in Giacobino M. e Gianello Guida M., (2014, traduzione di), Sorella Outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, Milano, Il Dito e La Luna
Sedgwick E.K., (1993), Queer e ora!, in Arfini E.A.G. e Lo Iacono C., (2012, a cura di), Canone inverso. Antologia di teoria queer, Pisa, Edizioni ETS, pp.157-174
Sontag S., (1979), La malattia come metafora, Torino, Giulio Einaudi editore
Tiqqun, (2003), Elementi per una teoria della Jeune-Fille, Torino, Bollati Boringhieri editore.
[1] Al reparto di oncologia dell’ospedale Bellaria di Bologna non si ha un oncologo di riferimento ma si ruota su più medici dovendo, in questo modo, costruire ogni volta una nuova relazione medico-paziente.
[2] Durante la prima visita di follow up, un oncologo che non avevo mai incontrato ha affermato candidamente che, avendo finito ormai il mio percorso chemioterapico, avrei dovuto cominciare la terapia ormonale. Fortunatamente ero ben a conoscenza della natura del mio tumore il quale, essendo non ormonorecettivo, non prevedeva terapie ormonali.
[3] Testo nato da un cantiere di socioanalisi narrativa di un gruppo di studenti e medici specializzandi, per indagare e raccontare i limiti dell’istituzione medica sia nell’ambito della formazione medica sia nell’ambito della relazione medico-paziente.
[4] In base agli ultimi dati dell’Associazione italiana di oncologia medica e dell’Associazione italiana registri tumori, si stima che durante il 2014, in Italia, si siano ammalati di tumore della mammella circa 47 mila donne (4 diagnosi l’ora) e 1000 uomini. Gli uomini trans, inoltre, possono sviluppare cancro al seno anche dopo l’operazione di ricostruzione del torace. È un grosso tabù sia per i diretti interessati, sia per i medici e il sistema sanitario che non considerano affatto questa possibilità proprio perché si tratta di una malattia genderizzata (http://openmindedhealth.com/2013/09/article-review-breast-cancer-development-transsexual-subjects-receiving-cross-sex-hormone-treatment/, febbraio 2015)
[5] Smaschieramenti (http://smaschieramenti.noblogs.org/) è un laboratorio queer transfemminista nato a Bologna nel 2008 dal collettivo antagonismogay e ha la sua sede a Atlantide, spazio autogestito antisessista, antirazzista e antifascista. Dall’interazione fra il Laboratorio e altre singol* e realtà, è nato nell’autunno del 2013 la Consultoria Queer di Bologna.
[6] «Propongo di leggere il fallimento come rifiuto della competenza e dello specialismo, una critica del rapporto – considerato naturale nel sistema capitalistico – tra successo e profitto, e come discorso contro-egemonico che ripensi al significato di «perdente». […] Nel mio libro il fallimento segnala percorsi politici non intrapresi; esso non è una cartografia di un continente separato, perché le strade secondarie del fallimento occupano spazi tra le superstrade del capitale» (Halberstam 2010, p.163).
[7] E’ un documentario sulle campagne Nastro rosa per sostenere la lotta contro il cancro al seno. E’ stato realizzato nel 2011 dalla National Film Board of Canada per la regia di Léa Pool e prodotto da Ravida Din ed è basato sul libro del 2006 Pink Ribbons, Inc: il cancro al seno e la politica della filantropia di Samantha King, docente di studi di kinesiologia e salute alla Queen University (http://walrusvideo.com/pink-ribbons-inc/).
[8] «Il capitalismo ha veramente creato delle ricchezze, perché ne ha trovate là dove non se ne vedevano. È così, per esempio, che ha creato la bellezza, la salute o la giovinezza in quanto ricchezze, cioè in quanto qualità che vi posseggono» (Tiqqun 2003, p.65).
[9] «La forza e il sorriso è un programma completamente gratuito dedicato a donne sottoposte ai trattamenti oncologici. Lo scopo è di aiutarle a migliorare il proprio aspetto fisico durante e dopo le cure. Offriamo informazioni, idee e consigli pratici per meglio fronteggiare gli effetti secondari dei trattamenti: aver cura della pelle, affrontare la caduta dei capelli, truccarsi per riconquistare benessere e autostima. La forza e il sorriso prevede l’incontro di 6/8 donne in un’atmosfera informale e piacevole sotto la guida di esperti competenti e sensibili, per imparare in poche ore il make-up giusto o per provare nuovi trattamenti di bellezza viso e corpo» (www.laforzaeilsorriso.it/febbraio 2015).
Queersultoria: esperimenti di welfare dal basso per un nuovo diritto alla salute e alla vivibilità
Introduzione: sapere dove situarsi, a partire da sé
La Queersultoria di Padova nasce dal percorso politico e teorico del Fuxia Block, collettivo transfemminista queer parte integrante del cosmo BiosLab, un laboratorio di autoformazione, inchiesta e pratiche di soggettivazione che ha trovato casa (o meglio sarebbe dire case) in via Palestro a Padova dalla primavera 2013.
La genealogia del BiosLab e del Fuxia Block affonda le proprie radici nei movimenti di contestazione delle riforme universitarie dei primi anni 2000 (Peroni 2008), quando, al centro delle analisi e delle sperimentazioni dei collettivi studenteschi, si trovava la critica alla parcellizzazione del sapere e ai processi di aziendalizzazione imposti dal Bologna process a livello europeo. A quell’epoca, la resistenza all’omologazione e all’inaridimento dei percorsi di studio e quindi delle nostre vite avveniva attraverso forme di riappropriazione dei processi conoscitivi, come l’autoformazione, che cercavano di rispondere (e resistere) al meccanismo di quantificazione e valutazione dei saperi in termini funzionali al mercato (era quello che credevamo allora: oggi sappiamo che nemmeno questo era il punto, ma solo l’inflazione e la dismissione dell’università pubblica in questo paese).
Il nodo del sapere e della sua relazione col potere è un tratto fondamentale del percorso del nostro collettivo fin dalle sue origini. È infatti attraverso questa lente foucaultiana, laddove il sapere diviene, oltre che strumento di potere, arma affilata di resistenza da utilizzare per posizionarsi – o meglio, pour trancher, nella versione originale più incisiva (Foucault 1977) – che il nostro sguardo dalle aule universitarie si è velocemente riversato sulla città e sul suo tessuto di contraddizioni e conflitti in cui eravamo pienamente immerse.
Inevitabilmente, l’approccio critico al sapere e alla produzione di conoscenza ci ha portate a decostruire un ordine del discorso che, in quegli anni e soprattutto in questa città-laboratorio di retoriche e politiche di sicurezza e paura, produce(va) continuamente nemici, identità, codici, norme e ruoli, tutti tesi a incasellare, definire e categorizzare le molteplici soggettività che la attraversano. È così che il nostro percorso di decostruzione si è declinato immediatamente sui dispositivi di controllo e di disciplinamento che le politiche securitarie insinuavano nelle nostre vite attraverso la costruzione di immaginari di guerra (di civiltà) e assedio (delle nostre città, così come della nostra identità) (Bonfiglioli 2010, Simone 2010, Peroni 2012).
Qui emergeva lampante il nesso tra razzismo e sessismo intrinseco alle politiche di tolleranza zero, reso evidente dai processi di criminalizzazione (dei migranti) e vittimizzazione/colpevolizzazione (delle donne) legati all’emergenza del femminicidio o alla prostituzione; così come il legame tra il sessismo “democratico” (Simone 2012) e l’incessante produzione, selezione, inclusione, scarto di identità, orientamenti sessuali e corpi di volta in volta definiti decenti, osceni, accettabili, riconoscibili, rifiutabili o sacrificabili secondo il sistema di inclusione differenziale del welfare e del riconoscimento dei diritti civili; e ancora, il filo rosso che collegava il contestuale e perfettamente coerente attacco ai corpi delle donne come macchine riproduttive non dotate di libertà di scelta ma destinate a “nutrire il mondo” (come una delle più orrende campagne pubblicitarie mai inventate, quella di EXPO 2015, ci suggerisce ancora oggi), portato avanti dall’attacco alla legge 194 e dal dilagare dell’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici.
Questi sono i temi centrali delle nostre prime analisi, che descrivevano un ordine sociale in cui corpi, desideri, condotte, ruoli, identità e generi costituiscono l’oggetto principale dell’azione governamentale, il cuore della produzione biopolitica; in altri termini, ciò che Foucault (1978) ha definito dispositivo sessuale.
Il processo decostruttivo di linguaggi e stereotipi si è accompagnato alla volontà di rompere anche la dimensione più tangibile di questa rappresentazione spingendoci a ragionare sulla decostruzione dei ruoli sociali di genere e delle identità costruite a partire dal binarismo eteronormativo. Abbiamo voluto costruire immaginari differenti che fossero capaci di rompere l’accerchiamento per liberare i nostri desideri e aprire spazi di possibilità capaci di andare oltre alle forme relazionali accettate (o permesse). Queste riflessioni ci hanno portato a constatare come noi stessi fossimo attraversati da quelle contraddizioni tra norme e società, tra sapere e potere, che emergono nei linguaggi e nei simboli che quotidianamente attraversano le nostre relazioni famigliari, amicali e sessuali.
Tutto ciò insomma parlava direttamente a e di noi, non solo come soggetti di diritto o come militanti di collettivi cognitivi ma come parte integrante e inesorabilmente partecipe della normatività e della performatività delle identità, degli stereotipi, dei ruoli sociali, non solo a livello sociale ma anche all’interno del nostro gruppo. Ed è in questo nodo, in questo rovesciamento epistemologico di prospettiva, che si fonda il processo immanente, autoriflessivo, decostruttivo e profondamente biopolitico che quasi inconsapevolmente ci ha portate a quel “a partire da sé” che costituisce di fatto le fondamenta del pensiero femminista. Naturalmente, questo è avvenuto non senza ambivalenze, conflitti e resistenze, soprattutto nel momento in cui è stato chiaro a tutte che questo punto di partenza ci imponeva la messa in gioco del personale su un piano politico – e può sembrare banale, ma solo attraverso questa esperienza abbiamo compreso il significato dello slogan “il personale è politico”.
Da queste basi abbiamo avviato un confronto con quanto già era stato discusso e prodotto dal femminismo storico per comprendere le trasformazioni contemporanee e per dotarci di una cassetta degli attrezzi metodologica che ci permettesse di mettere a verifica la possibilità di agire all’interno dello schema binario eteronormativo decostruendone i presupposti.
Ed è da qui che la nostra pratica politica ha assunto l’esperienza e il posizionamento come metodologia imprescindibile per riconoscere e nominare i problemi, i nodi da sciogliere, le contraddizioni che di volta in volta individuavamo nei nostri contesti e nelle nostre relazioni. Il nostro percorso quindi nasce e resta un progetto di ricerca permanente, che utilizza saperi situati e metodologie di inchiesta femminista per dare corpo ai nostri bisogni e costruire percorsi di liberazione.
Salute e mutualismo nella crisi del welfare: percorsi di incompatibilità
Con questo bagaglio negli anni successivi abbiamo iniziato un percorso di ricerca per disegnare linee di fuga in grado di rompere la “naturalità” dell’ordine eteronormativo neoliberale. Così come le femministe negli anni Settanta hanno individuato il terreno della riproduzione come centrale per le lotte anticapitaliste, rivendicando l’urgenza di una trasformazione radicale di tutte loro vite, abbiamo rimesso al centro della discussione politica comune e allargata i nostri bisogni e desideri per immaginare percorsi di soggettivazione che rispondessero agli attacchi all’autodeterminazione e ai diritti delle soggettività femministe e queer, sferrati da un lato dalla cattura delle differenze messa in atto dal biocapitalismo cognitivo, e dall’altro dalla crisi del welfare e dei diritti sociali.
Abbiamo compreso come i processi di valorizzazione messi in atto dal biocapitalismo mettano a valore la nostra intera esistenza sfruttando relazioni, linguaggio, emozioni, cura e, dunque, come attraverso i meccanismi di femminilizzazione del lavoro e di precarizzazione, divenuta nel frattempo condizione esistenziale, il dispositivo del genere sia diventato centrale nel processo di accumulazione del capitale. È infatti l’intera vita, il bios, a essere il cuore del conflitto sociale, e per questo diventa necessario comprendere come i dispositivi di cattura possano essere sabotati a partire dalla nostra indisponibilità, costruendo e condividendo pratiche di conflitto e di mutualismo.
Se la redistribuzione della ricchezza prodotta attraverso i sistemi di welfare state tipici del fordismo era già stata messa a dura critica dai movimenti femministi in quanto strumento di controllo eteronormativo e di inclusione differenziale basata sullo status dei soggetti, negli ultimi anni le reti femministe e queer avevano già rivendicato un nuovo welfare per l’autodeterminazione sganciato dalla famiglia e dal lavoro[1]. Nell’epoca dell’austerity i movimenti europei, e in particolare le reti di mutualismo diffuse nei paesi europei più colpiti dai diktat della Troika, come ad esempio Agorà99[2], hanno individuato il terreno della salute – nella sua accezione di vivibilità, così come descritta da Butler (2014) – uno degli ambiti principali di resistenza e trasformazione delle condizioni di vita.
La salute assume in questi contesti un significato nuovo, che riguarda la libertà di scelta sui propri corpi, sulle relazioni affettive e sessuali, sulla riproduzione; laddove nei sistemi sanitari il corpo continua a essere percepito solo come oggetto di patologizzazione e medicalizzazione, i movimenti transfemministi rivendicano la possibilità di riappropriarsi dei saperi e della cura di sé rovesciando il rapporto asimmetrico che intercorre tra saperi esperti e le esigenze espresse dalle soggettività LGBTQ nel campo della sessualità, della riproduzione e della malattia (Ballarin, Padovano 2014).
Le consultorie queer, e la Queersultoria, nascono in questo contesto, riprendendo la genealogia dei femminismi degli anni Settanta e dei percorsi di auto-aiuto dei primi consultori nati dalla necessità di ricostruire saperi situati e de-medicalizzati sui corpi delle donne (Percovic 2005). Insieme all’approccio critico verso la specializzazione dei saperi esperti e utilizzando l’autoformazione e l’inchiesta come metodi di conoscenza di sé e di riconoscimento dei propri bisogni, la Queersultoria risponde dunque a un’esigenza fondamentale quanto ancora tutta da definire: liberare i corpi e le soggettività dai dispostivi di controllo e disciplinamento biocapitalisti e costruire nuovi spazi di autodeterminazione e vivibilità.
Il progetto Queersultoria
Nell’aprile 2013, all’interno di un percorso di elaborazione di pratiche concrete contro la crisi e lo smantellamento del welfare, abbiamo dunque deciso di iniziare un processo di riappropriazione di reddito indiretto attraverso lo strumento politico dell’occupazione. In questo percorso, oltre alla necessità di dare spazio ai nostri progetti e al desiderio di costruire percorsi di socialità alternativi ai circuiti commerciali universitari, la scelta di occupare uno spazio abbandonato dell’INPS, l’ente previdenziale al quale come precar* versiamo da anni centinaia di migliaia di euro senza la speranza di vedere restituito un centesimo, è stata una scelta politica in sé. Ed è così che l’occupazione di quegli stabili ha rappresentato una risposta concreta ai processi di smantellamento di un welfare stantio che non risponde più ai bisogni di una società in continuo mutamento, e una forma di riappropriazione di parti di ricchezza e di beni comuni lasciati abbandonati da enti pubblici previdenziali sull’orlo del default a causa della finanziarizzazione.
Nasce così l’esperienza del BiosLab, un laboratorio occupato da student*, precar*, precar* della ricerca e disoccupat* che si propone di essere uno spazio biopolitico in grado di parlare di lavoro, precarietà, diritti, saperi critici e ricerca, ma anche e soprattutto di come i corpi, i desideri, le relazioni e le condotte sessuali sono continuamente sussunti dal capitale e di come – per questo motivo – sia necessario iniziare a elaborare strategie discorsive e pratiche biopolitiche in grado di sostenere processi soggettivazione conflittuale delle vite e dei corpi.
Questo posizionamento è stato presentato pubblicamente e discusso attraverso un editoriale dell’aprile dello stesso anno dal titolo “La crisi logora anche i nostri corpi e le nostre menti”[3] , in cui si ricostruisce il dibattito politico che, a partire dalle lotte femministe degli anni Settanta, ha rimesso al centro la vita e il “personale”, per arrivare a costruire contesti e spazi di autogestione della propria sessualità, della propria salute e del proprio corpo, come per esempio sono stati i consultori autogestiti femministi. Queste progettualità, infatti, non solo avevano l’obiettivo di riappropriarsi dei saperi incarnati nelle esistenze di tutt*, ma, a partire dal riconoscimento del valore che le vite in generale – e in particolare i corpi sessuati e le condotte sessuali – avevano per il mantenimento e la riproduzione del sistema stesso, permettevano di sperimentare percorsi di soggettivazione che, da quelle stesse eccedenze valorizzabili in termini capitalistici, fossero in grado di bloccare gli ingranaggi dell’ordinamento sociale, economico e istituzionale di carattere “eteronormato-familista” e produrre conflitto diffuso.
Così come i consultori autogestiti sono stati negli anni Settanta spazi di liberazione e soggettivazione, la Queersultoria per noi è uno spazio in cui ri-articolare le pratiche e i discorsi del transqueerfemminismo contemporaneo a partire dalla constatazione che, nel bel mezzo della crisi neoliberista, gli elementi che riguardano la vita e le condotte vengono sempre più catturati dalle maglie del mercato e della valorizzazione economica. Proprio da qui siamo ripartit* con l’obiettivo di costruire strumenti, femministi e immediatamente inseriti all’interno delle altre istanze del movimento italiano ed europeo, che sapessero contrastare dispositivi di controllo e di gestione produttivistica del bios.
Riuscire a produrre conflitto e soggettivazione a partire dai nostri corpi, dalle nostre vite precarie, dalle nostre sessualità eccedenti e desideranti, dai nostri bisogni incarnati, significa, dunque, non solo costruire delle vie di fuga e di liberazione dalle forme di ricatto ed esclusione sociale prodotte dalla crisi, ma soprattutto riuscire a sottrarre quel plusvalore di cui il capitale ha bisogno per la sua stessa sopravvivenza e riproduzione, per costruire spazi di libertà e vite indisciplinate. Inoltre, di fronte a uno scenario di smantellamento generalizzato del welfare state – soprattutto in ambito sanitario – e di cancellazione dei diritti per tutte quelle soggettività eccedenti alla norma eterosessuale, abbiamo voluto provare a ragionare di saperi e pratiche autonome e critiche rispetto all’autorità del potere medico, che sapessero parlare di forme di welfare autogestito dal basso e che mettessero allo stesso tempo in discussione il rapporto istituzionale e gerarchizzato tra utente e servizio.
Ed è esattamente per questa ragione che all’interno del percorso politico del BiosLab nasce la Queersultoria, una consultoria queer autogestita in grado di dare informazione – critica e con un orientamento di genere – e di costruire percorsi di autogestione dei corpi, della sessualità e della salute a partire da un approccio che superi il binarismo eteronormativo. Innanzitutto, la Queersultoria è uno spazio decostruente e risignificante, partecipativo e soggettivante, un luogo di confronto e di sperimentazione, di produzione e diffusione di saperi vivi. È uno spazio che si pone come uno dei principali obiettivi quello di riuscire a ridefinire collettivamente il concetto di salute e di benessere sulla base dei nostri bisogni e delle nostre vite precarie, prive di reddito, di casa e piene di ricatti e di controllo sui corpi sessuati.
Partendo proprio da noi, dalle nostre sessualità e dai nostri desideri abbiamo voluto mettere in discussione il paradigma medicalizzante a partire da un’imprescindibile messa in discussione della dicotomia di genere e dei ruoli sessuali. Rivendichiamo inoltre l’autodeterminazione delle nostre relazioni sessuali, del nostro erotismo e dei nostri corpi, sganciandoli dai meccanismi di riproduzione sociale basati sulla procreazione “sempre e comunque” e sulla famiglia eteronormata. Sentiamo la necessità di spingere verso modelli di depatologizzazione per liberare la condizione di tutte le favolosità in transito e transitanti e di tutte quelle espressioni di vita eccedenti la norma eterosessuale. Vogliamo mettere al centro della discussione e della pratica politica l’autogestione di tutta la vita e quindi il bisogno di nuove forme di welfare che sappiano riappropriarsi di reddito diretto e indiretto sganciato dal lavoro.
Per riuscire a concretizzare tutti questi obiettivi politici abbiamo scelto di dotarci di alcuni strumenti che hanno contraddistinto, fin dai primi momenti di elaborazione, le nostre pratiche, femministe e costantemente situate. A questi se ne aggiungeranno altri che costruiremo passo dopo passo collettivamente, in interazione con quanto già presente sul territorio e nel movimento.
L’autoformazione è sicuramente la parte più consistente di produzione teorica e critica, nell’ottica di una condivisione di saperi a partire dai bisogni e dai desideri delle soggettività che la attraversa, di costruzione di un sapere critico e di pratiche conflittuali. Co-costruiamo incontri tematici di discussione sulla sessualità, sull’autodeterminazione dei corpi, sulle relazioni e sulla violenza, sui desideri e sulle emozioni, sulle molteplici performance di genere, sui paradigmi medicalizzanti e di cura.
Abbiamo voluto provare fin da subito a interagire con gli operatori e le operatrici che sul territorio di Padova e a livello nazionale si occupano di salute e sessualità. La prima sperimentazione in questo senso è stata il ciclo seminariale “La cura di sé” in cui ci siamo volute confrontare con i saperi esperti di chi quotidianamente opera nei servizi destinati agli studenti universitari e nei consultori famigliari, sia quelli istituzionali, sia quelli femministi, e con le esperienze degli sportelli dedicati al transito. Il dialogo con queste realtà ci ha permesso di comprendere il funzionamento dei servizi esistenti confrontandoci con gli stessi operatori e operatrici che quotidianamente si interfacciano con richieste e con limiti istituzionali e organizzativi difficili da ricomporre: la relazione con chi lavora sul campo è fondamentale anche per immaginare strategie di alleanza o contaminazione e mutuo supporto tra spazi autonomi come le consultorie queer e le strutture sociosanitarie, laddove procedure, mancanza di strumenti e finanziamenti spesso riducono a routine un servizio fondamentale per il territorio.
La stessa modalità di relazione con operatori e operatrici sociosanitarie è stata messa in campo all’interno di “Pillole di desiderio”, un ciclo di incontri sperimentale in cui abbiamo provato a mettere a confronto, in un ambiente accogliente e informale, i nostri bisogni e dubbi, le incertezze su corpo e sessualità, contraccezione e relazioni con alcune “esperte” spogliate per l’occasione del loro ruolo istituzionale e dell’autorità medica. Il ciclo, partecipatissimo e molto coinvolgente, ha ad esempio approfondito le teorie queer alla luce delle rivendicazioni omonormative LGBT sul matrimonio, i problemi legati contraccezione e desiderio, la conoscenza dei diritti e delle possibilità che abbiamo in campo riproduttivo. L’ampia partecipazione al ciclo e l’intenso dibattito che si è sviluppato ha messo in evidenza come questi temi siano molto presenti nella quotidianità di ciascuno di noi e dunque quanto sia necessario affrontarli con laicità e fuori da un approcio emergenziale, patologizzante o medicalizzato.
Infine, accanto all’autoformazione riteniamo che l’inchiesta e l’autoinchiesta siano gli strumenti metodologici necessari per la mappatura e lo studio del reale che ci permettono di mettere ulteriormente a fuoco quelle che sono le contraddizioni e le problematicità, ma anche le necessità e i bisogni attorno ai quali è necessario approfondire l’analisi e costruire spazi di discussione e di condivisione.
Inoltre, dal momento della sua inaugurazione, la Queersultoria ha messo a disposizione del quartiere e della città di Padova un centro di documentazione sulle tematiche di genere, che prevede la possibilità di consultazione di libri, riviste e di materiali autoprodotti relativi ai corpi e alle sessualità per tutt*. Vi è anche uno spazio dedicato alla distribuzione di materiali informativi su vari temi inerenti la sessualità (contraccezione, prevenzione, erotismo, pornografia e sex toys), l’orientamento sessuale e il genere . In un’ottica di diritto alla salute e alla libera scelta abbiamo condotto una mappatura dei servizi offerti dalle diverse strutture sanitarie e parasanitarie del padovano (ospedali, consultori, altri istituti), in particolar modo per quanto concerne i sistemi e le possibilità abortive in città e gli spazi e le strutture nei quali disporre di informazioni complete sull’identità sessuale e di genere, l’orientamento sessuale e le esperienze di transito.
Infine, proprio nel corso degli ultimi mesi, siamo riuscit* a costruire relazioni solidaristiche e di cooperazione sociale con giovani famiglie del quartiere che hanno dato vita a progetti di doposcuola autogestiti e di percorsi di educazione alle differenze e alla sessualità per genitori e bambin*.
Tutti i discorsi critici rispetto al concetto di salute e alle strutture sanitarie pubbliche, insieme alle prospettive analitiche che ci hanno guidato in questo percorso collettivo, sono riusciti a confluire all’interno di un percorso politico molto forte e potente che è stato quello contro le politiche anti-abortiste in Europa per l’autodeterminazione e che ha portato durante l’anno appena trascorso nelle piazze e nelle strade centinaia di migliaia di donne, di uomini, di compagn* sotto lo slogan #IODECIDO.
Con queste parole abbiamo voluto ribadire come non solo non ci sia spazio per discorsi e politiche neofondamentaliste, fasciste e reazionarie che vorrebbero addomesticare e controllare i corpi e la libertà sessuale delle donne, ma anche che non accettiamo che nessuna forza politica e istituzionale possa decidere e legiferare sulle nostre vite utilizzando argomentazioni morali e religiose utili solo al mantenimento dello status quo e al governo neoliberista delle eccedenze. L’autodeterminazione dei corpi, il diritto all’aborto e a una salute riproduttiva laica e in generale le lotte contro tutte quelle politiche che vorrebbero fare pagare a noi, ai nostri corpi e alle nostre vite i costi di un sistema economico e politico al collasso, sono temi che riguardano tutt*!
Le piazze dell’8 marzo 2014 e di #iodecido sono state, infatti, il primo passo verso un percorso in cui si è partiti da istanze apparentemente molto specifiche e genderizzate per arrivare a parlare di noi tutt*, precar*, student*, donne, uomini, trans, intersex e di come la formulazione di nuove forme di welfare e la riappropriazione di reddito siano gli unici strumenti e le uniche pratiche in grado di garantire a tutt* una vita autodeterminata e libera.
Riflessioni finali
Dopo questi primi due anni di attività possiamo dire che la Queersultoria è tutto questo e molto altro: è spazio di socialità e di soggettivazione, è lo spazio politico entro cui mettere a tema problematiche e possibilità. È però innanzi tutto un progetto di ricerca e inchiesta in continua trasformazione e arricchimento capace di tradurre desideri e bisogni che da personali e soggettivi si fanno immediatamente politici. Abbiamo fatto nostre le esperienze del passato per calarle nell’oggi, riprendendo la ricchezza politica e la rivoluzione epistemologica dei femminismi degli anni Settanta per utilizzarne gli strumenti nel paradigma biocapitalistico contemporaneo e le nostre r-esistenze precarie.
La prima grande ricchezza che questo percorso ci consegna è l’intreccio con esperienze e saperi altri che vogliamo contaminare e che ci contaminano a loro volta attraverso i dibattiti, gli incontri e le iniziative di piazza. Le pratiche, i saperi e le metodologie che stiamo mettendo in atto con la Queersultoria sono costituenti di quel partire da sé che orienta il percorso stesso. Riteniamo che questo approccio permetta di formulare e sviluppare nuovi terreni di conflitto a partire dai bisogni e dalle necessità che ogni soggettività esprime. Proprio in quest’ottica, scegliendo di dare priorità alla processualità del percorso, non intendiamo farci schiacciare dall’urgenza di formulare risposte ai bisogni e alle necessità che emergono, ma ripartiamo dalle indicazioni che le attività fin qui svolte ci hanno fornito. Una primissima direzione ce la dà l’ampia partecipazione agli incontri che problematizzano sessualità, riproduzione, desiderio e relazioni perché ogni volta che abbiamo introdotto questi temi il dibattito è stato molto vivo e partecipato, dimostrando come la messa al centro della discussione di queste tematiche sia –ancora- necessaria. Altrettanto, in questo lasso di tempo relativamente breve, abbiamo avuto modo di relazionarci con associazioni e soggetti differenti, innescando processi di soggettivazione, personale e politica, che ci permettono di mettere le basi per nuove prospettive.
Uno dei grandi temi che stiamo affrontando oggi è la discussione, presente già nelle esperienze dei consultori autogestiti degli anni Settanta, relativa alla scelta di qualificare lo spazio della Queersultoria come servizio/sportello autogestito oppure mantenerla prioritariamente spazio politico di confronto e conflitto. Questo nodo è cruciale sotto molti punti di vista e abbiamo ritenuto in questi mesi di non arrivare ad una definizione precisa, ma lasciare spazio ai processi che ci stanno attraversando, preferendo un’interazione e una contaminazione con chi lavora nei servizi, laica e funzionale ai presupposti che hanno dato avvio a questo percorso. In questo senso, la sfida è aperta e intendiamo portarla avanti a partire dalla rimessa in discussione del concetto di salute nella consapevolezza delle ambivalenze insite nel rapporto con il sistema sanitario attuale.
La scelta di concentrarci sulla Queersultoria come spazio di elaborazione politica trova un altro suo cardine nell’attraversamento che stiamo facendo dei percorsi di lotte sociali per il reddito di autodeterminazione e contro l’austerity. La rinnovata centralità del dibattito sulla giustizia sociale e sul benessere in Italia e in Europa ci permette di confrontarci con realtà differenti e con problematiche spesso articolate o che si esplicano in modo disomogeneo nei territori.
Infine, la genealogia femminista ci ha consegnato la potenza del pensiero critico e della critica ai saperi positivi, e, attraverso l’esperienza dei consultori e delle pratiche di mutualismo, ci ha permesso oggi di declinare questa ricerca nella costruzione di percorsi di conflitto e soggettivazione autonoma. Lontano da una prospettiva di sostituzione o – peggio ancora – compatibilità col paradigma estrattivo del biocapitalismo cognitivo, le consultorie queer costituiscono per noi gli spazi fisici e cognitivi in cui riformulare un diritto alla salute che risponda all’esigenza sempre più urgente di sottrarci alla morsa delle politiche di austerità e al ricatto della precarizzazione esistenziale, attraverso la sperimentazione di pratiche di cooperazione e la riappropriazione e condivisione di saperi situati.
Fondamentali restano per noi, in questo percorso di ricerca, il confronto e la messa in comune di queste esperienze con tutte le sperimentazioni di mutualismo transfemminista queer che si stanno moltiplicando nelle nostre città. Da qualche mese, infatti, all’interno di un percorso di movimento come quello dello Sciopero Sociale – spazio politico di discussione e di intervento che si interroga sulle forme della precarietà e dello sfruttamento all’interno del mercato del lavoro ai tempi del Jobs Act e dell’austerity – si è riusciti ad affrontare il nodo del lavoro gratuito, del lavoro di cura e del diritto alla salute, provando non solo ad immaginare nuove forme di sottrazione dalla cattura, da parte del capitale, delle nostre vite e delle soggettività, ma anche interrogandoci rispetto ai processi di riappropriazione di spazi di vivibilità e di cooperazione solidaristica che nascono e agiscono sul terreno della sperimentazione di welfare dal basso.
In questo senso le esperienze di consultorie queer presenti sul territorio nazionale possono rappresentare la base da cui partire per costruire momenti di autoformazione e di discussione collettiva che sappiano partire da dimensioni e bisogni territoriali per riuscire a costruire chiavi di lettura, strumenti analitici e metodologie generalizzabili sui temi del neo-mutualismo e del welfare.
[1] http://amatrix.noblogs.org/post/2007/10/23/fuori-dalla-famiglia-fuori-dal-lavoro-reddito-per-l-autodeterminazione/
[2]http://99agora.net/rights/healthcare-movements
[3] http://www.bioslab.org/editoriale-la-crisi-logora-anche-i-nostri-corpi-e-le-nostre-menti
Dignità delle persone e autodeterminazione: oltre i confini del binarismo di sesso/genere
Il presente capitolo, consdiviso dall’intero collettivo Intersexioni, vede in questo caso come autrici e autori: Michela Balocchi per i paragrafi 1 e 2, ed Egon Botteghi per il par. 3. Le altre fondatrici e fondatori di intersexioni, che costituiscono anche l’attuale nucleo direttivo, sono Miriam Abu Eideh, Andrea Barbieri, Alessandro Comeni, Nicole Braida, Alice Troise
Le intersezioni di intersexioni
Il collettivo intersexioni nasce nella primavera del 2013 dalla volontà di un piccolo gruppo eterogeneo di persone, già legate tra loro da esperienze pluriennali di collaborazione sul tema dei diritti umani e legate anche da forti rapporti di amicizia e stima reciproca. L’eterogeneità del gruppo è data da molteplici fattori: proveniamo da diversi percorsi lavorativi ed educativi, cosa che ci arricchisce reciprocamente; da diverse aree geografiche, cosa che ha reso la nostra presenza sul territorio più diffusa di quanto lo possa essere un’associazione con base locale; da diverse appartenenze o non-appartenenze identitarie e varii sono i nostri posizionamenti[1], cosa che ci rende buone alleate, decisamente allergiche a essenzialismi e determinismi biologici[2]. Ci accomuna l’interesse per l’analisi delle cause delle discriminazioni basate su caratteristiche ascrittive, così come di quelle economiche e sociali, l’impegno all’elaborazione teorica unito al desiderio di incidere concretamente sulla realtà per contribuire a cambiarla, a migliorarla, la contaminazione tra teoria e pratica, tra accademia e militanza e soprattutto uno sguardo intersezionale dai margini, anche come studiose di confine[3].
Quello di intersexioni è sicuramente un progetto ambizioso e complesso. Siamo state le prime, e al momento siamo le uniche, in Italia ad unire l’impegno sul tema della conoscenza scientifica delle questioni intersex e dell’advocacy per i diritti umani delle persone con tratti intersex/dsd[4], all’analisi di altre aree che vedono diritti umani violati e forme di oppressione e di prevaricazione per genere, identità ed espressione di genere, orientamento affettivo-sessuale, caratteristiche somatiche ed etniche. Se alcune di noi già lavoravano, dal punto di vista teorico e/o pratico, alla decostruzione delle strutture di potere collegate alle ideologie genderiste, sessismo, omotransintersex-negatività e razzismo, evidenziandone interconnessioni e forme di produzione e riproduzione macro e micro sociali, a questo si è unita – fin dalla fondazione del collettivo – una riflessione sullo specismo, che ci ha aiutate ad approfondire, da punti di vista per molte di noi inediti, le radici comuni tra le diverse forme di dominio e di violenza, di cui si possono riscontrare le origini comuni nell’economia e ideologia pastorale e patriarcale (Mason 2007).
Dunque, fin dalla nostra nascita come collettivo abbiamo cercato di mantenere l’attenzione e la riflessione sulle diverse aree tematiche, sulle loro interconnessioni, e nello stesso tempo ci siamo impegnate per essere presenti e attive sul territorio (locale, nazionale e internazionale) a diversi livelli e attraverso diversi piani di azione, allacciando collaborazioni con altri collettivi e organizzazioni non solo di area LGBTQIA*[5] anche femministi, transfemministi, e antispecisti. Il portale on line ci ha permesso di affacciarsi sul mondo virtuale e di raggiungere concretamente tutti i continenti[6]: attraverso il sito facciamo informazione, comunicazione e divulgazione scientifica. Sul territorio organizziamo e realizziamo corsi di formazione per insegnanti, teniamo corsi per studenti delle classi primarie e secondarie, corsi e seminari universitari e post-universitari, corsi di formazione per professionisti e per volontari. Organizziamo convegni, seminari, workshop, in ambito accademico e non, e anche altre iniziative pubbliche come proiezioni di film a tema con dibattito, presentazioni di libri, eventi conviviali cruelty free.
A queste attività si aggiunge un punto informativo sulle questioni intersex, gestito da pari e da alleate/i espert*, prosecuzione di quello che avevamo aperto nel dicembre 2009 e che è stato il primo punto di accoglienza in Italia rivolto alle persone con variazioni intersex/dsd di qualsiasi tipo[7]; anche allora offrivamo prima accoglienza con lo scopo di dare supporto, informazioni, condivisione di esperienze, ma anche con l’obiettivo di creare una rete di contatti tra persone direttamente interessate, genitori, altri familiari, amic*, attivisti e operatori socio-sanitari alleati, e anche di agire concretamente non solo per informare sulle attuali prassi di gestione dell’intersessualità in Italia, ma anche per sensibilizzare sulle troppo spesso drammatiche conseguenze che queste hanno sulla vita e i corpi delle persone, e per modificare dunque quei protocolli medici in modo da renderli veramente rispettosi della persona a partire dal diritto fondamentale alla propria integrità psico-fisica (Rodotà 2011, 2013). Oltre a questo offriamo anche un punto di contatto rivolto alle persone transgender e gender non conforming, per fornire informazioni sul percorso medico-chirurgico, per chi vuole intraprenderlo, e su quello legale, per l’accoglienza e il dialogo con i parenti e gli amici, per il confronto e la condivisione di esperienze nel caso in cui la persona in transizione abbia dei figli, sempre all’insegna della diffusione di una cultura rispettosa delle diversità e del diritto all’autodeterminazione. Queste, dunque, sono le attività che abbiamo portato avanti fino a oggi e su cui continuiamo a lavorare.
In questa occasione, infine, abbiamo deciso di parlare di due macroaree del nostro impegno come collettivo che agisce sul territorio e come gruppo che fa ricerca, formazione e informazione anche on line: a) la questione dei diritti umani delle persone che non rientrano nell’ideologia binaria di sesso/genere in relazione alle loro caratteristiche di sesso cromosomico, gonadico e/o anatomico, e le conseguenze della patologizzazione dei corpi con tratti intersex; b) la questione del diritto all’autodeterminazione delle persone, in relazione alla loro identità di genere ed espressione di genere, e le correlazioni con l’ideologia che giustifica e alimenta la struttura di potere e di sopraffazione degli essere umani sugli animali altro da umani.
I diritti umani al di là del binarismo di sesso/genere
Proprio mentre stavamo scrivendo questo paper, su Nature on line usciva un articolo di divulgazione scientifica dal significativo titolo Sex redefined. The idea of two sexes is simplistic. Biologists now think there is a wider spectrum than that (Ainsworth 2015). L’autrice, citando biologi, endocrinologi, genetisti, urologi pediatri e la loro più recente produzione medico-scientifica, spiega come la questione della definizione del sesso cromosomico, gonadico e anatomico sia molto più complessa rispetto alla riduzione ad una categoria discreta e binaria che distingue e divide gli esseri umani in femmine e maschi. Non solo i cromosomi cosiddetti “sessuali” non si esauriscono nella dicotomia XX e XY[8], con le conseguenze che questo comporta nelle caratteristiche fenotipiche sessuali primarie e secondarie, ma quegli stessi cromosomi tipici possono non trovare corrispondenza nell’anatomia sessuale della persona[9]. Così il biologo e fisiologo Arthur Arnold, intervistato, afferma: «I actually think that there are more sex differences than we know of» (Ainsworth 2015).
Ma che il sesso nei suoi aspetti cromosomici, ormonali e anatomici possa essere meglio compreso se letto come un continuum o come uno spettro potenzialmente infinito di varianti e gradi, piuttosto che racchiuso nelle due illusorie categorie discrete cui siamo abituati, lo aveva già ampiamente e sapientemente scritto nei primi anni Novanta del secolo scorso la biologa, storica della scienza ed esperta di questioni di genere, Anne Fausto Sterling[10]. Fausto Sterling sollevava anche il problema di una biologia “sessuata” che produce la naturalizzazione della presunta dicotomia di sesso, rendendo così difficile comprendere ciò che non rientra in quella rigida divisione.
Il fatto che la biologia umana[11] si presenti con un’ampia varietà di differenze di sesso è invece inscritto nei corpi delle persone, in particolare di quelle persone che la medicina diagnostica categorizza come affette da «disturbi nello sviluppo sessuale»[12]. Ad oggi non ci sono statistiche certe sulle diverse variazioni intersex nel mondo, e le percentuali indicate dipendono anche da quali variazioni si considerano e da quali definizioni si usano: secondo gli studi di Fausto Sterling l’1,7% dei neonati presenta un certo grado di intersessualità; secondo l’Intersex Society of North America si tratta dell’1%, la stessa percentuale indicata da Ainsworth su Nature; Blackless parla del 2% dei neonati (Fausto-Sterling 2000). In ogni caso, il punto fondamentale rimane il fatto che la specie umana si presenta in molteplici forme che non rientrano nel rigido dimorfismo sessuale di cui è imbevuta la cultura occidentale. Come scrive Connell: «la nostra rappresentazione del genere è spesso dicotomica, ma la realtà non lo è» (Connell 2006).
Paradossalmente, ciò a cui assistiamo oggi è che maggiori sono le conoscenze biomediche e scientifiche sulla diversità e complessità biologica umana e animale, maggiori sono le pratiche attuate per l’eliminazione e la cancellazione di queste diversità[13]. A partire dalla seconda metà del Novecento in ambito medico negli Stati Uniti e da lì nel resto del mondo è andato ad affermarsi il filone di pensiero secondo cui lasciare che un* bambin* cresca con genitali atipici provocherà danni irreversibili sulla sua psiche e disagi di carattere sociale (Kessler 1996). I protocolli medici di gestione dei casi di intersessualità prevedono: interventi di chirurgia estetica “normalizzanti” anche nel caso di assenza di problemi di salute; asportazioni delle gonadi invece del loro monitoraggio (e questo nonostante l’asportazione delle gonadi renda la persona farmaco-dipendente a vita)[14]; trattamenti farmacologici corrispondenti all’assegnazione precoce di sesso/genere per indirizzare verso il femminile o verso il maschile ancora prima che il bambino abbia potuto dare riconoscibili segnali della propria identità di genere[15]. La frequenza con cui vengono effettuati interventi di chirurgia genitale cosiddetta “correttiva” pare sia da uno e due bambin* su 1.000 nati vivi (0.1-0.2%).. Drammaticamente alta anche la percentuale dei feti abortiti quando identificati come portatori di una variazione intersex riconoscibile tramite amniocentesi: nei casi di iperpalsia surrenale congenita (CAH, 45,X e 47,XXY) la percentuale di interruzioni di gravidanza arriva all’88% per la variazione 47,XXY (Astorino 2015, Costello 2014). Come dice Morgan Carpenter, presidente dell’Organisation Intersex International Australia (OII AU): «Terminations happen because many intersex diagnoses are defined as genetic disorders, even though the problems with intersex bodies commonly lie in the minds of non-intersex adults»[16].
La voce delle persone intersex medicalizzate inizia a farsi sentire proprio a seguito della pubblicazione del pionieristico articolo di Fausto Sterling e dalla risposta di Cheryl Chase (oggi Bo Laurent) a quell’articolo (Chase 1993): dalla prima metà degli anni Novanta diventano sempre più numerose le testimonianze degli umilianti e dolorosi effetti di lungo termine derivanti dalla chirurgia precoce non necessaria, e, contestualmente, la richiesta per modificare i protocolli medici, orientarli al pieno rispetto della persona e interrompere gli interventi non consensuali. Il movimento intersessuale che ne è nato e si è sviluppato negli ultimi venti anni è composto da diverse anime e, come sottolinea Busi, parla diversi linguaggi: quello femminista del diritto all’autodeterminazione e della denuncia del sessismo e del genderismo sottostanti al protocollo medico dominante; quello dei movimenti gay, lesbici e trans, che riconosce l’eterosessismo e l’omofobia presente nei principi che ispirano le pratiche mediche; e quello dei movimenti per i diritti dei pazienti che rivendicano autonomia di scelta e consenso informato (Busi 2015).
L’attivismo intersex ha portato l’intersessualità e la sua medicalizzazione da esperienza personale da nascondere e di cui vergognarsi a categoria pubblica e a discorso politico di smascheramento delle menzogne del binarismo di sesso e di genere, di rivendicazione delle differenze e del diritto umano all’autodeterminazione, all’integrità corporea, alla felicità. Le alleanze strette dagli anni Novanta in poi sono state quelle con una parte del femminismo (accademico e non), con parte della comunità LGBTQ*, così come con alcuni esponenti della comunità biomedica che hanno messo in dubbio la validità scientifica dei protocolli tradizionali e la loro efficacia, proponendo alternative significative sia sul piano della pratica medica, sia su quello socioculturale e politico[17]. Lo stesso è avvenuto in Italia a partire dal 2008, e intersexioni è un esempio concreto di questo tipo di alleanza[18]. Va detto però che, a venti anni di distanza da quella prima presa di parola delle persone direttamente investite dalla patologizzazione e dalla medicalizzazione, la strada da percorrere per assicurare che ogni neonat* e ogni bambin* sia rispettat* nel diritto primario alla propria incolumità fisica e all’integrità del proprio corpo sembra ancora tutt’altro che breve.
Le connessioni contro i destini obbligati
pattrice jones[19], attivista ecovegfemminista, impegnata sin dagli anni Settanta nella lotta per i diritti delle minoranze sessuali e contro il razzismo, nel 2000 ha cofondato il VINE, un santuario per animali altro da umani, nel Maryland. La sua attività e i suoi studi sono un esempio incarnato di ponti tra movimenti di emancipazione e fonte di ispirazione per tutte le persone che si trovano a lottare su diversi fronti per la liberazione degli esseri viventi. Così scrive in proposito: «tutti parlano di costruire ponti tra movimenti, ma penso che dobbiamo andare oltre. Quelli di noi che vogliono coprire il divario tra il movimento di liberazione animale e i movimenti per la pace, la giustizia e la liberazione, devono essere i ponti che immaginiamo. Così come i ponti devono estendersi e sopportare pesi, anche noi dobbiamo allungarci e sopportare i disagi» (jones 2005).
Il collettivo intersexioni ha invitato pattrice jones a Firenze nel marzo del 2014 per l’unica tappa toscana del suo tour europeo. Uno dei passaggi dell’intervento che fece allora definisce molto bene anche l’importanza pratica di gettare luce sulle connessioni tra le varie oppressioni e sulle collaborazioni che si possono creare tra i movimenti: «I desideri sono messi al servizio di un sistema che vuole negare i nostri istinti animali: essendo sopraffatti dalla logica del dominio, dimentichiamo il corpo, separiamo i diversi elementi, le diverse condizioni e così noi non riusciamo a smontare la casa, a scardinare il sistema. Al contrario, favorendo le connessioni, saremo maggiormente in grado di smontare la struttura e lavorando insieme su questi progetti, edificheremo ponti tra i movimenti, così che tutti avremo più partecipanti, e i progetti comuni ci permetteranno di ottenere due o tre obiettivi in una volta, e anche se non troviamo quei progetti bisogna tenere a mente le connessioni, qualsiasi cosa stiamo facendo»[20].
In Italia, come intersexioni, stiamo lavorando per edificare questi ponti tra movimenti, sopportandone talora quel disagio presagito da jones.
Tre anni fa, nel corso della decima edizione di Liberazione Animale[21], si è inserito per la prima volta all’interno delle riflessioni del movimento liberazionista italiano il tema della questione trans e delle similitudini tra questa e lo status degli animali da reddito, mettendo a confronto la terribile somiglianza tra le norme che regolano la vita delle persone che affrontano la riassegnazione del sesso e le norme che regolano la vita degli animali da reddito nel nostro paese[22]. Ciò che si voleva far emergere era proprio il tentativo, da parte della “legge”, di sorvegliare i confini che devono essere rispettati per salvaguardare i privilegi di un essere sull’altro, di pattugliare affinché non ci siano corpi che osino passare da uno status all’altro, da un categoria all’altra. Si notava allora come alle persone trans venga richiesto un “obolo” di sangue per passare i limiti del genere in cui sono nate, mentre gli animali non umani che si trovano a nascere nelle specie che vengono definite “da reddito” pagano con il prezzo della loro stessa vita il tentativo di uscire dalla condizione di “animali da reddito”, completamente assoggettati all’utilizzo umano. Solo la morte li libera dalla schiavitù.
Secondo la nostra burocrazia, ogni persona che nasce in una determinata specie animale (bovini, caprini, ovini, etc, etc) viene classificata come animale da reddito e deve essere identificata con un numero di riconoscimento, che l’accompagnerà fino alla morte in macello. Un* bovin*, ad esempio, non può assolutamente circolare sul suolo italiano senza questa etichetta di riconoscimento e, se viene scoperto senza, deve essere abbattut*. Un* qualsias* cittadin* non può quindi prendersi a casa un* bovin* e dichiarare che è il “suo” animale “d’affezione” (come lo sono can* e gatt*), ma se vuole ospitare un bovin*, che non può assolutamente uscire dallo status di animale da reddito, deve diventare un* allevator* e cioè aprire un codice stalla con cui verrà identificato il posto dove tiene il bovino e avere un registro di carico e scarico degli animali. Il tutto sotto il controllo de* veterinar* della ASL di competenza.
Nello stesso modo ad una persona viene assegnato un sesso, o maschio o femmina, alla nascita e chi non si riconosce in questa assegnazione, può sfuggire alla categoria a cui è stat* assegnat* solo a patto di seguire un rigido protocollo, sotto il controllo medico-giuridico, in cui lasciare parte di sé in cambio di una nuova assegnazione. La legge di cui l’Italia si è dotata, poco più di trent’anni fa, per regolamentare il cambio di sesso, rendendolo legale, è stata finora interpretata dalla maggior parte dei giudici secondo un iter che prevede la sterilizzazione dell’individuo come conditio sine qua non per rilasciare i nuovi documenti. Da un anno è stata richiesta la calendarizzazione del disegno di legge 405 “Norme in materia di modificazione dell’attribuzione di sesso” sostenuto da parte della comunità trans, per modificare l’attuale legge in modo che sia rispettosa dell’autodeterminazione delle persone trans. Nella proposta, all’art.13, si chiede anche di non intervenire sui neonati e bambini intersex con interventi non necessari alla salute[23]. In sostegno del ddl, Michela Angelini, attivista per i diritti LGBTIQ* e antispecista, ha creato una petizione e un blog[24]. Ci sono alcune sentenze che hanno autorizzato la rettifica dei documenti senza la rimozione chirurgica delle gonadi (dove però si sottolinea l’avvenuta sterilizzazione chimica), ma si contano sulle dita delle mani. Al momento siamo in attesa che la consulta si pronunci sulla incostituzionalità di questa pratica di sterilizzazione coatta (Winkler 2015).
Il mettere a confronto le norme giuridico-sanitarie che regolano la vita delle persone trans e gli animali da reddito, è stato il frutto anche della riflessione sulla natura culturale di questi tipi di classificazioni: diverse sono le declinazioni di “donna” e “uomo” a seconda delle civiltà, come anche il trattamento assegnato alle persone trans, così come diversi sono i raggruppamenti delle razze di animali da reddito e quelle di affezione o protette (quello che da noi è un animale da reddito, e quindi destinato ad essere trucidato in un macello, in un altro paese può essere un “amato” animale da compagnia, se non addirittura un animale considerato sacro, e viceversa). Culturali, e quindi molto diverse tra loro, sono risultate le norme che nei vari paesi regolano la vita di queste persone, dove ci può essere una assai maggiore elasticità nel cambiare lo status di genere alle persone (con il riconoscimento all’autodeterminazione) e di passaggio degli animali “da reddito” ad “animali da vita”, fino alla negazione più totale e alla pena di morte.
La domanda è se queste norme coercitive per alcuni esseri viventi abbiano una radice comune. L’Italia si distingue per una certa rigidità: gli animali da reddito devono rimanere tali fino alla morte e le persone vengono suddivise in femmine e maschi e chi non si riconosce in questo stato di cose è trattato in maniera punitiva. Nel caso degli animali sono i/le veterinar* che hanno il compito di vigilare sullo status quo, mentre per le persone transessuali è la classe medica che dirige il loro percorso. Entrambi sembrano posti a guardia di grandi interessi, che si stagliano, abbastanza chiaramente, sullo sfondo.
Dall’analisi di questa mania classificatoria binaria, tra natura e cultura, donna e uomo, normale e anormale, che ingabbia i corpi in categorie fisse e immutabili, è scaturita l’idea di organizzare alcune iniziative che cercassero di decostruirla e che dessero concretezza a quel lavoro di “costruzioni di ponti” e di relazioni tra i vari movimenti di liberazione. E’ nato così, nel 2013, anche grazie ad alcune di noi che poi sarebbero andate a formare il collettivo intersexioni, il progetto di Liberazione Generale, ovvero giornate di riflessione sociale e politica e di proposte di prassi itineranti in varie città italiane con la speranza che potesse e possa fungere da catalizzatore per far emergere le connessioni tra le lotte di liberazione e che porti una chiara critica alla cultura genderista e sessista che soggioga e opprime fin dalla nascita: l’idea è che liberarsi dal genderismo possa voler significare e comportare anche liberarsi da tutte le oppressioni che implicano un essere ‘altro’, dando il via, appunto, ad una ‘liberazione generale’.
In questo ambito la riflessione si è focalizzata anche sugli attacchi transfobici che varie persone trans hanno subito all’interno del movimento antispecista, movimento che invece, da chi ne fa parte, viene definito e vissuto come massima espressione del rispetto e della libertà, e facendo emergere anche la noncuranza con cui viene liquidato e non riconosciuto il problema del sessismo all’interno del movimento stesso. Va ricordato che il pensiero antispecista nasce nell’ambiente bianco occidentale e quindi ha un suo specifico “posizionamento”. Se i maschi bianchi occidentali antispecisti non si rendono conto della loro posizione di privilegio quando parlano, soprattutto quando si rivolgono a esseri che non condividono tale posizione privilegiata, e non si mettono in una volontà di ascolto riguardo agli oppressi, la loro forza politica ed etica sarà una farsa di cui solo loro potranno continuare ad essere convinti[25].
La prima di queste giornate, svoltasi in provincia di Firenze, nasceva proprio come tentativo di far dialogare attivist* e studios* della liberazione animale con attivist* e studios* delle questioni LGBTQI*, e in quell’occasione, gli/le attiviste antispecisti/e hanno potuto sentir parlare per la prima volta della questione intersex. Quella prima edizione è stata un successo anche nel creare relazioni tra diverse realtà, tanto che la seconda edizione, svoltasi a Verona, ha visto nell’organizzazione una collaborazione di realtà antispeciste con un circolo storico di cultura LGBTQ* come il Pink di Verona[26]. In quell’occasione si è parlato di come il sessismo e il complesso patriarcale agiscono sulle donne, sulle persone LGBTQI* e sugli altr* da uman*. In particolare ne è scaturita una discussione assai partecipata sulle possibili analogie tra la vegefobia[27] e l’omotransfobia e su come i maschi vegani possano contribuire fattivamente alla lotta all’eterosessismo. A molti uomini vegani che sono e vengono percepiti come eterosessuali, è infatti capitato, in seguito al loro dichiararsi vegan nella cerchia di amici, di essere vittime di battute riguardo alla loro virilità e alla loro sessualità, e di essere quindi vittime di una sorta di omo-negatività verbale e di trovarsi così nella condizione di dover difendere il loro orientamento eterosessuale. Se il maschio vegano, invece, ribattese in modo diverso, per esempio esternando orgogliosamente e consapevolmente di essere perturbante rispetto al buon ordine eteronormato, all’interno del quale gli uomini e le donne devono esibire dei comportamenti che sarebbero loro naturalmente propri, potrebbe lottare contro l’eterosessualità obbligatoria al fianco delle persone LGBTQIA* e creare davvero quei famosi ponti di cui si diceva[28]: «il motto di un veganesimo queer potrebbe suonare così: condividete il negativo! Unitevi alla causa comune di quelli che provocano l’infelicità all’interno del sistema dello sfruttamento animale. La devianza… è il fulcro manifesto di questo testo, ciò che assicura l’interconnessione tra queer e veganesimo» (Simonsen 2013).
Indicazioni bibliografiche
Balocchi M., (2014), The medicalization of intersexuality and the sex/gender binary system: a look on the Italian case, in LES Online, Vol. 6, N. 1
Busi B., (2015), Dall’ermafroditismo ai disordini dello sviluppo sessuale: note sulla negoziazione tra movimento intersessuale e comunità scientifica e l’evoluzione dei protocolli medici, in Atti del Convegno l’Intersessualità nella Società Italiana (ed. Balocchi), in corso di stampa
Chase C., (1993), Letter to the Editor, in The Science, July-August, 3
Connell R., (2006), Questioni di genere, in il Mulino, 38
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Fausto Sterling A., (2000), Sexing the Body, Basic Books, New York Blackless M. et al. (2000), How Sexually Dimorphic Are We? in American Journal of Human Biology, 12, 151-166
hooks b., (1998), Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Milano, Feltrinelli
Kessler S. J., (1996), La costruzione medica del genere: il caso dei bambini intersessuali”, in Piccone S. – Saraceno C. (a cura di), Genere. La costruzione sociale del femminile e del maschile, Bologna, il Mulino
Martino G., (2014), In crisi d’identità.Contro natura o contro la natura?, Milano, Mondadori
Rodotà S., (2013), Il diritto di avere diritti, Bari, Laterza
Rodotà S., (2011), Foucault e le nuove forme del potere, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso
Winkler M., (2015), Di nuovo sul rapporto tra rettificazione anagrafica di sesso e necessità dell’intervento chirurgico, in Quotidiano Giuridico Pluris, 7 gennaio
[1]Con questo si intende – e dati i temi di cui trattiamo, può essere di un qualche interesse esplicitare – che copriamo un ampio spettro in relazione alle identità di genere (cisgender, gender-non-conform, transgender), agli orientamenti sessuali (bisessuali, eterosessuali, omosessuali, pansessuali), e al sesso biologico (femmina, intersex, maschio).
[2]In questo lavoro, nel parlare dei e delle componenti di intersexioni, useremo il femminile al posto del maschile plurale consuetudinariamente usato, nella lingua italiana, come fosse neutro universale. Negli altri casi cercheremo per lo più di alternare l’uso della doppia declinazione femminile e maschile per sostantivi e aggettivi, e l’uso dell’asterisco. Con quest’ultimo vogliamo indicare che anche la declinazione al femminile e al maschile non è esaustiva della varietà umana, poichè questa si presenta più ricca sia dal punto di vista biologico sia dal punto di vista dell’identità di genere, e che dunque lo stretto binarismo femmina-maschio cui siamo abituati non riesce ad esprimere l’intero spettro di sesso/genere e di identità di genere.
[3]Come dice bell hooks in una intervista dello scorso anno «I’m not centered in the academy because I choose to occupy a liminal zone. The intellectual work comes out of isolation, meditation, shifting location…spiritual practice is similar: it requires focus, clarity, ideas…and denying ego» trad. di Andrea Morgione: «Non sono al centro dell’accademia perché io scelgo di occupare una zona di confine. Il lavoro intellettuale arriva dall’isolamento, dalla meditazione, dal cambio di scenario… la pratica spirituale è similare: richiede concentrazione, chiarezza, idee…e la negazione dell’ego» (Troutman S., “Feminists We Love: Dr. bell hooks”, 14 Marzo 2014, http://thefeministwire.com/2014/03/feminists-love-dr-bell-hooks/, trad.: https://suddegenere.wordpress.com/2014/03/31/noi-che-amiamo-bell-hooks/, ultimo accesso 14 marzo 2015); hooks b. (1998), Elogio del margine. Razza, sesso e mercato culturale, Feltrinelli, Milano.
[4]Usiamo intersex come termine ombrello che comprende tutte le variazioni in termini di sesso che dal 2006 ricadono sotto l’acronimo DSD (Disturbs of Sex Development, tradotto in italiano come disturbi dello sviluppo sessuale o della differenziazione sessuale). In alternativa usiamo anche l’acronomo dsd, ma in lettere minuscole per differenziarlo dalla terminologia medica intrinsecamente patologizzante; con dsd intendendiamo differenze o viariazioni nello sviluppo del sesso (cromosomico, gonadico, anatomico); Balocchi M. (2014), “The medicalization of intersexuality and the sex/gender binary system: a look on the Italian case”, in LES Online, Vol. 6, N. 1.
[5]L’acronimo sta per lesbiche, gay, bisessuli, transgender, queer, intersex, asessuali e ‘altro’.
[6]Cosa che a sua volta ci ha incentivato a tradurre i nostri scritti in altre lingue (per adesso inglese e spagnolo), grazie alla collaborazione di volontari/e di cui alcun* sono anche traduttrici e traduttori di professione (Carlo Daniel Cargnel, Clark C. Pignedoli, Elena Gallina, Eleonora d’Alessandri, Eleonora Garosi, Lea Vittoria Uva, Maximiliano Lorenzi, Roberta Granelli).
[7]Il primo sportello per l’accoglienza intersex/dsd l’avevamo aperto insieme ad Alessandro Comeni presso l’associazione Ireos – Centro Autogestito Comunità Queer di Firenze (M. Balocchi 2009, ‘‘Aperto a Firenze il primo punto di accoglienza intersex italiano’’, in http://www.ireos.org/apre-il-primo-sportello-intersex-italiano/). Oltre al primo contatto via web o telefonico, avevamo allora anche un orario di apertura fisso una volta alla settimana presso la sede dell’associazione.
[8]Come nel caso dei mosaicismi cromosomici, o in 47,XXY o varianti meno comuni (48,XXXY o 49,XXXXY; o ancora 48,XXYY).
[9]Come nel caso delle persone con Completa Insensibilità agli Androgeni (CAIS), che hanno cromosomi XY ma, non avendo recettori per gli androgeni, sviluppano un’anatomia sessuale femminile e generalmente un’identità di genere femminile.
[10]Fausto Sterling A. (1993), The Five Sexes: Why Male and Female Are Not Enough, The Sciences, 20-24; Ead. (2000), Sexing the Body, Basic Books, New York. La biologa, in relazione al menzionato articolo su nature.com, fa notare, tra l’altro, come in esso sia stato totalmente oscurato il fatto che le scoperte della genetica e della biologia sulle differenti forme e possibilità dello sviluppo sessuale non siano una nuova e recente scoperta di questi mesi, ma si trovino già e poggino su ricerche pionieristiche che risalgono ormai a decenni fa. Allo stesso modo risulta invisibilizzato il lavoro di informazione, testimonianza e divulgazione scientifica portato avanti dalle stesse persone intersex/dsd, esperte e attiviste: «Giving credit and showing chains of knowledge are part of doing science journalism in an ethical and professional manner. It does a disservice to science to pretend that all the ideas come from scientists in the current moment. The ideas in this article come from intersex activists (many of whom some of the scientists you do cite knew and worked with) as well as historians of science and biologists such as myself. Feminist theory also contributed to the growth of these ideas. Biology is not an island divorced from the rest of academia or society. It is not great journalism to pretend otherwise» (in C. Ainsworth, op. cit.); Blackless M. et al. (2000), How Sexually Dimorphic Are We? in American Journal of Human Biology, 12, 151-166.
[11]Ancor più diffuse, evidenti e connaturate alla specie le forme di intersesso e di ermafroditismo nel mondo animale, che viene distinto in ‘simultaneo’ (tra gli invertebrati come le lumache marine e terrestri, le spugne, le madrepore, i coralli), e ‘sequenziale’ (come in alcuni pesci e volatili); Martino G. (2014), In crisi d’identità. Contro natura o contro la natura?, Mondadori Università, Milano.
[12]Come indica in modo molto efficace un poster creato da un’attivista intersex di Organisation Intersex International Australia: “The fact that the binary sex system is a fiction is written in the bodies of intersex people”, https://oii.org.au/3166/binary-sex-system/, ultimo accesso 22 Febbraio 2015.
[13]Per le pratiche di eliminazione della diversità di sesso tra gli animali cosiddetti ‘domestici’ e quelli ‘da reddito’ e le persone con tratti intersex rimando a G. Davis (2013), “Standing with Susie the Dachshund”, in http://msmagazine.com/blog/2013/05/09/standing-with-susie-the-dachshund/, 9 Maggio, e a M. Angelini (2012) “Dal puledro al bambino: intersessuali al margine del sistema”, http://anguane.noblogs.org/?p=791, 30 Novembre.
[14]Come evidenziato dalle organizzazioni intersex internazionali la percentuale di probabilità di formazione di tessuto tumorale nelle gonadi di persone con tratti intersex è variabile a seconda del tipo di variazione, ma la pratica delle asportazioni routinarie avviene nonostante l’incidenza tumorale sia inferiore a quella del tumore al seno per la popolazione femminile, che però, come ben sappiamo, non viene sottoposta ad asportazione preventiva dei seni.
[15]Tali protocolli si son affermati e diffusi sotto l’influenza delle sperimentazioni dello psicosessuologo John Money e della sua équipe che teorizzava la neutralità psicosessuale dell’infante e riteneva che il suo “sano” sviluppo dipendesse primariamente dall’aspetto dei genitali e da una chiara educazione al genere assegnato entro il secondo anno di età.
[16]Relazione per la Conferenza Healthcare Pathways for intersex, trans and gender diverse young people, Geelong Victoria, October 2013, https://www.youtube.com/watch?v=2Q8hbmtiomc.
[17]Molto significativa la recente intervista ad un chirurgo pediatra finlandese, Mika Venhola che afferma: «If you give a surgeon a hammer, every problem is a nail. And I’m trying to see the screws also». E ancora: «Why operate on the child’s body if the problem is in the minds of the adults?», https://www.youtube.com/watch?v=riNtxjntqZE&spfreload=10, 14 marzo 2015.
[18]Nel Giugno 2008, alla vigilia del Pride nazionale a Bologna, Antagonismo Gay e il Laboratorio Smaschieramenti organizzarono il primo Intersex Pride in Italia (http://www.facciamobreccia.org/component/option,com_events/task,view_detail/agid,34/year,2008/month,6/day,27/Itemid,73/, ulimo accesso 14 marzo 2015).
[19]Minuscolo per volontà della stessa pattrice jones.
[20]http://www.intersexioni.it/lintervento-di-pattrice-jones-a-firenze/, ultimo accesso 14 marzo 2015.
[21]Si tratta di incontri annuali di riflessione sulle teorie e le pratiche antispeciste e di liberazione animale.
[22]http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=214:soggetti-politici-e-diritti-lo-status-di-chi-non-deve-esistere-di-egon-botteghi, ultimo accesso 14 marzo 2015.
[23]Proprio su invito e sollecitazione di Michela Angelini alcune di noi hanno contribuito a modificare ed integrare quella proposta di legge (scritta da Avvocatura per i diritti LGBTI Rete Lenford) agli inizi dell’inverno 2013, lavoro collettivo che ha preceduto e contribuito alla formazione del collettivo intersexioni.
[24]http://parlamento17.openpolis.it/atto/documento/id/6267; http://disegnodilegge405.blogspot.it/ ultimo accesso 14 marzo 2015.
[25]http://www.intersexioni.it/wp-content/uploads/2014/04/liberazione_generale.pdf
[26]Purtroppo però non sembra che si sia ancora riuscite ad ottenere che la lotta per i diritti umani delle persone intersex entri nell’agenda del movimento per la liberazione animale italiano.
[27]http://it.vegephobia.info/ , ultimo accesso 14 marzo 2015.
[28]http://www.antispecismo.net/index.php?option=com_k2&view=item&id=384:siamo-tutte-frocie-mettere-a-frutto-il-potenziale-queer-del-veganesimo-di-egon-botteghi, ultimo acceso 14 marzo 2015.
GYNEpunk: LABginecologici autonomi
Questa bio-riCERCA è parte dei tentacoli del laboratorio TransHackFemminista Pechblenda [1], mescolato con la ricerca autonoma di Anarchagland: da questa mescolanza è sbocciato il germe dei bio-lab GynePUNK.
INTRO/MAGIA
Le istituzioni mediche utilizzano tecnologie inquietanti spaventose e proibitive, oscure metodologie conservatrici e patriarcali per produrre diagnosi, leggerne i risultati e applicare i propri trattamenti vivisezionanti. E’ in particolare in ginecologia che tutto ciò si incarna in un’attitudine inquisitoria, paternalista e fascista.
Per fare un maledettissimo esame per la candida o la gardnerella, solo per fare un esempio, non sembra sufficiente doversi sottoporre alle tortuose sale di attesa di un CAP (consultorio pubblico), o essere costrett* a rispondere a formulari burocratici e statistici (come un vomito che si accumula) che interpretano il ruolo di giudici popolari delle tue pratiche, capacità o scelte. Domande pruriginose, piene di perverso disprezzo moraleggiante, alla ricerca di dati sulla tua promiscuità, uso di droghe, orientamento sessuale, pratiche igieniche o relazione con gli squat… solo in base alla tua apparenza! Per non menzionare l’aborto, oramai è come parlare di stregoneria! Un anacronismo politico!
Il controllo tecnico della diagnosi genera estrema dipendenza al tradizionale profondo gap di conoscenza. L* pazienti sono rappresentat* come schiav* ignoranti delle tecnologie di diagnosi da laboratorio che spediscono messaggi che possono essere letti e tradotti solo dai medici che, possedendo una sorta di oracolo clinico, sono custodi dell’unica sacra verità.
Ma… per alcuni test non c’è bisogno di macchinari high tech! E nemmeno di un dottorato in chirurgia microbiologica per fare diagnosi accurate e coscienti.
Non voglio essere costrett* a entrare nei loro templi igienisti, nelle loro velate prigioni, in quelle fabbriche di standardizzazione corporea e di limitati parametri della malattia. Voglio eretiche ghiandolari, akelarres gynepunks, laboratori e pentoloni abortivi DIT (Do It Together), gang di ostetriche, aborti glitter, spruzzi di placenta in ogni angolo, tecniche di analisi hacker, effimeri biolab DIY (Do It Yourself) e DIT, segreti asili cooperativi high tech, camici neri, a scacchi… Autoestraiamo e doniamo il nostro sangue, attraversiamo come un fiume vulcanico fatto della nostra stessa rabbia le porte del fottuto Parlamento! Gynepunk è un estremo e accurato gesto per strappare il nostro corpo alla dipendenza compulsiva dalle strutture fossili della macchina sanitaria egemonica.
L’obiettivo di Gynepunk è quello di far emergere laboratori e tecniche accessibili di diagnosi DIY/DIT in forma di sperimentazione spinta, sulle rocce o negli ascensori se serve. Dobbiamo farlo in un luogo stabile e/o in un laboratorio nomade. Dobbiamo poter fare tutto quello che VOGLIAMO: intensa decodifica corale, rituali vudu di autocura. In questo modo altri gynepunk fermenteranno e muteranno accelerando verso un movimento esplosivo e espansivo di esperimenti radicali, di forza e sicurezza collettiva, per costruire la nostra politica del corpo. Qualcosa che sia vitale condividere e diffondere in infiniti pandemoni.
Nessuno può bruciarci! NESSUNO! ORA le streghe hanno le fiamme!
BIO/AUTONOMIA
Deprogrammarci dalla regolazione del sistema medico egemonico non è un compito facile. Superare secoli di manipolazione e politiche di dominazione erette intorno alla salute è una grande sfida, qualcosa che può e deve essere costruito continuamente, cocciutamente, in modo creativo e attivo.
L’estremo attaccamento alle infrastrutture della dipendenza che perpetuano la violenza medica istituzionale è stato fondato sul “benessere normativo”, ma non è null’altro che una dittatura corporea neoliberale, imperialistica e farmacocratica. Le istituzioni hanno bisogno di mantenere la gerarchia dei saperi, perpetuare l’ignoranza sui corpi, invalidare, annullare e screditare tutto quello che impariamo direttamente dai nostri corpi.
Movimenti forti e potenti stanno crescendo come risposta, come memoria, come tessuti sociali rizomatici che devono essere rinforzati: la ginecologia naturale delle ostetriche Doulas (intensa circolazione di zine anarcofemministe autoprodotte), maternità sovversive (con una visione critica sul sistema dell’ostetricia medicalizzata e dell’infantilizzazione della gravidanza), biohacking (riappropriazione della tecnologia attraverso la ricerca, la sperimentazione collettiva, l’hacking lowtech).
INFRASTRUTTURE
La jugaad (termine hindi-hurdu colloquiale) è una tattica di sopravvivenza, mentre l’hacking è una forma di arte: ossia, la jugaad è lo stratagemma del povero, mentre l’hacking il passatempo del benestante cervellotico. La jugaad è una forma di hacking che fa i conti con risorse mancanti o limitate e ha una componente di classe: sono le cose che le persone povere ma intelligenti fanno per tirare fuori il massimo dalle risorse che hanno a disposizione. Fanno quello di cui hanno bisogno, al di là di ciò che si suppone sia possibile.
E’ necessario agire un cambiamento radicale nel nostro modo di relazionarci alle tecnologie che ci circondano, rifiutando l’invito a essere consumatori di salute, pedine del mercato della salute col suo profitto sulla sperimentazione e la sua competizione controllata. Per respingere l’alienazione, dobbiamo decostruire i comportamenti oppressivi e le pratiche dominanti, e sviluppare macchine alternative egualitarie e collettive come parte della nostra pratica quotidiana. In fondo un test di laboratorio non è altro che una procedura secondo cui un campione di sangue, urina o altro fluido corporeo o tessuto è esaminato per ottenere informazioni sulla salute di una persona.
Un esempio concreto è quello della prova dell’aceto per individuare il cancro alla cervice, che si usa nei paesi “in via di sviluppo” – dicono – ovvero nei paesi dove il laboratorio superattrezzato e la preparazione accademica richiesta per gestire questo laboratorio semplicemente non sono uno scenario possibile. La prova si conduce applicando aceto sulla cervice. Dopo un minuto il collo dell’utero si può esaminare a occhio nudo utilizzando una lampada. Se il tessuto diventa bianco è sintomo di cellule maligne o pre-maligne, mentre se il tessuto uterino è sano non si produce nessun cambio di colore.
GaudiLAB: materiale da laboratorio open source
Per avviare un laboratorio indipendente e aperto è fondamentale procurarsi materiale da laboratorio a buon mercato. La maggior parte delle cose che utilizziamo sono Do It Yourself e open source e sono costruite riciclando pezzi provenienti da prodotti di consumo come lettori DVD, hard disk e ventole per pc, facilmente reperibili. Costruire specifici dispositivi aiuta a comprendere i principi base del loro funzionamento e imparare di più a proposito delle tecnologie e dei metodi utilizzati. Le discussioni tra ingegneri e scienziati impegnati a rendere tali dispositivi più accessibili sono molto fruttuose e spesso portano a progetti innovativi.
La Bioautonomia è possibile in ginecologia, urologia, ostetricia (ostetricia/ginecologia e uro/ginecologia), ematologia, endocrinologia, in caso di vaginiti (vaginiti batteriche, candida, trichomonas), endometriosi, malattie sessualmente trasmissibili (gonorrea, clamidia, herpes, sifilide, papillomavirus umano, sindrome da immunodeficienza acquisita/HIV, epatite B), infezioni del tratto urinario, cistiti, ormoni, ghiandole esocrine, aborto, estrazione mestruale.
Scienza/decolonizzazione viscerale
Dobbiamo creare cornici critiche e immaginifiche per la resistenza politica e la trasformazione sociale da una prospettiva femminista che si basi sulla comprensione situata della colonizzazione e del colonialismo, degli imperi e dell’imperialismo e che esplori i modi in cui questi danno forma alla nostra esperienza e alla nostra comprensione situata dell’eteronormatività, del razzismo nazionalista e comunitario, della violenza di stato.
Rinominare è creare narrative, strumenti di autosufficienza, recuperare il potere di guarirci, riprenderci il sentimento di confidenza basato sul nostro passato, sulla nostra storia messa a tacere, sulle pratiche assorbite, occulte. Rivitalizzazione culturale effettiva. Decolonizzare è il nostro diritto a dissentire, come un atto di autopreservazione.
Dal sito Anarchagland.hotglue.me
Questo è un grido viscerale. Un esercizio radicale di riappropriazione I/O, inside/out, una chiamata radicale contagiosa di memoria.
Stuf* della colonizzazione del corpo!
NON VOGLIO CHIAMARE LA GHIANDOLA CHE MI FA EIACULARE FIUMI DI PIACERE con il nome di un tipo che sostiene di aver “scoperto” una parte del mio corpo!
ANARCHA era una schiava nera che soffrì sul suo corpo gli esperimenti senza anestesia del sadico idolo di skene… sims
LEI E SOLO LEI può nominare la mia carne.
MEMORIA.
LA SUA carne è la MIA carne.
Ciò che mi permette di squirtare merita un corpo che sia alla sua altezza.
MORTE alla denominazione patriarcale del teatro medico colonialista!
MAI PIÙ ghiandola di skene…
D’ORA IN AVANTI: GHIANDOLA DI ANARCHA! [2]
[1] L’ultimo accesso a questo come a tutti i siti qui elencati è stato effettuato il 14 marzo 2015
[2] Sulla storia di Anarcha e sulle sperimentazioni praticate dal medico bianco J. Marion Sims in Alabama su schiave intorno al 1840 si veda http://anarchagland.hotglue.me/?story_her/. Sims è anche conosciuto per l’invenzione dello speculum oggi usato in ginecologia. Si veda anche l’Anti-Archivio di Anarcha http://anarchagland.hotglue.me/?links_redes
POLIEDRA
Fare come al Paroliere. Un incontro con Fabrizia Di Stefano
Con Fabrizia ci incontriamo a Monteverde, andiamo a pranzo insieme in un’Osteria romana deliziosa.
Abbiamo pensato ad un’intervista con lei in questo numero per il suo libro di teoria queer e per la costante relazione che DWF ha mantenuto con lei in varie occasioni di incontri politici. Le ho scritto una mail con alcuni spunti di riflessione, come delle suggestioni generali sulle quali avrei voluto dialogare con lei. Le chiedevo se parlare di salute queer, di esperienze di cura autorganizzate, ci potesse dare uno spunto anche teorico per riflettere sui corpi queer e se, a partire dai corpi, potesse avere senso ritrovare un corpo queer politico collettivo.
Dalla prima volta che ci siamo incontrate, ormai almeno tre anni fa, ho sentito una grande sintonia con Fabrizia. Mi perdo sempre durante i suoi discorsi, ma il senso complessivo di ogni chiacchierata mi arriva alla fine in modo definito e chiaro. Parlare con Fabrizia mi fa entrare in una strada di campagna in cui solo i contorni degli alberi, dei pochi animali, degli odori dell’erba tagliata, restituiscono l’esperienza di essere proprio lì, su quella strada, in quel posto. E non da qualche parte perduta. Sapevo che sarebbe stato così anche questa volta, e le nostre parole insieme, le sue in particolare, sono una pratica queer: una vertigine di suggestioni (non a vanvera), anche molto complesse («mia cara» – penso spesso – «se solo avessi letto tutto quello che hai letto tu…»), alla fine delle quali c’è una possibilità di senso. La pratica di parola e di analisi queer di una questione ci mette a rischio: c’è una possibilità non indifferente di arrivare al nulla, di aver camminato per ore senza arrivare al torrente, o al rifugio, ma è un rischio divertente. Con Fabrizia mi diverto sempre – è la sua ironia sicuramente a fare questo effetto – anche quando affrontiamo i nostri drammi d’umanità.
Date queste premesse non era possibile che tra me e lei ne uscisse un’intervista convenzionale. Quello che riporto è una sintesi di un dialogo politico. Inserirò in corsivo le parole di Fabrizia che daranno corpo alla mia sintesi, che rimane ovviamente parziale.
Fabrizia comincia subito a parlare a partire dal suo libro.
Quando ho cominciato a scrivere il libro, pensavo di intervenire nel dibattito queer, focalizzando questo tema del corpo e sottoponendolo alla discussione del pensiero filosofico e psicoanalitico europeo… poi siccome la scrittura va oltre le intenzioni che tu hai, anzi che poco te se fila… la cosa che mi ha sorpresa di più è stata la scarna, scarsa, o nulla adesione del milieux intellettuale queer, anche solo per una semplice interlocuzione, e il fatto invece che abbia visto moltiplicare interesse da settori che non immaginavo proprio, come il teatro.
Giovanna Giuliani ha tratto uno spettacolo teatrale dal libro di Fabrizia, Don Giovanna. Il corpo senza qualità, che ha girato in tour in molti festival teatrali italiani. Io stessa l’ho visto rappresentato alla Casa Internazionale delle Donne di Roma due estati fa, trovandolo non solo molto bello, ma anche spiazzante, perché riusciva a mettere in scena l’essenza del libro senza mai sovrapporsi al suo registro stilistico, rendendo così il testo teorico-filosofico un divertente canovaccio per uno spettacolo teatrale. Ora mi racconta anche che una sua amica che lavora nel teatro da molto tempo sta costruendo uno spettacolo sempre a partire dal libro, completamente diverso da quello di Giuliani. Mi sembra molto bello che un saggio così complesso e teorico possa essere stato uno spunto per la costruzione di due rappresentazioni teatrali, un notevole spostamento. Tuttavia mi domando, e le domando, come mai secondo lei il Corpo senza qualità non è diventato un punto di riferimento né degli studi queer, né dei movimenti. C’è una parte di me che sa come molti testi teorici, soprattutto quelli complessi – e onestamente anche difficili, come il suo – che tengono insieme molti piani, vengano riscoperti molti anni dopo dalla loro pubblicazione: arriva poi il momento della rilettura, del “lo dicevamo già da tanti anni”, e il “come era all’avanguardia quel libro”. Ma esiste anche una verità più profonda legata al fenomeno di fortuna nella trasmissione dei testi, e la strada me la indica Fabrizia stessa.
A un convegno del movimento transessuale, al quale tra l’altro ero invitata come relatrice, il mio libro non è stato affatto citato tra le fonti del movimento transessuale, nonostante nel libro di transessualità si parli molto… Però poi ho capito: come in molti movimenti, direi giustamente, anche in quello queer, le fonti più usate sono atti di convegni, seminari, più che i libri. Si tiene molto conto della discussione nel momento.
Della materia, prima che diventi forma.
Mi dispiace che del mio libro, per esempio, non è stata ripresa nel dibattito quella parte in cui parlo di autoginefilia, cioè di un modo di vivere la trasformazione del corpo in modo un po’ solipsistico, che porta alla frigidità, alle difficoltà di relazione, al fatto che sei solo tu e lo specchio, che è esattamente la versione del corpo nuovo che proprio vorrei evitare.
Quest’ultima frase mi colpisce molto, e le chiedo quindi di approfondire: condivido, infatti, il timore, se si rimane solo sul proprio desiderio, di onnipotenza della mente nella possibilità di modificare il proprio corpo.
È un’assunzione dell’altro dentro di sé, è un modo di considerare il rapporto con l’altro che non mi piace. Il rapporto con l’altro non lo devi risolvere per via breve con dei trucchi epistemici o filosofici. L’altro è sempre l’altro, sostanzialmente inassimilabile, con cui tu hai a che fare proprio in quanto inassimilabile, sennò è un trucco filosofico bello e buono. Da questo punto di vista bisogna uscire dalla filosofia. Sennò, se è così, mi conviene rimanere hegeliana!
Le controbatto però che un certo modo di esaltare questo trionfo dell’individuale appartiene, nel mio sentire, ad uno degli aspetti anche molto affascinanti della teoria queer. Quella parte eternamente adolescente che non vuole fare compromessi, che scansa sempre il rischio della normalizzazione.
È una cosa, infatti, che comprendo. Il problema è che ne è stata fatta una “sostanza”, non una “necessità” – per usare termini della filosofia tomistica –, che sia diventato un elemento esaustivo. È come quando dici “Il corpo è mio e me lo gestisco io”, che è una mossa inaugurale essenziale, ma se poi tutta la vita passi a ripetere ‘sto mantra, vuol dire che il rapporto con l’altro non scatta mai. Sei completamente chiusa in te stessa.
Aggiungo, quasi come un sospiro, sei anche molto sola!
Tra corpo e prospettiva di liberazione c’è una strada di “mediazione” che è quella adottata dalle femministe più concentrate sui diritti. Io mi sono sempre rifiutata di fare questo esercizio un po’ sciocco di sputare sui diritti, perché il problema è la rivoluzione culturale, così nel frattempo ce li hanno levati tutti… però la politica dei diritti è limitativa, perché è tutta prigioniera dell’immaginario. Sarebbe necessario trovare un’articolazione che non sia una semplice mediazione tra corpo e liberazione… il problema è che ti restituisco questo a livello di enunciazione, neanche ad un’abbozzata soluzione.
Non lo so neanche io.
Parliamo ora di salute. Subito ride quando le svelo il titolo di questo numero di DWF (Tutta Salute!, appunto). Come si può, mi chiedo e le chiedo, mettere insieme quell’eterno ragazzino o ragazzina che è una parte del queer, che sta tutta sul presente, sul qui e ora, che è disposta anche a teorizzare il No Future, con la costruzione di forme di assistenza medica?
Vuol dire che da quando il queer è nato, le persone che lo hanno fatto, ora si sono fatte grandi. E alla fine la biologia, anche se un po’ relativizzata, rientra sempre in campo. Se ti senti male, per esempio, non pensi più. Un mal di denti, un mal di testa, ti impedisce di pensare.
Il corpo quando urla fa deperire il pensiero.
Per lo stesso identico motivo la famiglia è un’istituzione duratura nel tempo: perché malgrado l’evidenza per cui non si fa altro che morire da soli, a nessuno piace morire solo, per questo si vuole la famiglia.
Morire, o essere malati, aggiungo.
Che il movimento queer stia sulla traccia della cura non mi rende contenta. Poi me ne do delle spiegazioni, ma fino a che c’ho un po’ di fiato vorrei avere la capacità di rilanciare. Cioè, se dobbiamo essere un sanatorio dove si pensa oltre che farsi le iniezioni, non è che mi renda felice! Preferirei altro.
Mi viene in mente che forse le condizioni materiali delle vite delle persone ritornano ad essere urgenti, così come lo erano agli albori del movimento queer. Forse, penso, nel qui e ora, è urgente costruire delle istituzioni alternative di welfare fondate su principi diversi dalla classica assistenza. Fondate piuttosto su sistemi di mutualismo, di supporto reciproco, di gratuità e che non richiedano di essere dei soggetti che rientrano dentro le tabelle di classificazione medica. Le dico questo – e ne sottolineo il potenziale – ma al tempo stesso le confesso i miei dubbi: in questo sistema democratico io vorrei ancora che ci fossero delle istituzioni di welfare. Non voglio che il problema della salute e della cura stia sulle spalle dei singoli e delle loro comunità di riferimento. Vorrei non dover sostituire lo Stato dove lo Stato latita. Al tempo stesso, proprio a partire dalle urgenze delle persone, capisco benissimo che questi atti di costruzione diventano forme di resistenza fondamentali.
Come ho scritto nel libro Queer in Italia, un aspetto che ritengo ancora fondamentale del queer è che si può rifiutare di scegliere tra libertà e democrazia – e quindi tra morte e sopravvivenza. Perché è vero che la libertà pone in campo la morte. Quando c’è una pratica di libertà affermativa molto forte è chiaro che la sfida riguarda la vita stessa. Mentre la democrazia è …la libertà per tutti in una rete di relazioni che assicura più o meno la sopravvivenza. Cosa vuol dire allora rifiutarsi di scegliere tra i due piani? Tutto ciò può portare a un bel niente oppure può portare alla creazione di alcuni spazi. Tutte le volte in cui i movimenti si rimettono in una posizione di scegliere è sempre perdente… io mi rifiuto di dire a due gay o lesbiche che si vogliono sposare che non lo devono fare, perché devono essere un soggetto rivoluzionario. Non mi passa nemmeno per la testa. Tante amiche transessuali, lesbiche, si oppongono al matrimonio. D’altronde lo fa anche Giovanardi… è una situazione un po’ anomala! Bisognerà trovare un modo per uscirne.
Bisognerà fare come al paroliere, le dico ridendo. Penso a quando si scuote la scatola con le lettere e si deve ricominciare a trovare delle parole sensate seguendo dei piccoli sentieri che appena li percorri ti svaniscono sotto i piedi.
Non mi posso trovare stretta. Per questo il nodo tra libertà e democrazia è un nodo fondamentale ancora oggi. Se nella pratica delle relazioni riusciamo a tirare fuori qualcosa che non sta o nella libertà o nella democrazia, allora lì, sì. Certo penso ancora che delle istituzioni se ne debba occupare lo Stato. Se poi noi siamo in grado di creare delle istituzioni che non hanno quella pretesa di eternità….
Ci perdiamo poi in altri discorsi, dall’Isis a Marx, da Charlie Hebdò alle istituzioni familiari. Poi le chiedo, un po’ all’improvviso: «Com’è un corpo queer che invecchia?»
Non esiste un corpo queer che invecchia. Ogni corpo è diverso. Può esistere un modo queer di invecchiare.
«Qual è allora un modo queer di fronteggiare un corpo che invecchia?»
Ti posso dire il mio che è all’insegna di una certa rassegnazione, inerzia, e mi aggancio al fatto che con la testa posso sempre rilanciare qualche cosa. Posso non esistere solo nel subire, ma essere nel pensare. Se fossi stata un’artista ti avrei risposto in altro modo, perché avrei avuto la creatività, che è proprio un’altra cosa rispetto al pensiero.
Finiamo di mangiare con due dolci, spettegoliamo un po’, ci salutiamo con un abbraccio. Spero che in questo caso la scrittura un po’ mi si sia filata!
Il Postumano nella Teoria Femminista
È comunemente accettato che il femminismo europeo, nelle sue versioni liberali come in quelle socialiste, si possa ricondurre a valori e ideali umanisti. Dall’Illuminismo, la spinta attivista e le aspirazioni egualitarie dei movimenti delle donne hanno informato molteplici riforme della società, che hanno influenzato anche le sfere della legge, della morale, del sapere accademico e della produzione scientifica, al fine di tenere più adeguatamente in conto l’esperienza e le preoccupazioni delle donne. Le passioni politiche e le epistemologie innovative dei movimenti femministi, tuttavia, non si sono mai concentrate esclusivamente sugli interessi delle donne, bensì erano promotrici di chiari progetti per il miglioramento della condizione umana nel suo insieme. In tal modo, i movimenti delle donne hanno rinnovato l’accezione comune dell’unità di riferimento basilare per la nostra condivisa umanità. Erano dunque umanisti a un livello quasi viscerale, dal momento che intendevano la liberazione delle donne come liberazione umana.
Questa connessione intrinseca all’Umanesimo, tuttavia, non si è mai data senza distanza critica (Soper 1986). Soprattutto a partire dalla seconda ondata femminista degli anni Settanta, la produzione di conoscenza femminista e interdisciplinare ha denunciato l’universalismo, la struttura binaria del pensiero e della visione teleologica del progresso, insiti nel progetto umanista di emancipazione umana. Negli ultimi trent’anni, sotto l’influenza di post-strutturalismo e decostruzionismo, l’onda anti-umanista ha ridefinito il rapporto tra il femminismo e l’Umanesimo.
L’argomento che voglio difendere in questo saggio è che sia l’eredità umanista sia la reazione anti-umanista sono fonti genealogiche molto importanti per il femminismo postumano, ma non sono certo le uniche. L’esplicito anti-umanesimo proprio delle teorie francesi poststrutturaliste degli anni Ottanta, ad esempio, pone le basi per nuove forme di postumanesimo, ma non esaurisce la gamma di diverse prospettive postumaniste oggi in circolazione. Proprio come la temporalità delle filosofie femministe è molteplice e complessa, le traiettorie del postumano non sono lineari, né si escludono reciprocamente.
In questo capitolo, per prima cosa illustrerò i tentativi femministi di emancipare il femminismo dall’Umanesimo classico; quindi indagherò le radici molteplici del femminismo postumano, e in conclusione esporrò le caratteristiche principali della teoria femminista postumana odierna.
Oltre l’umanesimo
La seconda ondata femminista si è confrontata in modo molto radicale con l’eredità dell’Umanesimo, che costituiva il suo fondamento storico. Ad esempio, con il suo testo spartiacque del 1983, Alison Jaggar ci fornisce una delle prime tassonomie della filosofia femminista: Feminist Politics and Human Nature. Jagger ha introdotto una classificazione delle principali scuole di pensiero femministe, socialiste, marxiste, liberali e radicali, e ha indagato le rispettive ridefinizioni di cosa e chi conta come umano. Nonostante il termine “Umanesimo” non ricorra molto spesso in quest’opera canonica, l’idea di superare i concetti ereditati dell’umano è parte integrante del programma politico e teorico di Jaggar.
L’opera monumentale di Simone de Beauvoir (2008) aveva già posizionato l’umanesimo femminista come strumento laico di analisi critica, fonte di responsabilità morale e motore di libertà politica. Influenzata dalla filosofia marxista della storia e della liberazione, e al contempo capace di andare oltre, Beauvoir rimane profondamente razionalista. Non ha mai messo in discussione la validità della ragione universale, bensì ha declinato l’universalismo umanista in una cornice socialista e impiegato i suoi strumenti concettuali per criticare il trattamento riservato alle/gli “altre/i” svalorizzate/i, a partire dal secondo sesso fino all’umanità nel suo complesso. Questo universalismo umanista, insieme alle analisi fenomenologiche di Beauvoir dell’esperienza vissuta delle donne, e al metodo socio-costruttivista, ha posto le basi per l’ontologia politica femminista del XX secolo. Le idee chiave sono: il principio femminista umanista per cui “La donna è la misura di tutte le cose” e per cui una filosofa femminista per essere responsabile per se stessa necessita di essere responsabile della situazione di ogni donna. Emerge quindi un’umanità femminile, dotata di valenza universale. Questo comporta a livello teoretico una sintesi produttiva di sé e altro da sé e a livello politico un legame di solidarietà tra donne, che la seconda ondata femminista negli anni Sessanta ha trasformato nel principio della sorellanza politica.
La connessione con il socialismo umanista era caratteristica anche dei pensatori anticolonialisti, postcoloniali e antirazzisti della prima metà del XX secolo. Essa ha svolto un ruolo significativo nei movimenti di liberazione nazionale di tutto il mondo, soprattutto in Africa e in Asia, come testimoniano La condizione umana (1934) di André Malraux e più di recente la vita e l’opera di Nelson Mandela (2008).
Una scuola non europea piuttosto coerente di Umanesimo liberatorio è rappresentata nel secolo precedente da Toussaint l’Ouverture, Franz Fanon e Aimé Césaire, oggi dal lavoro di Edward Said e Paul Gilroy, Vandana Shiva (1988) e altre/i.
Nella mia valutazione critica, il femminismo umanista ha raggiunto un duplice risultato: ha inventato un nuovo genere di scrittura accademica e pubblica e ha introdotto nuovi concetti fondamentali. Tra questi nuovi concetti, cruciale è la nuova accezione di materialismo, del genere come incarnato e situato (Braidotti 1994, 2014). Il focus sulle soggettività femminili incarnate funge da premessa per una nuova e più accurata analisi del potere. Essere-donne-nel-mondo è il punto di partenza per ogni riflessione critica sulla condizione dell’umanità e per una prassi politica elaborata in comune.
Il principio per cui la liberazione delle donne implica la liberazione umana innesca una miscela di critica e di creatività, di pensiero critico negativo e immaginazione utopica. Joan Kelly (1979) l’ha definita “visione a doppio taglio della teoria femminista”, che combina coscienza oppositiva e creatività potenziante, ragione e immaginazione. Questa tradizione di pensiero ha nutrito molta fantascienza femminista e ha delineato una traccia genealogica diversa per il femminismo postumano.
Il risultato immediato di questa nuova alleanza tra ragione critica e immaginazione creativa è stato un cambio di paradigma che ha portato alla proliferazione di nuovi studi femministi. Alla fine degli anni Ottanta, l’epistemologa Sandra Harding (1991) e le filosofe Jean Grimshaw (1986) e Genevieve Lloyd (1984) hanno adottato più specifiche e originali categorie di pensiero per rendere giustizia alla creatività teorica del nuovo movimento femminista (Eisenstein 1983). Le categorie di natura umana e di umano sono state sostituite da originali concetti femministi che riflettono le specificità sfaccettate della condizione femminile in tutta la sua diversità, tenendo ferma la particolare attenzione per l’esperienza vissuta delle donne. L’espressione più netta di questa attenzione è la “teoria femminista del punto di vista” (Harding 1986), che sottolinea l’incarnazione della donna, l’esperienza e la natura collettiva della produzione del sapere femminista. La teoria del punto di vista comprende una gamma molto ampia di posizioni femministe sulla differenza, e inoltre s’interseca produttivamente con il pensiero postcoloniale e antirazzista (Harding 1993; Hill Collins 1991; Alcoff e Porter 1993).
Tuttavia questa narrazione non può essere lineare, come ho detto all’inizio. Tra questi sviluppi, singolari testi dissonanti si affermano in modo autonomo, interrompendo le nuove narrazioni e diffondendo semi per futuri non previsti. Uno di questi è senza dubbio il capolavoro del 1971 di Shulamith Firestone La dialettica dei sessi, la prima tecno-utopia femminista del XX secolo.
Come tutte/i le/i pensatrici/ori della sua generazione, tra cui la stessa Beauvoir (alla quale, per inciso, il suo libro è dedicato), Firestone prende le mosse dalla visione marxista della rivoluzione fondata sulla filosofia hegeliana della storia. Al contrario delle femministe umaniste, tuttavia, conduce il programma per la liberazione delle donne fino alla logica conclusione marxista, vale a dire la realizzazione di una nuova umanità tecnologicamente potenziata e liberata dai bisogni naturali. Tra le catene naturali da spezzare vi sono in primis il dovere di procreare in modo biblico e la responsabilità sociale riservata alle sole donne dell’educazione dei figli. Firestone esorta attivamente all’impiego delle tecnologie riproduttive poiché esse potrebbero sconvolgere la famiglia borghese nucleare e liberare così le donne e gli uomini, che sarebbero allora disponibili per realizzare obiettivi migliori, quali la costruzione di un sistema sociale socialista e di un nuovo consenso sulla nozione comune di esseri umani in una società senza discriminazioni di sesso, razza e classe. Oltre che affrontare le problematiche di razzismo e sessismo, Firestone si attiva anche sul fronte dell’ecologia e dell’ambientalismo, sostenendo la necessità di un approccio radicalmente diverso al nostro habitat naturale e artificiale.
Ci sarebbero voluti quasi trent’anni perché questo radicale messaggio ambientalista, post-umanista e tecnofilo fosse ascoltato. Firestone si distingue in modo singolare come una delle iniziatrici del pensiero femminista postumano.
Le molteplici radici del femminismo postumano
Anti-umanesimo femminista
Durante gli anni Ottanta si è sviluppata una fervida corrente dell’anti-umanesimo grazie a nuovi movimenti sociali e culture giovanili: femminismo, movimento per la de-colonizzazione e movimento anti-nucleare, ambientalista e pacifista. Essi hanno sfidato i luoghi comuni della Guerra fredda e l’ipocrisia del credo nel rispetto dell’individuo e nella ricerca della libertà delle democrazie occidentali, ma non hanno lasciato indenne l’Umanesimo marxista della sinistra tradizionale. Edward Said ha sottolineato (2007) che nel corso degli anni Sessanta e Settanta negli Stati Uniti l’anti-umanesimo si è sviluppato grazie al rifiuto e alla resistenza alla Guerra del Vietnam.
L’Umanesimo ? nella sua versione liberale come in quella socialista ? è stato messo prima sotto esame dalle femministe radicali e in seguito dalle femministe della differenza, per i suoi tratti androcentrici, escludenti, gerarchici ed eurocentrici. Esse hanno sostenuto che l’ideale umanista classico dell’“Uomo misura di tutte le cose”, comprende in sé l’idea di un’astratta perfezione corporea umana e i valori morali e politici più selettivi ed escludenti.
Michel Foucault ? un maestro del miglior anti-umanesimo ? (1967) ha criticato il concetto umanista di cosa conta come “umano” nell’umanità, riconnettendolo alla nozione sovrana di ragione, intesa come razionalità illuminista e progresso guidato dalla scienza. La fede nei poteri unici e implicitamente morali della ragione umana costituisce il fulcro del credo umanista, che intende la superiorità europea come uno standard sia per gli individui sia per le loro culture. L’umanesimo è così diventato un modello egemonico di civilizzazione, in cui l’Europa coincide con i poteri universalizzanti della ragione. Questo fa dell’eurocentrismo qualcosa di più di una questione di atteggiamento contingente: si tratta di un elemento strutturale della nostra pratica culturale, radicato sia nelle teorie sia nelle pratiche istituzionali pedagogiche.
Due sono le nozioni che orientano l’anti-umanesimo: il rifiuto dell’universalismo e la critica del pensiero binario e gerarchico. L’universalismo del paradigma eurocentrico dell’“Uomo” si fonda su radicati dualismi. Ciò implica la dialettica tra sé e altro, e la logica binaria di identità e alterità che distribuisce le differenze lungo una scala di rapporti di potere asimmetrici. In questo modo la “differenza” viene ridotta a “svalorizzazione”. Essa indica inferiorità e dequalificazione socio-simbolica. Le/gli altre/i, umane e non, rappresentano il polo della differenza negativa. Sono le/gli altre/i sessualizzate/i, razializzate/i e naturalizzate/i, le donne e le soggettività LGBT, le/i nere/i, post-coloniali e non europee/i, ma anche gli animali, le piante e le/gli altre/i terrestri, che vengono ridotte/i allo stato inferiore all’umano di corpi “a disposizione”.
La norma dominante del soggetto ? l’Uomo dell’Umanesimo classico ? è stato posizionato al vertice di una scala gerarchica che premiava l’ideale del “zero gradi di differenza”. Questa norma è utilizzata per giustificare il dispiegamento della violenza epistemica e sociale che colpisce le/gli altre/i, la cui esistenza è priva di tutele. Poiché in Europa e altrove la loro storia è costellata di esclusioni letali e svalorizzazioni fatali, queste/i “altre/i” sollevano le problematiche cruciali del potere, della dominazione e dell’esclusione.
Femminismo poststrutturalista
La “morte dell’Uomo”, annunciata da Foucault (1967) formalizzava una crisi morale che si estendeva oltre le opposizioni binarie, tagliando in punti differenti lo spettro politico. Con il sopraggiungere della svolta poststrutturalista, i teorici presero di mira l’arroganza umanista di continuare a porre l’Uomo al centro della storia mondiale. Addirittura il marxismo, in veste di principale teoria del materialismo storico, ha continuato a definire il soggetto del pensiero europeo come univoco ed egemonico e ad assegnargli (il genere non è una coincidenza) il ruolo regale di motore della storia umana. L’antiumanesimo consiste nel disconnettere l’agente umano dalla sua posizione universalista, richiamandolo a rendere conto, e a spiegare, le azioni concrete che sta intraprendendo. Una volta che il soggetto, in precedenza dominante, si è svincolato dalle sue delusioni di grandezza e non è più il presunto responsabile del progresso storico, emergono differenti e più nitide relazioni di potere. L’ideale umanista di Uomo fu letteralmente buttato giù dal suo piedistallo e decostruito: un’intera generazione filosofica chiamava all’insubordinazione verso le tradizionali idee umaniste di “natura umana”.
Le femministe della differenza, come Luce Irigaray, hanno evidenziato che il presunto ideale astratto di Uomo, simbolo dell’Umanesimo classico, è in realtà il vero e proprio maschio della specie: egli è un lui, inoltre è bianco, europeo, proprietario e normo-dotato. Le analisi femministe della mascolinità astratta (Hartsock 1987) e della bianchezza trionfante (hooks 1981; Ware 1992; Crenshaw 1995) hanno aggiunto ulteriori critiche basate su ragioni epistemologiche e politiche.
I pensatori anticolonialisti adottarono un atteggiamento critico analogo, problematizzando il primato della bianchezza come canone di bellezza morale, intellettuale ed estetica. Essi hanno esplicitamente messo in questione la rilevanza dell’ideale umanista, alla luce delle ovvie contraddizioni dei suoi presupposti eurocentrici, ma al contempo non lo hanno completamente accantonato. Franz Fanon, ad esempio, voleva salvare l’Umanesimo dai suoi eredi europei, sostenendo che avevamo malinterpretato e bistrattato l’ideale umanista. Come Sartre scrive nella prefazione al libro di Fanon (1996) il futuro dell’umanesimo proviene dal di fuori del mondo occidentale e supera i limiti dell’eurocentrismo. La «liquidazione bellicosa delle altre culture e civiltà», è spiegata da Edward Said come «presuntuosa, non umanista, e indubbiamente frutto di una coscienza non illuminata dal punto di vista critico» (2007, p. 54). Come osserva Paul Gilroy (2000), la riduzione allo stato subumano degli altri non occidentali è l’origine dell’ignoranza, della falsità e della cattiva coscienza del soggetto dominante, il quale è responsabile della loro disumanizzazione epistemica e sociale. Per estensione la pretesa universalità della razionalità scientifica è stata messa in discussione per ragioni sia epistemologiche sia politiche (Spivak 1999; Said 2007).
Le filosofe femministe della differenza sessuale si sono appropriate del concetto di differenza con il fine esplicito di farlo funzionare diversamente. Grazie alla critica della mascolinità dominante, esse hanno messo sotto esame anche la natura etnocentrica dell’universalismo europeo. Hanno affermato la necessità di aprirsi all’“alterità interna” (Kristeva 1991) in modo da ricollocare la diversità e le appartenenze multiple nella posizione centrale di componente strutturale della soggettività europea. Esse re-inquadrano la soggettività in una complessa serie di interrogativi che riguardano la classe, la razza, l’orientamento sessuale e l’età, prendendo di mira il femminismo centrato sull’uguaglianza. La domanda provocatoria di Irigaray “Uguali a chi?” (1992, pp. 11-12) può essere considerata come il grido di battaglia della generazione successiva, che ha rifiutato l’uguaglianza intesa come riduzione alla norma maschile del Medesimo.
Le femministe poststrutturaliste hanno asserito che è impossibile parlare con un’unica voce per/di donne, indigeni e altri soggetti marginali. L’accento cade invece sulla questione della diversità e delle fratture interne ad ogni categoria. Queste critiche radicali dell’arroganza umanista non sono meramente negative, ma anche creative, in quanto propongono modi alternativi di guardare all’umano da un’angolazione più inclusiva: nuove ricomposizioni dell’umanità dopo l’umanesimo.
Pianeta Haraway
Di nuovo, questa narrazione non può essere lineare. Un’altra voce dirompente negli anni Ottanta giunge a complicare il quadro, quella di Donna Haraway e del suo pionieristico Manifesto Cyborg, il primo testo di teoria femminista post-antropocentrica del XX sec. Haraway non è una pensatrice nostalgica: il suo universo concettuale coincide con il mondo high-tech dell’informatica e delle telecomunicazioni e con l’insieme post-antropocentrico delle specie da compagnia. Tra le migliori intuizioni di Haraway vi è la consapevolezza che le tecnologie stanno determinando un cambiamento qualitativo nella nostra comprensione di come l’umano si costituisca nelle sue interazioni con l’alterità non umana.
Al contrario della maggior parte dei pensatori della sua generazione, Haraway si congeda dall’antropocentrismo con anticipo e fermezza. Ella torna alla critica poststrutturalista delle opposizioni binarie e denuncia in particolare la consolidata equivalenza tra sesso femminile e natura (Ortner 1974), introducendo al suo posto il continuum natura-cultura. Ella apre la strada al dialogo transdisciplinare tra science and technology studies, politica femminista e socialista e neo-materialismo femminista. Haraway affianca alle competenze in materia di bio-scienze e tecnologie dell’informazione un programma di giustizia sociale e la critica dei soprusi capitalisti. Seguendo Foucault (1976), richiama l’attenzione su costruzione e manipolazione di corpi docili e conoscibili nel nostro sistema sociale attuale.
Haraway propone energicamente la figurazione del cyborg, inteso/a come ibrido/a, corpo-macchina. Il cyborg è un’entità in connessione, condensa in sé interrelazionalità, ricettività e comunicazione globale, sfumando le distinzioni categoriali (umano/macchina, natura/cultura, maschile/femminile, edipico/non edipico). Il cyborg permette a Haraway di pensare la specificità senza cadere nel relativismo. Le permette inoltre di capire come le femministe possono conciliare la specificità storica radicale della loro esperienza incarnata e l’insistenza sulla costruzione di nuovi valori di cui l’umanità nel suo insieme potrebbe beneficiare. Il corpo nel modello cyborg non è fisico né meccanico – neppure è solo testuale. Sostituendo in modo nuovo e potente la diatriba mente/corpo, il cyborg è un costrutto post-antropocentrico e post-metafisico che ridefinisce l’interazione tra corpi e macchine.
La figurazione del cyborg ci ricorda la necessità di una nuova ontologia politica in grado di ripensare l’unità dell’essere umano in una società senza classi, antirazzista e antisessista, tecnologicamente mediata ma ecologicamente responsabile. Affrontando la questione del razzismo e dell’oppressione patriarcale, Haraway si impegna anche sul versante dell’ambientalismo. Del resto, il sottotitolo della prima edizione del Manifesto Cyborg era Scienza, tecnologia e femminismo socialista alla fine del XX secolo.
La splendida originalità della prospettiva di Haraway ha aggiunto una nuova pagina al genere femminista della tecno-utopia. Per questa ragione, Haraway si distingue in modo singolare come una delle iniziatrici del pensiero femminista postumano.
La svolta post-antropocentrica
Alla fine degli anni Novanta, la svolta postumana nella teoria femminista ? intesa come crescente attenzione alle prospettive post-antropocentriche e consenso sull’inesistenza dell’“umanicità” (Kirby 2011, p. 233) ? ha avuto luogo in risposta alla crescente consapevolezza pubblica dei problemi del cambiamento climatico, dell’Antropocene e dei limiti della globalizzazione economica. Essa si situa al punto di convergenza tra diverse e, a volte scollegate, correnti di pensiero.
La corrente principale era interessata agli effetti collaterali multidirezionali della generazione poststrutturalista anti-umanista. L’adozione del neo-materialismo corporeo ha provocato il rifiuto del regime della dialettica della differenza, e ha permesso una visione più complessa della soggettività come dialogo aperto, entità relazionale “sé-altro”, caratterizzata da incarnazione, sessualità, affettività, empatia e desiderio come qualità fondamentali. I metodi socio-costruttivisti sono stati sostituiti dal continuum natura-cultura che, dopo Foucault, comprende il potere come forma sia restrittiva (potestas) sia produttiva (potentia).
Questa linea neo-materialista di pensiero (Braidotti 1994, 1995, Grosz 2004) ha sviluppato un chiaro discorso rispetto al non-umano, inteso come animali, terra, ma anche altri tecnologici (Haraway), facendo ulteriormente avanzare il pensiero femminista non-antropocentrico. Questo approccio si differenzia dal ramo più linguisticamente orientato del post-strutturalismo che si basa su semiotica, psicoanalisi e decostruzione (Butler 2004). Pertanto, la filosofia femminista in questo periodo apre una serie di prospettive, che considero come le pietre miliari del postumanesimo femminista.
Sviluppando le implicazioni del neo-materialismo, una giovane generazione di studiose si concentra sul corpo come processo dinamico di interazione incarnata. Le femministe “materia-realiste” (Fraser, Kember e Lury 2006) evolvono di pari passo al femminismo neo-materialista (Braidotti 1994; Dolphijn e Tuin 2012; Alaimo e Hekman 2008; Coole e Frost 2010; Kirby 2011). Ma cos’è la materia per il femminismo materialista? Le femministe deleuziane si rifanno alla filosofia monista per sottolineare l’idea che la materia, tra cui l’incarnazione umana, non è dialetticamente opposta alla cultura, né alla mediazione tecnologica, bensì è a loro continua. Il passaggio a un’ontologia politica monista mette in risalto i processi, le politiche vitaliste e le teorie non-deterministiche evolutive.
Una seconda linea genealogica emerge dalla convergenza tra gli studi scientifici femministi, quelli culturali e la teoria dei media. Gli studi di epistemologia femminista (Haraway 1990; Stengers 2000) nel corso degli anni Novanta, insieme ai cultural studies (Mc Neil 2007), hanno indagato l’impatto della tecnologia, in particolare l’ambito delle tecnologie riproduttive, sulle donne (Braidotti 1994; Rapp 2000). La convergenza tra le biotecnologie e i media è stata oggetto di studi dettagliati (Smelik e Lykke, 2008).
Le eco-femministe (Plumwood 1993, 2003) hanno aperto la strada a prospettive geo-centrate dai primi anni Ottanta (Mies e Shiva 1993) e gli animal studies appaiono dalla metà degli anni Novanta (Midgely 1996), mentre l’interesse per Darwin, che era stato latente nel femminismo (Beer 1983), aumenta alla fine del millennio (Rose e Rose 2000; Carroll 2004; Grosz 2011). Nuovi studi sulla primatologia, (De Waal 1996, 2009), hanno mostrato la natura sessuata di virtù sociali come la solidarietà e l’empatia, sottolineando il ruolo positivo delle donne nella storia evolutiva. L’attivismo vegetariano (Adams 1990; Donovan e Adams 1996, 2007) diventa veganesimo radicale (MacCormack 2014), mentre la corrente liberale si batte per estendere i diritti umani liberali agli animali (Nussbaum 2007). Sul fronte queer Alaimo (2010) teorizza confini permeabili trans-corporei tra l’uomo e gli organismi non umani.
È significativo notare come, in mezzo a tanto fervore concettuale, il genere specifico introdotto dalla teoria femminista ? la miscela di teoria e creatività ? si sia rafforzato. L’alleanza tra teoria queer e fantascienza dell’orrore rappresenta un filone in forte crescita. Dagli anni Settanta, le teoriche della letteratura fantascientifica femminista (Kristeva 1980; Barr 1987, 1993; Haraway 1992; Creed 1993) hanno sostenuto l’alleanza tra donne ? altre dall’Uomo ? altri non bianchi, non-umani (animali, insetti, piante, alberi, virus e batteri) e forze planetarie.
Questa tradizione “gotica” della teoria femminista ha una distinta inclinazione post-antropocentrica e postumanista. Essa resiste ai rapporti di potere edipici, celebrando quella che ho definito “la società delle figlie irriverenti” (Braidott 2012). Le teoriche queer, sempre alla ricerca di una via d’uscita dal sistema binario sessuale edipico, hanno equiparato il postumano al post-genere e proposto un’alleanza tra mostri extraterrestri e freak, alieni sociali e soggetti politici queer (Halberstam 1995, 2012); la queerizzazione del non-umano è processo in atto (Giffney e Hird 2008; Puar e Livingston 2011; Colebrook 2014B).
La teoria femminista post-antropocentrica contesta l’arroganza dell’antropocentrismo e dell’“eccezionalità” dell’Umano come categoria trascendentale, e affronta al contempo questioni cruciali: la soggettività umana in termini etici e politici e la specificità del linguaggio umano. Ciò comporta conseguenze metodologiche e politiche. A livello metodologico si abbandona l’approccio socio-costruttivista per adottare il monismo e le ontologie vitaliste (Ansell Pearson 1999). A livello politico, si abbraccia un diverso schema di emancipazione e politica non-dialettica di liberazione umana. Si asserisce che una soggettività politica non sia critica nel senso negativo dell’opposizione e che, nella creazione di contro-soggettività, si possa contare su ontologie processuali. L’enfasi sull’auto-poiesi, sui sistemi auto-organizzati, comporta negoziazioni complesse con le norme e i valori dominanti e pertanto anche molteplici forme di responsabilità (Braidotti 2008).
Tradire la nostra specie, del resto, non è cosa facile. La vera difficoltà nel recidere il nostro legame con l’Anthropos e nel creare forme post-antropocentriche di identificazione è affettiva: l’atto della presa di distanza critica dalla nostra specie dipende in larga misura da quanto ci sentiamo coinvolte/i in essa, così come dalla nostra relazione con gli sviluppi tecnologici attuali. Nel mio lavoro ho sempre sottolineato la dimensione tecnofila (Braidotti 2003) e il potenziale liberatorio e trasgressivo di queste tecnologie, a differenza di coloro che tentano di ridurle a un profilo conservatore, o a un sistema orientato al profitto che alimenta l’individualismo iper-consumista e possessivo (Macpherson 1962).
Ho argomentato a favore di un impiego attivista di zoe: la vita non umana come via da seguire. Gli approcci del divenire-terra (geo-centrato) o del divenire-impercettibile (zoe-centrato) rappresentano interruzioni radicali dei modelli consolidati di pensiero (naturalizzazione) e introducono una dimensione planetaria (Bonta e Protevi 2004; Grosz 2011). Tuttavia, ciò implica l’esodo antropologico, difficile emotivamente, che può comportare un senso di perdita e di dolore. Questo impegno non può essere disgiunto da un’etica e da una politica della ricerca che esige rispetto per le complessità del mondo della vita reale in cui viviamo.
Condizione postumana e politica femminista
Questi spostamenti teorici non sono avvenuti in un vuoto, ma nello spazio aperto dai rapidi cambiamenti delle condizioni del capitalismo avanzato. Prima tra queste, l’alto livello di mediazione tecnologica che sconvolge le abitudini mentali acquisite, come Donna Haraway sintetizza: «le macchine sono così vive, mentre gli umani sono così inerti!» (Haraway 1995).
Il dislocamento della centralità della soggettività umana causato dall’avvento dei sistemi di network e da tecnologie sempre più invasive è uno dei tre fattori che ha contribuito a rendere il capitalismo una forza post-antropocentrica. Esso spiega gli aspetti non umani (Agamben 1998) e le ingiustizie strutturali, l’oscenità globale (Eisenstein 1998), la bio-pirateria (Vandana 1999) e la governamentalità necro-politica (Mbembe 2003) delle guerre tecnologicamente mediate.
Come ho dimostrato altrove il capitalismo avanzato è una forza centrifuga (Braidotti 2003, 2008) che produce attivamente differenze a vantaggio della mercificazione. Esso è un moltiplicatore di differenze deterritorializzate e di opzioni quantitative. Il consumo globale non conosce limiti, il suo fulcro è il flusso controllato di beni, byte, dati e capitali. I cultural studies femministi si sono impegnati in prima linea per la critica di quest’economia politica perversa (Franklin, Stacey e Lury 2000, Lury 1998).
L’economia globale contemporanea ha una struttura tecno-scientifica, fondata sulla convergenza tra branche prima differenziate della tecnologia, in primis nanotecnologie, biotecnologie, informatica e scienze cognitive. Queste comprendono la ricerca e l’intervento su animali, semi, cellule e piante, così come sulle/gli umane/i.
Il capitalismo avanzato investe e trae profitti dal controllo scientifico ed economico e dalla mercificazione di tutto il vivente. Ciò ha portato a una forma paradossale e opportunista di post-antropocentrismo del mercato, che specula felicemente sulla vita in sé. La vita, come accade, non è prerogativa esclusiva degli esseri umani.
L’economia politica opportunista del capitalismo biogenetico causa, se non la completa scomparsa, almeno la sfumatura della distinzione tra la specie umana e le altre, dal momento che ricava profitti da loro stesse. Semi, piante, animali e batteri cadono in questa logica d’inesauribile consumo insieme a varie porzioni di umanità. Quest’equazione mette in discussione l’unicità dell’Anthropos. Ma la complessità è ancora maggiore. Il valore del capitale coincide oggi con la potenza informativa della materia vivente in sé. La capitalizzazione della materia vivente crea una nuova economia politica, che Melinda Cooper (2013) chiama «la Vita come plusvalore». Essa introduce tecniche politiche e discorsivo-materiali di controllo della popolazione di un ordine molto diverso da quello della demografia, che occupa ampio spazio nell’opera di Foucault sulla governamentalità biopolitica. Oggi noi stiamo conducendo le “analisi dei rischi” non solo su interi sistemi sociali e nazionali, ma anche su interi settori della popolazione (Beck 1999). Le banche dati di informazioni diventano centrali, anche se questa novità non elimina i classici differenziali di potere (Livingstone e Puar 2011).
L’analisi di Patricia Clough sulla «svolta affettiva» (2008) persegue una linea simile per indagare come le banche di dati bio-genetici, neuronali e mediatici degli individui riducano i corpi alla loro superficie informativa in termini di risorse energetiche e capacità vitali, livellando altre differenze categoriche. Oggi il vero capitale sono le banche dati di informazioni biogenetiche, neuronali e informatiche sugli individui, come dimostra il successo di Facebook. Il data-mining comprende profili pratici che identificano tipologie e caratteristiche, evidenziandole come obiettivi strategici per gli investimenti di capitale.
La materia è diretta da codici informativi, che utilizzano le proprie barre di informazioni, e che al contempo interagiscono in svariati modi con l’ambiente sociale, psichico ed ecologico (Guattari 1991). La soggettività umana in questo complesso contesto di forze diventa un sé relazionale ed esteso, generato dagli effetti combinati di tutti questi fattori (Braidotti 1994, 2011). La capacità relazionale del soggetto post-antropocentrico non è limitata alla nostra specie, bensì comprende elementi non antropomorfi: il non umano, la potenza vitale della Vita, ciò che ho chiamato “zoe”. Essa è la potenza trasversale che taglia e cuce specie, categorie e contesti precedentemente separati. L’egualitarismo zoe-centrato è, per me, il fulcro della svolta post-antropocentrica: è una risposta materialista, laica, fondata e concreta all’opportunistica mercificazione transpecie che è la logica del capitalismo avanzato che Haraway (2014) ha di recente definito «capitalocene».
L’accento sulla materia vivente – compresa la carne umana – come intelligente e auto-gestita, permette un ulteriore livello di alleanza trasversale: mettendo in primo piano l’immanenza radicale di incarnazione e radicamento, il femminismo postumano può stringere alleanze con le teorie neuronali della mente (Clarke 1997, 2003), con i modelli cognitivi inspirati da Spinoza (Deleuze e Guattari 2006; Damasio 2003), con le teorie dell’affettività diffusa (Wilson 2011), con le neuro-filosofie qualitative (Stafford 2007; Churchland 2011), rideclinando la differenza sessuale in relazione alla plasticità del cervello (Malabou 2011).
La domanda cruciale rimane: quale può essere la posizione politica femminista di fronte ai paradossi generati dalla condizione postumana? In che misura la convergenza di prospettive postumaniste e post-antropocentriche complica i problemi della soggettività umana e di quella femminista politica?
La mia tesi è che essa tende piuttosto a migliorarla, offrendo una più ampia concezione relazionale del sé, e che riformula una teoria postumana del soggetto come progetto empirico che mira a sperimentare ciò che gli attuali corpi bio-tecnologicamente mediati sono capaci di fare.
Consapevole delle ingiustizie strutturali e degli elevati differenziali di potere all’opera nel mondo globalizzato, mi affido alla politica della collocazione, intesa come immanenza radicale che genera resoconti più adeguati delle molteplici economie politiche di soggettivazione attuali. Le cartografie ci offrono analisi no-profit della soggettività contemporanea e attualizzano le possibilità virtuali del sé esteso e relazionale, in azione nel continuum natura-cultura, mediato tecnologicamente e opposto allo spirito del capitalismo contemporaneo. Queste soggettività rifiutano di trasformare la vita/zoe – la materia intelligente umana e non-umana – in oggetto di commerci e profitti.
Conclusione: per un postumanesimo critico femminista
La forza del pensiero femminista postumano sta nell’elaborazione di prospettive etiche e politiche affermative. Nella mia opera, ho proposto alleanze transpecie con la potenza produttiva e immanente di zoe, o della vita nelle sue sembianze non-umane (Braidotti 2003; 2008). Quest’ontologia relazionale è zoe-centrata e non-antropocentrica, tuttavia non rinnega la struttura antropologicamente informata dell’umano. Questo mutamento di prospettiva verso un approccio zoe o geo-centrato richiede un cambiamento del nostro comune concetto di cosa significa essere umano.
Prendendo le mosse dalle filosofie dell’immanenza radicale, dal materialismo vitalista e dalla politica femminista della collocazione, ho sostenuto che, invece di perderci nell’astrazione di una nuova panumanità (fondata o sulla vulnerabilità comune o sulla supremazia della specie), abbiamo bisogno di cartografie affettive incarnate e situate dei nuovi rapporti di potere dell’attuale ordine geo-politico e post-antropocentrico. Classe, razza, genere e orientamento sessuale, età e abilità fisica diventano oggi più che mai indicatori della “normalità” umana e fattori chiave per la definizione e l’accesso all’“umanità”.
Tuttavia, considerando la portata globale dei problemi che stiamo affrontando oggi, è bene ribadire che noi siamo in questo insieme. Tale consapevolezza non deve tuttavia oscurare o appiattire le differenze di potere che sostengono il soggetto collettivo (noi) e il tentativo di cambiare (questo). Nel processo di ricomposizione dell’umanità ci sono oggi in gioco progetti molteplici e potenzialmente contraddittori. Le teoriche femministe postumane resistono alle ricomposizioni superficiali e reazionarie, in particolare se fondate sulla paura. Potrebbe rivelarsi più utile muoversi in direzione di nuove alleanze trasversali, nuove comunità e nuovi piani di composizione dell’umano: differenti modi di divenire-mondo insieme.
Ho sostenuto con forza che il postumano non è post-politico. La condizione postumana non segna la fine della soggettività politica, bensì la ricolloca in direzione di un’ontologia relazionale. Ciò è ancora più importante dal momento che l’economia politica del capitalismo bio-genetico è post-antropocentrica nelle sue strutture, ma non necessariamente o automaticamente più umana, o più incline alla giustizia.
Ci serve, più che mai, una prassi politica postumana e femminista.
Declinare le differenze. Intervista a Lea Melandri
L’intervista a Lea Melandri qui pubblicata è stata raccolta nel settembre 2009, nell’ambito della ricerca promossa dall’Associazione Orlando di Bologna tra gli anni 2006 e 2010, dal titolo Cultura e storia delle donne tra passato e futuro. Teorie politiche tra ambito locale e dimensione internazionale, e condotta da un gruppo di ricerca composto da cinque ricercatrici femministe – Luisa Passerini, Elda Guerra, Raffaella Lamberti, Paola Zappaterra e Stefania Voli – con differenti provenienze disciplinari, politiche e generazionali. Obiettivo della ricerca è stato quello di sviluppare una ricostruzione e una riflessione di lungo periodo sulla storia del pensiero e delle pratiche politiche delle donne nel passaggio tra Novecento e Duemila. In particolare, il gruppo di ricerca ha scelto di soffermarsi sugli ultimi vent’anni del Novecento, per indagare gli esiti e gli sviluppi del femminismo degli anni Settanta in Italia all’interno di una più vasta cornice internazionale e transnazionale.
Nel lavoro portato avanti, rivolgersi a Lea come protagonista dell’esperienza politica considerata, ha significato rivolgersi alle vicende dei femminismi nazionali e ai loro sviluppi complessi e in parte ancora inesplorati degli anni Ottanta e Novanta, fino ai primi anni Duemila. Tre (quasi quattro) decenni di elaborazioni e pratiche femministe, che nel loro insieme tratteggiano una storia, che non ha mai conosciuto un andamento continuo, ma che, al contrario, ha incluso anche momenti di rottura, contraddizioni che Lea Melandri riesce a restituire attraverso una narrazione nitida e priva di indugi. Ha significato, in altre parole, inoltrarsi nelle reti di relazioni instauratesi tra la molteplicità dei gruppi, dei collettivi, delle librerie, delle biblioteche, dei centri, degli archivi delle donne, nati e diffusi nella penisola, ma anche addentrarsi negli scambi e nei dibattiti teorici che in quel periodo posero confronti difficili, a volte laceranti, aprendo nuove dimensioni della politica tra donne, e rideclinando categorie fondanti dei saperi femministi, quali soggettività, pluralità, differenza/differenze, sessualità, democrazia, partecipazione, potere, trasmissione.
Sono i soggetti stessi dei femminismi a cambiare pelle, nella metamorfosi verso una forma “diffusa” della politica e del fare tra donne (Calabrò, Grasso 2004). Tuttavia, il tratto di ricchezza nell’eterogeneità che caratterizza i movimenti femministi di questo periodo non è colto da tutte sincronicamente: le trasformazioni avvengono in direzioni molteplici, non lineari, e spesso creano fratture, allontanamenti, riflussi. Gli scambi si susseguono fitti, da un numero all’altro delle riviste che numerose fioriscono come luoghi di espressione di piccoli gruppi e nuove realtà, e da una città all’altra, nel corso di assemblee, manifestazioni e convegni (molti dei quali si tengono all’interno dei nuovi e più istituzionalizzati centri e luoghi delle donne).
Il vero fulcro di tutte le riflessioni è posto sullo scivoloso terreno delle differenze, e le molte declinazioni che esse assumono nelle esperienze di vita delle donne. Per rendersi conto di tale molteplicità ed eterogeneità, è sufficiente scorrere alcuni degli eventi principali del decennio Ottanta, alcuni dei quali ritroviamo narrati in chiare lettere nel percorso – sempre in bilico tra forme del ricordo individuali e collettive – tracciato da Lea Melandri.
Tra il 1979 e il 1980 nascono il centro culturale Virginia Woolf a Roma, il Centro studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia a Milano e il Centro delle donne di Bologna. Il movimento lesbico diventa visibile sulla scena pubblica: la prima partecipazione organizzata di un gruppo lesbico in un corteo femminista è datata 8 marzo 1979. Nel 1981 si tiene un convegno internazionale lesbico a Torino e uno nazionale, a Roma (nella sede di via del Governo Vecchio), e si dà vita al Cli (Collegamento lesbiche italiane). In quello stesso anno inizia le sue pubblicazioni Memoria. Rivista di storia delle donne e il diritto di abortire viene confermato attraverso referendum. Nel 1982 nasce il Coordinamento Nazionale delle donne per i Consultori e concludono le pubblicazioni tre tra i maggiori periodici femministi: Effe, Quotidiano donna e Differenze. Le inizia invece, nel 1983, Via Dogana, che insieme alla coeva comunità filosofica Diotima (sorta presso l’università di Verona) si lega alla Libreria delle donne di Milano, costituendo riferimento fondamentale per il femminismo della differenza. Proprio una pubblicazione della Libreria, in quell’anno, avrà un valore periodizzante: si tratta del Sottosopra Verde, dal titolo Più donne che uomini. Ancora nel 1983 il movimento pacifista ed ecologista di Comiso (iniziato nel 1979) organizza un campo di donne per la pace, rendendo così visibile il nuovo fronte di lotta apertosi per una parte del femminismo. Ancora, nel 1983 a Roma ha luogo il primo incontro nazionale delle biblioteche, centri culturali e documentazione delle donne, a cura del Centro DWF di Roma. Il 1984 è un anno di importanti manifestazioni di donne contro il nucleare e per la pace, mentre le militanti del Pci, riunite per la VII Conferenza Nazionale delle Donne, esprimono l’esigenza di un rinnovamento interno rispetto alle questioni femminili. Dalla metà del decennio è un susseguirsi intenso di iniziative sulla violenza sessuale e la sessualità (nel 1985 con la “circolare Degan” si vieta la fecondazione eterologa nelle strutture pubbliche), il pacifismo e il nucleare (soprattutto dopo il disastro di Cernobyl, nel 1986), di respiro fortemente internazionale: periodizzante è in questo senso la conferenza mondiale sulle donne di Nairobi del 1985. Nel 1987 si tengono due importanti convegni: uno a Modena, sugli studi femministi in Italia, e uno a Roma, sul separatismo; nello stesso anno esce il testo della Libreria delle donne di Milano, Non credere di avere dei diritti e inizierà le sue pubblicazioni Lapis, che sotto la direzione di Lea Melandri, proseguirà fino al 1996. Numerosi i nuovi spazi di riflessione, incontro e formazione creati ed abitati dalle donne: corsi sindacali e delle 150 ore, cooperative sociali, associazioni, università…
A proposito di differenze, è necessario in conclusione nominare anche la progressione in senso armato della violenza politica, in atto tra la fine degli anni Settanta e buona parte del decennio successivo: un’esperienza questa che vede protagoniste in prima persona un numero importate di donne e che pone alle realtà femministe del periodo ulteriori e complessi interrogativi sul rapporto tra donne-violenza-politica.
I pochi ma certamente rappresentativi eventi nominati restituiscono immediatamente la densità e la capillarità (rispetto alle tematiche e ai luoghi) dell’agire dei femminismi italiani, i quali invece di rifluire carsicamente verso dimensioni altre rispetto alla politica – interpretazione cui troppo spesso e troppo superficialmente la storiografia è stata incline nel rivolgersi agli anni Ottanta e ai movimenti delle donne in generale – sembrano accogliere la sfida lanciata dalla complessità dell’esistente in rapido mutamento sotto i loro stessi occhi (e in parte per loro stessa spinta). E’ proprio il percorso tracciato da Lea, in una riflessione che arriva fino all’oggi, a ricordarci che quella delle donne, più che una presenza è piuttosto una persistenza all’interno della storia culturale e politica del Novecento, e oltre.
Sugli esiti e le trasformazioni prodotte da tali avvicendamenti in termini politici e culturali restano ancora – e soltanto – ricostruzioni locali, narrazioni isolate, e riflessioni frammentate, che per quanto fondamentali, non sono ancora sufficienti a colmare i vuoti storiografici che caratterizzano tanto l’argomento quanto il periodo.
In questo lavoro, i percorsi e le parole delle protagoniste si rivelano ricchezza imprescindibile, soprattutto quando, come nel caso di Lea, non c’è indugio o cedimento alla rielaborazione di una memoria in senso a-conflittuale, neanche dove i passaggi attraverso le differenze – incarnate nelle esperienze di vita vissute e intrecciate attraverso gli anni – hanno rivelato i loro aspetti più faticosi (ma anche più fecondi).
Complice, probabilmente, la capacità della narratrice di non sottrarsi mai alla riflessione, allo scambio, al riconoscimento reciproco e, a partire da un’esperienza fortemente situata in senso femminista, di riuscire a porsi «lungo la frontiera difficile tra modernità e post modernità» (Guerra 2008, p. 77).
L. Il mio percorso l’ho raccontato tante volte, ormai è un percorso d’archivio! Dopo oltre quarant’anni anni, il femminismo è storia. Parto da una considerazione più generale: tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, come hanno scritto alcune storiche, è avvenuto il passaggio dal movimento femminista al femminismo “diffuso”. “Diffuso” voleva dire che era entrato anche nei luoghi istituzionali del sapere, della politica. E’ stato il periodo in cui effettivamente c’è stato un allargamento delle tematiche del femminismo, tenuto conto anche del fatto che alcune donne che avevano partecipato attivamente al movimento degli anni Settanta erano già presenti in altri luoghi della vita sociale, legate professionalmente alle istituzioni. Inevitabilmente, questo ha anche voluto dire che il rischio che andassero persi alcuni dei tratti più radicali, più originali delle pratiche del femminismo e in particolare quello che lo aveva caratterizzato in modo più incisivo, cioè l’autocoscienza: il partire dall’esperienza personale, dalle tematiche del corpo, dalla sessualità.
Attorno, in quegli anni, c’era un movimento rivoluzionario, a cui una parte del femminismo partecipa con una specificità propria, portando l’attenzione sul rapporto uomo-donna e su tutto ciò che non era stato fino ad allora considerato “politica”. Per la sua pratica anomala – autocoscienza, separatismo, relazione tra donne, analisi della sessualità, ecc. – il movimento delle donne si pone presto al centro dell’attenzione, non solo della sinistra, con cui era imparentato, ma anche dell’opinione pubblica. Diventa subito molto visibile. Alla fine degli anni Settanta nascono già i primi Centri di Documentazione a cui – devo dire con sincerità – io ho guardato in un primo tempo con sospetto.
A Milano, per iniziativa e impegno soprattutto di Elvira Badaracco e di altre donne del femminismo, nel 1979 nasce il Centro di studi storici sul movimento di liberazione della donna in Italia (da cui nel 1994 è nata la Fondazione Badaracco, di cui faccio parte), che penso abbia avuto una funzione molto importante: quella di cominciare da subito a raccogliere i materiali, i documenti, gli scritti prodotti dal movimento femminista. Fu lo stesso Centro a promuovere la ricerca e a presentare il libro Dal movimento femminista al femminismo diffuso, a cura di Anna Rita Calabrò e Laura Grasso, poi ristampato nella collana “Letture d’archivio” (Calabrò, Grasso 2004, ed. or. 1985). Io allora ero molto critica e diffidente rispetto alla nascita dei centri di documentazione: mi sembrava che raccogliere i documenti fosse un’operazione che rischiava di rendere lettera morta consapevolezze e saperi nati nel vivo delle relazioni tra donne e delle pratiche del femminismo, una corsa rapida a chiudere, museificare tutto il nostro lavoro. Associavo quindi gli archivi a un’idea tombale, al desiderio di voler raccogliere per liquidare.
S. Quindi non ti ponevi allora il problema della trasmissione delle pratiche e dei saperi dei femminismi?
L. No, non me lo ponevo e sinceramente forse non me lo sono mai posto in chiave di: cosa lasciamo alle altre generazioni?; oppure nei termini di raccolta di quanto avevamo prodotto, con lo scopo di trovare una modalità di trasmissione, di passaggio del testimone. Devo ammettere che non me lo sono mai posto in questi termini. E’ stato solo molti anni dopo che ho capito quanto sia stata importante la scelta fatta con tanta rapidità dai centri di documentazione. L’ho capito tardi e con gratitudine, perché mi sono resa conto che se quel materiale – che gli archivisti chiamano materiale “grigio”, perché c’erano volantini, documenti, registrazioni di convegni – non fosse stato conservato grazie agli archivi personali e poi raccolto, si sarebbe disperso facilmente. Per quanto mi riguarda, dalla fine anni Sessanta in avanti, avevo conservato praticamente tutto: dagli articoli di giornale, alla brutta copia dei volantini! Fino a pochi anni fa avevo in casa quaranta scatoloni che, essendo la mia casa molto piccola, erano diventati ingombranti: per cui, sia pure con grande dispiacere, li ho dati alla Fondazione Badaracco, dove hanno potuto essere riordinati e resi consultabili. Il che mi ha fatto ovviamente molto piacere.
S. Questo passaggio è di fondamentale importanza, soprattutto per le storiche che scontano nell’oralità che ha contraddistinto il neofemminismo uno dei più grandi problemi di ricostruzione ed elaborazione di quell’esperienza.
L. Per le storiche è stato ed è tutt’ora un compito difficilissimo, perché era una parola legata alla vita, alle relazioni personali, alla presenza dei corpi, quindi una parola essenzialmente parlata. In più, noi mettevamo al centro la vita, la storia personale: un aspetto che modifica profondamente il rapporto tra memoria e storia. Quello che la grande storia – con la “S” maiuscola – considera uno scarto, un residuo poco importante, per noi era il centro, il punto da cui tornavamo a parlare non solo a noi stesse, ma al mondo, alla società, con le sue istituzioni, i suoi poteri.
Questo scandaloso rovesciamento tra vita e politica – il corpo e la storia personale posti al centro della polis – scardinava anche la contrapposizione tradizionale tra la memoria, il racconto che può fare il singolo del suo vissuto e la storia sociale, culturale, politica. Un compito quindi senza dubbio difficilissimo per le storiche. Oggi dico grazie ai centri che hanno raccolto questi materiali fin dall’inizio del movimento delle donne. Allora invece mi sembrò un’operazione su cui era necessario tenere uno sguardo attento e critico, perché non diventasse la messa in ombra di quel racconto vivo, di quei corpi, di quel lavoro che andavamo facendo così in profondità. Temetti che volesse dire entrare in un ordine di discorso legato alla storia tradizionalmente intesa, lontana dalla lingua nuova con cui avevamo iniziato a parlarci, lontano dal cambiamento profondo che stava avvenendo in noi stesse. Ma, soprattutto, la mia resistenza era rispetto all’idea di passare da un movimento vivo, in cui c’erano le donne, in cui ci si incontrava fisicamente, da una parola nata da quella presenza, a una raccolta di carte.
Nel 1987 fui invitata al convegno di Modena sugli studi femministi in Italia (Marcuzzo, Rossi-Doria 1987), ma non volli andare, ferma nell’idea che io ero una “di movimento”, mentre le donne che l’avevano promosso – quasi tutte docenti universitarie – rappresentassero un ceto intellettuale, legato alle istituzioni tradizionali del sapere. La mia diffidenza nasceva dal timore che quella che era stata una parola viva, entrando nell’ambito accademico, potesse perdere la sua innovazione. Ero convinta che un movimento e un pensiero come quello femminista, che partiva dall’idea della vita personale come luogo essenziale per ricostruire gli sviluppi di una civiltà, non potesse che entrare in conflitto con la ricerca e il rigore scientifico, basati sull’oggettivazione. Sapevo che tutto ciò che attiene alla vita personale, in quel luogo, era considerato solo un fattore molesto.
Il femminismo ha comportato uno spaesamento rispetto a consuetudini e norme acquisite proprio perché non si riusciva ad oggettivare subito quello che si faceva, non era inquadrabile, fuoriusciva! Ci muovevamo come in una terra di nessuno, dove tutto era da scoprire e da creare. Non ebbi allora, e non l’ho avuta molto neanche in seguito, l’idea che noi fossimo una generazione che aveva accumulato un sapere e che doveva trasmetterlo.
Nel 1976 ho cominciato a insegnare agli adulti dei corsi 150, il primo corso fatto aprire, nonostante le resistenze del sindacato, da un gruppo di donne casalinghe: si è trattato di un’esperienza straordinaria, esemplare per la sua originalità, durata dieci anni con corsi monografici, bienni sperimentali e una cooperativa (che si chiamava Gervasia Broxon). Ma neanche in quel caso si è posta l’idea della trasmissione. Quando mi sono trovata con donne che tornavano a scuola dopo tanti anni di vita trascorsa nelle case, come mogli e madri, tutto il sapere teorico accumulato nei gruppi femministi è stato rimesso in discussione: ho dovuto fare i conti nuovamente con le vite reali che mi interrogavano come donna ma anche come intellettuale, mi costringevano a tornare sul mio percorso scolastico, su che cosa aveva significato per me – femmina, figlia di contadini – studiare. Mi interrogavano su cosa erano stati dieci anni di femminismo. Quell’esperienza mi ha fatto vedere il rischio di avere accumulato un sapere che poteva di nuovo allontanarsi dalla vita, per cui mi son trovata nella situazione opposta di chi ha pensato che fosse venuto il momento di trasmettere. Nei corsi delle donne ho avuto la possibilità di incontrare di nuovo – pur all’interno di una relazione pedagogica – un tessuto vivo di storie e di esperienze, che mi scombinava. Tanto è vero che nel 1980 sono entrata in analisi: dopo dieci anni di femminismo mi sono messa sul lettino e ho riattraversato vicende remote della mia vita, lasciandomi interrogare da me stessa nel profondo. Le donne che ho incontrato nei corsi assomigliavano alle mie zie, alle mie nonne, a quelle del paese in cui ero cresciuta, e in qualche modo di nuovo mi portavano a rovistare in quel passato.
Come si può capire, in quegli anni non ero nelle condizioni né di pensare che eravamo ormai un ceto intellettuale formato, che doveva trasmettere il suo sapere, né nell’idea che fosse venuto il momento di raccogliere le carte, di impacchettarle.
Ricordo bene il momento delicatissimo in cui dentro ai gruppi femministi degli anni Settanta, soprattutto a Milano, sono avvenute delle divaricazioni molto marcate (almeno per me sono state divisioni profonde, destinate a segnare tutto il mio percorso successivo). Mi riferisco alla posizione di egemonia che ha preso nel femminismo la Libreria delle donne di Milano, il pensiero della differenza. Nel 1983, leggere il numero di Sottosopra, Più donne che uomini, fu per me uno sconvolgimento. Ricordo ancora che ero in treno, ferma alla stazione di Modena quando ho visto con stupore sul “Manifesto” uno specie di “proclama” in cui si parlava di affidamento, disparità, autorità, genealogia femminile: posizioni lontanissime da quello che avevamo condiviso negli anni Settanta con Lia Cigarini, Luisa Muraro e altre femministe. Dopo aver letto l’articolo, a cura di Ida Dominijanni, senza una nota di commento, mi sono detta: qui è finito davvero qualcosa.
Perciò, in quegli anni, a parte le mie vicende personali e politiche (l’analisi, la cooperativa con le donne dei corsi, che mi portava a vivere dalla mattina alla sera in un quartiere di Milano presa da situazioni che mi allontanavano dal dibattito pubblico più generale), c’è stato un cambiamento nella storia e nel percorso del femminismo che mi ha occupato – e preoccupato – moltissimo.
Avevamo vissuto dieci anni ricchi di scoperte, originalità di pensiero e di pratiche, ma che avevano fatto crescere anche una grande stanchezza dovuta allo sforzo di scavare in profondità nelle vite, e persino nell’inconscio. La tematica della sessualità (che aveva voluto dire anche la scoperta del desiderio sessuale nel rapporto madre-figlia) era molto difficile da affrontare a livello collettivo, all’interno di un movimento che si andava estendendo. Tutte avevamo registrato la lentezza di un processo di presa di coscienza e di liberazione da modelli interiorizzati che si inoltrava in zone molto lontane dalla vita pubblica con l’ambizione di partire da lì per rinominare e ridefinire quello che era stato storicamente lo spazio pubblico. Eravamo effettivamente in un momento difficile, soprattutto per l’ambiguità della relazione madre-figlia, che si era andata riattualizzando in modo problematico nei nostri collettivi. La posizione della Libreria – che si ritrova nel numero di Sottosopra, Più donne che uomini, e altri che vi hanno fatto seguito – offriva una via d’uscita a mio avviso consolatoria, facile e molto semplificata rispetto alle pratiche precedenti. Ho avuto l’impressione che molte delle associazioni e dei centri di documentazione – che in alcuni casi nascevano in un rapporto diretto con le istituzioni, politiche e amministrative – si trovassero in consonanza col pensiero della differenza. Ricordo in particolare, quasi visivamente, un incontro: sedute nelle prime file c’erano donne che conoscevo e a cui volevo molto bene, per gli affetti e le amicizie cresciute negli anni. Una di loro, di fronte a questa mia appassionata difesa delle pratiche iniziali del femminismo, con dolore mi disse: “Ma perché non ci dai un aiuto a uscire dalle difficoltà? Perché poni sempre interrogativi, dubbi? Perché non ci aiuti a trovare una posizione più rassicurante, che ci dia forza?”. Me lo ricordo bene, perché me lo disse con dolore! Devo riconoscere che ero amata e quindi il fatto che in quel momento mi opponessi con tanto vigore alla posizione della Libreria, era visto con dispiacere.
Nel 1987 è nata la rivista Lapis. Percorsi della riflessione femminile: l’idea era quella di dare continuità e approfondimento a quelle che erano state le intuizioni più originali degli anni Settanta, affrontare come primo passaggio il ripensamento della vita pubblica, delle sue istituzioni, dei saperi e dei poteri che vi erano connessi. C’erano rubriche che riguardavano esplicitamente i saperi disciplinari – come “Il sapere e le origini” – altre – come “Testi e pretesti” – che riguardavano più la letteratura, e altre ancora che si riferivano al mondo del lavoro e dell’arte; c’erano poi i “Racconti di nascita”, che riportavano esperienze della maternità, della gravidanza e del parto, su cui ritenevamo ci fosse ancora molto da indagare. Quest’ultima era un rubrica che avevo voluto soprattutto io, perché era quella che mi teneva più legata alle pratiche degli anni Settanta.
Come si colloca Lapis rispetto ai centri di documentazione? Direi che nasce dal desiderio di mantenere viva la pratica del “partire da sé”, dei cambiamenti avvenuti nella nostra vita personale, interrogare le lingue e i “cento ordini del discorso” di cui facevamo spesso inconsapevolmente uso, senza perdere l’attenzione alla lingua che viene dalla memoria del corpo, dalla vita personale. Laura Kreyder, una delle redattrici di Lapis, lo definì “un salvifico bilinguismo”: ragionare con la lingua dell’infanzia, delle nostre preistorie, insieme ai linguaggi che vengono dal mondo del lavoro, della vita pubblica. Lapis nasce anche in conflitto col pensiero della differenza che dava già come acquisite una lingua, una tradizione, una storia delle donne. Noi pensavamo invece che molto ci fosse ancora da fare per un’autonomia di pensiero delle donne.
Anche rispetto ai centri c’è stato uno scarto, frutto forse di un giudizio un po’ affrettato mio e di altre, convinte che una relazione stretta con le istituzioni, sia dal punto di vista economico che culturale – amministrazioni, università, ecc. – comportasse prezzi da pagare. Dalla fine degli anni Ottanta, inizio anni Novanta, ho avuto l’impressione che la componente accademica nel movimento delle donne fosse preponderante. Ricordo che fui molto colpita (e infatti me ne andai) da un convegno sulla psicoanalisi, promosso dal Centro di documentazione di Bologna, in cui, nonostante ci fossero pochissime straniere, venne imposto l’inglese. A un certo punto mi alzai e me ne andai, e qualcuna dal palco (forse Adriana Cavarero) disse: “L’inconscio se ne va”, e io dissi: “Sì, perché non sa l’inglese!”. Insomma, battute…! Non riuscivo ad accettare che si parlasse della pratica dell’inconscio in modo accademico, dal momento che era stata un’esperienza tra le più originali del femminismo italiano. Mi indignava soprattutto il fatto che le persone che come me vi avevano dato vita, non fossero neanche invitate a fare una relazione, ma solo a fare interventi dal pubblico. A parte questo, gli incontri e soprattutto le amicizie, personali e politiche, con le donne dell’Associazione Orlando e del Centro di Documentazione di Bologna hanno continuato ad esserci e intensificarsi. E durano tutt’ora.
La rivista Lapis non era la consacrazione dei saperi femminili e femministi, ma di nuovo un lavoro critico, in profondità: partiva dall’idea che le istituzioni del sapere, così come i poteri, si sono costruiti in assenza delle donne e perciò dentro una visione del mondo maschile. Pensavamo fosse importante l’ingresso delle donne nella vita pubblica, ma che altrettanto necessario fosse prendere coscienza che si era costruita su una rappresentazione del mondo di altri, interiorizzata loro malgrado dalle donne stesse e per questo da riattraversare criticamente. E la critica doveva partire sempre dalla vita personale, perché era lì che si poteva scoprire quanto quelle categorie del pensiero avessero messo radice.
Riconosco che i centri di documentazione e gli archivi hanno fatto un lavoro straordinario di raccolta, funzionale alla trasmissione di un sapere e di una storia di grande importanza. Io sono sempre stata legata all’idea che la nostra pratica si trasmetteva facendola, senza creare separazione tra docente e discente, tra chi sa e chi apprende. Ciò che rimproveravo a queste realtà era di aver creato uno stacco rispetto al movimento, ai collettivi che nascevano: vedevo un’élite intellettuale isolata dai percorsi reali del movimento delle donne.
Alla fine degli anni Novanta, inizio Duemila, ho iniziato a chiedermi dov’era finita la nostra radicalità iniziale. La domanda che ponevo era: il femminismo è ancora una pratica di modificazione di sé e del mondo oppure non lo è più? E’ diventato solo un fatto culturale? Che cosa ha da dire il femminismo rispetto agli interrogativi del presente? Dal 2000 in avanti, in particolare sulla questione della violenza in ambito domestico, c’è stata una ripresa di contatti tra associazioni, gruppi di città diverse. Insomma, è cominciato qualcosa che ha riavvicinato molte. […] L’impressione che ho, le poche volte che sono invitata a tenere una lezione nelle università, è di essere un oggetto d’archivio. Vado volentieri, si intende, ma sono stupita ogni volta quando sento donne di età diverse dire che non sanno niente del femminismo, di non aver mai preso in mano un documento, un volantino, una rivista di quegli anni. Ma come si fa! Ci sono centinaia di centri e archivi, ma cosa esce da lì per entrare nei luoghi dove si costruisce il sapere?
Il femminismo è nato con l’idea che si dovesse costruire un’individualità femminile autonoma, e a me sembra di essere ancora agli inizi di questo percorso. Forse è per questo che non ho propensione a farmi madre e maestra. Molte delle ragazze più giovani – alcune sono quelle che hanno poi dato vita allo Sconvegno – le ho incontrate durante il riordino delle carte agli archivi della Fondazione Badaracco, a Milano. Lì, naturalmente, c’era bisogno che raccontassi, per cui è cominciato l’andirivieni tra carta e racconto, l’esperienza più bella di scambio che mi potesse capitare. Anche in quel contesto, non ho mai avuto l’idea di aprire una “scuola” di femminismo: andavo in giro per l’Italia, incontravo donne di venti, trent’anni, e dicevo: “Mettetevi in contatto con quelle di Milano”. E infatti da quei contatti si arrivò, nel 2002, allo Sconvegno, una bella assemblea di duecento ragazze. E’ stato però un momento, come tanti: sono delle esplosioni, delle ondate, e poi dopo non si sa dove finiscono i rivoli.
S. Qual è la tua autorappresentazione all’interno dei femminismi, in un arco temporale che arriva fino all’oggi?
L. A me sembra di non essere cambiata, nonostante il passare degli anni non sia insignificante per la vita di una persona, ma sono cambiate molte cose intorno, nella nostra società e nel mondo. Ma fondamentalmente ho dato seguito, con fedeltà agli assunti iniziali, a quello che io continuo a chiamare “movimento delle donne”, anche se tutte mi dicono che oggi si dice “rete”. E va bene, se significa la stessa cosa, allora vuol dire che “faccio rete” (maneggio anche abbastanza bene il computer, e da poco anche i social network). Negli anni Settanta ho conosciuto una trasformazione profonda nel modo di pensare me stessa, il mondo, la relazione con le donne, con l’uomo: posso dire di aver attraversato il terremotamento di una visione del mondo acquisita come “naturale” e non interrogata. Ho pensato che quel cambiamento avrebbe segnato per sempre la mia vita personale e intellettuale. Mi era chiaro che la messa a tema del corpo e della sessualità non avrebbe rappresentato solo una fase di passaggio del femminismo. Tra l’altro, devo dire che sono molto contenta di aver portato avanti per dieci anni la rivista Lapis, nonostante la solitudine dal punto di vista dell’informazione e del dibattito: un lavoro a tempo pieno non remunerato, un lusso che per le mie condizioni economiche non avrei potuto assolutamente permettermi. Sono contenta perché la rivista Lapis in qualche modo è stata il ponte tra gli anni Settanta e lo sviluppo successivo del femminismo, la possibilità di dare continuità all’idea che un pensiero autonomo delle donne andava costruito a partire dalla messa in discussione dei saperi che abbiamo ereditato e incorporato spesso inconsapevolmente.
La rivista ha avuto quattrocento collaboratrici da tutta Italia e dall’estero, e un buon riscontro di abbonamenti e di vendite. E’ finita dopo un decennio (1987-1997) perché a quel punto c’era anche una stanchezza nella redazione, per la marginalità di cui avevamo sofferto rispetto a un dibattito e a una informazione (anche nei giornali di sinistra, come il manifesto e L’Unità), attenti quasi unicamente al pensiero della differenza in quegli anni dominante. La rivista ha dato continuità a temi e pratiche che ritengo possano parlare a momenti diversi del contesto sociale. Nell’ultimo decennio, io mi sono resa conto che tutte le tematiche su cui si è mosso il primo femminismo sono al centro della politica, per cui il patrimonio di idee e pratiche a cui abbiamo dato vita, oggi ha molto da dire. Io che vedevo con tanta diffidenza gli archivi, mi sono trovata, non a caso, da circa quindici anni a curare per la Fondazione Badaracco una collana di libri – “Letture d’archivio” – raccolte e riletture di tutti i documenti del femminismo degli anni Settanta. Anche questa collana risponde all’idea di un sapere nuovo, non irreggimentato dentro un sapere disciplinare.
Io resto dunque tenacemente, pervicacemente legata al movimento delle donne, qualunque siano oggi le forme diverse che ha preso. Anche quando ho avuto occasioni di entrare nelle istituzioni – una candidatura certa per il Senato – ho rinunciato, convinta che solo fuori avrei potuto mantenere la mia libertà, continuare a intervenire criticamente là dove noto una conformità a modelli già dati e il rischio dell’assimilazione.
Le donne oggi non mancano nella vita pubblica, tanto che si può parlare di una femminilizzazione nel lavoro, nell’economia, nella politica. Per certi versi c’è una valorizzazione del femminile, ma se guardiamo attentamente, si tratta ancora una volta di un uso delle “doti femminili” tradizionali a beneficio di una società costruita dall’uomo: il femminile della cura, della pazienza, della capacità di sacrificio e di mediazione, tutte doti che consociamo bene e che oggi tornano utili al mercato, all’economia, alla politica. Sono contenta di aver conservato – anche mettendo a repentaglio le mie possibilità minime di sopravvivenza – l’idea che il femminismo è l’unica rivoluzione duratura, forse perché è andata a scavare in un dominio particolare, come quello di un sesso sull’altro, radicato nella memoria più remota della specie, legata la corpo e alle formazioni inconsce. C’è un aspetto di inattualità del femminismo, che è anche la sua forza e, paradossalmente anche la ragione del suo continuo riattualizzarsi. Oggi alcune delle sue tematiche, per il venir meno dei confini tra privato e pubblico, sessualità e politica, sono venute allo scoperto. Caso mai dovremmo chiederci: perché la cultura femminista, che ha tanto prodotto di pensiero nel merito non viene interpellata? Come mai non entra nel dibattito pubblico? Fino a qualche anno fa la parola “femminismo” sui giornali non si poteva dire! Quando mi chiedevano: “Lei come vuol essere presentata?”, io dicevo: “Sono scrittrice, saggista, però preferirei che dicesse femminista storica”, mi rispondevano: “Ah, ma questo non si può dire”, una parolaccia! Adesso si può dire! Adesso la trovi sul Corriere, su Repubblica. Adesso da lì, da dove non abbiamo mai potuto parlare, ci dicono che cosa dobbiamo fare. Allora mi chiedo: i centri di documentazione, come mai restano così in ombra? Ci sarà una ragione, se si può ancora far finta che non esista una cultura femminista, ma solo delle scalmanate che ogni tanto vanno in piazza. Come mai i centri, gli archivi restano così sotterranei, visitati solo per fare una tesi di laurea o una ricerca? Come mai contano così poco nel panorama culturale, politico italiano? Mi chiedo se anche da parte nostra ci sia stato un adattamento, per cercare di tenere in piedi quello che si poteva, senza confliggere: per far entrare nel vivo del discorso pubblico un sapere nuovo, un linguaggio nuovo devi essere combattiva, sopportare di aver momenti di perdita.
Io penso che il femminismo abbia perso di conflittualità, nel senso che anche chi ne era profondamente convinta si è in qualche modo accontentata. Accontentata. Anche nei luoghi di lavoro, con tutto il problema della precarietà, ancora si parla di conciliazione tra casa e lavoro extradomestico. Ma come si fa? Non esiste la possibilità di conciliare e, quando lo si fa, è solo un enorme dispendio di energia delle donne. Sono tanti gli interrogativi che oggi vengono posti al sessismo, al maschilismo dominante, ma dovremmo anche avere il coraggio di nominare e mettere in discussione la complicità femminile, gli adattamenti più o meno forzati, che le donne mettono in atto nel privato come nel pubblico.
Indicazioni bibliografiche
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Alcuni testi di Lea Melandri:
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(1988) Come nasce il sogno d’amore, Milano, Rizzoli (seconda ed. 2002, Torino, Bollati Boringhieri);
(1991), Lo strabismo della memoria, La Tartaruga edizioni;
(1998) L’erba voglio. Il desiderio dissidente, Milano, Baldini&Castoldi;
(2000) Una visceralità indicibile. La pratica dell’inconscio nel movimento delle donne degli anni Settanta, Fondazione Badaracco, Milano, Franco Angeli;
(2001) Le passioni del corpo. La vicenda dei sessi tra origine e storia, Torino, Bollati Boringhieri;
(2002), Come nasce il sogno d’amore, Torino, Bollati Boringhieri;
(2011) Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà, Torino, Bollati Boringhieri;
(2014) L’attualità inattuale di Elvio Fachinelli, a cura di Lea Melandri, Milano, IPOC.