La sorellanza non è oggi una questione politica dibattuta all’interno del femminismo, né tanto meno fuori. Sceglierla come tema di questo numero è per noi un’operazione a cavallo tra la leggerezza del pensiero e l’urgenza della pratica.
Negli ultimi anni il percorso politico di DWF ha segnato un passaggio, generazionale e generativo, che ha portato la redazione e la rivista a riprendere un confronto serrato e forte sul presente, cariche del bagaglio politico di 40 anni di storia, un bagaglio pieno di strumenti da utilizzare e riattualizzare. Per noi gli ‘strumenti del mestiere’ sono state e sono ancora oggi le parole pensate.
Con il numero Cento di DWF, in cui abbiamo raccolto le parole significative e caratterizzanti i numeri della rivista, che sono state poi quelle del femminismo, ricollocandole nelle radici, nel tronco e nelle foglie di un grande albero, abbiamo scelto da un lato di restituirne una storia, la nostra storia, e dall’altro di rilanciarle politicamente per verificare se queste parole dicono ancora qualcosa a noi, alla nostra politica (Di Martino).
In questo DWF dedicato alla sorellanza abbiamo deciso di “andare a vedere” se il senso di questa parola è ancora politico. Se per le femministe degli anni Settanta la sorellanza era “solidarietà orizzontale nel riconoscimento dell’oppressione” (Billi, Mastrangeli, p. 16) patriarcale, viene da chiedersi se ha senso ancora dirsi sorelle oggi, in un contesto in cui il patriarcato si è appropriato delle differenze e il femminismo non è più sinonimo della ‘grande comunità di donne’.
“L’ideale della solidarietà tra donne e della sorellanza incontrerà non pochi ostacoli sulla strada della sua realizzazione. Negli spazi concreti del piccolo gruppo, nelle relazioni reali che si costruiscono tra le donne ci si scontra con la sempre più chiara consapevolezza che non sia sufficiente l’allontanamento spaziale (il separatismo) e il distanziamento culturale (la teoria femminista) perché si dia immediatamente forma ad un modo di stare tra donne vero e autentico. Si scopre che il registro della
solidarietà non è sempre attuabile”1.
Eppure la parola sorellanza non ci sembra così ammuffita, da chiudere in un cassetto. Ciò che sembra ritornare, nelle discussioni in redazione e dalle donne che hanno scritto per noi, è che oggi nella sorellanza sia determinante l’elemento della scelta e non quello della condivisione di una condizione.
Esiste, come scrive Bonacchi (pp. 10-11), “la cifra della volontà femminile – antica, molto antica – di sperimentare a qualsiasi costo quella profondità del ‘noi’ cui solo una intimità tra donne può attingere: spazio protetto e invisibile; tempo sottratto, pezzetto per pezzetto, alle incombenze affettive dominanti”.
Dunque se in passato per essere sorelle bastava essere donne – la fiducia nel “se tutte le donne” rispecchia il tratto di universalità che ha avuto la relazione politica femminista negli anni dei suoi esordi – la nostra scommessa oggi è pensare la sorellanza come una pratica politica che si fonda sulla condivisione, su un procedere insieme in un percorso di libertà femminile. Donne che si sostengono nella vita quotidiana e che a questa stessa vita attribuiscono un senso politico, perché ritengono lo sguardo femminista quello più radicale e autentico per comprendere il mondo. Donne che praticano la condivisione delle esperienze, politiche e di vita, che vivono un quotidiano e una progettualità collettive complesse e che vanno a formare non una grande comunità di “sorelle unite nella lotta” bensì un insieme consapevole di donne su cui contare, basato su relazioni forti e un percorso comune, prolungato, gioioso, erotico, conflittuale, che mette in conto guadagni e perdite, abbandoni e nuovi incontri.
Parte della nuova scommessa è anche recuperare l’eredità del passato: sganciare la sorellanza dal legame di sangue, dal peso materiale e simbolico che ogni riferimento a legami familiari porta con sé. Scegliersi le proprie sorelle, sulla misura dell’ascolto, dell’accoglienza, dell’interlocuzione, è un po’ come fondare una ‘famiglia senza precedenti’ o ‘nuove radici’. In altre parole significa uscire dalla propria storia anagrafica, reinventarsi e reinventare la narrazione di sé in relazione ad altre, e costruirsi una rete di sostegno reciproco. Ritrovarsi come Audre Lorde a sentirsi ripetere “Siate sorelle in presenza di estranei” – che fossero i bianchi, i non-cattolici, gli uomini, i perbenisti borghesi – e poi scoprire che “le mie vere sorelle erano le estranee” 2.
Non è il senso che le nostre interlocutrici danno alla parola sorellanza che tiene in armonia gli interventi che leggerete in questo numero, che si compone di un insieme frastagliato di riflessioni di donne e femministe in relazione con altre donne, bensì un avvicendarsi di vitalità, problematicità e dubbi inscritti in una pratica che interroga continuamente, chiedendo spiegazioni ed emozioni, le relazioni tra donne.
Pensiamo che una sorellanza consapevole sia oggi inconciliabile con i perimetri asfissianti della società contemporanea – con le sue forme di organizzazione, i suoi ‘già dati’ e ‘già detti’ – perché apre, a nostro avviso, uno spazio di immaginazione di sé, in relazione con le altre e con il mondo, che va altrove.
Allo stesso tempo non possiamo fare a meno di metterla in pratica, nei nostri spazi e con i nostri tempi: la progettualità condivisa ne è un elemento determinante (Picchi), lo scarto tra una relazione d’amore relegata nel privato (Barbara) e la forza, personale e politica, del riconoscimento (Corradi).
È anche questo che tiene insieme la redazione di DWF.
(tdm)
1. Gabriella Paolucci, “Amiche. Figure dell’amicizia femminile e femminismo”, in Memoria 1991, n. 2, pag. 61
2. Audre Lorde (1982), Zami. Così riscrivo il mio nome, ETS, Pisa, p. 114