Pensiamo sia sotto gli occhi di tutte e tutti il paradosso che vede coesistere conflittualmente due processi. Da un lato quello, costantemente in fieri (di cui testimoniano ad esempio il recente, sebbene non completo, ingresso nella UE di Bulgaria e Romania), di allargamento dell’Europa – e già sulla possibile definizione di questo termine, in prospettiva storica e di sviluppi e intrecci culturali, si aprirebbe una serie di questioni assai complesse. Dall’altro la tensione alla sua chiusura difensiva, al suo farsi “fortezza” di fronte all’impatto crescente di movimenti migratori legati a situazioni di povertà e di guerra. Sono problemi e fenomeni di portata mondiale, che in quanto tali necessitano di analisi politiche e socioeconomiche di largo respiro, ma che hanno anche ricadute nel quotidiano, nel nostro quotidiano fatto di incontri, di letture, di visioni – e di domande.
Incontri. Fugaci, come con le molte donne cinesi e indiane che lavorano in piccole imprese a conduzione familiare: negozi, lavanderie, ristoranti… Ravvicinati, come con la signora rumena che da alcuni anni assiste la madre di una di noi, o con le colf che ci puliscono casa – ucraine, colombiane, filippine… – per lo più donne adulte, già con una vita alle spalle e ognuna con la sua storia di separazioni e fatica ma spesso anche di scoperta e emancipazione: storie che vogliono e sanno raccontare quando appena ne appaia l’occasione, aprendoci orizzonti diversi.
Sono quelle che un saggio da noi pubblicato un paio di anni fa (Marchetti 2004) chiamava “le donne delle donne”, in una lettura del fenomeno che aveva
il sapore, acre e incisivo, di una provocazione [… su] una questione spinosa, quella della divisione del lavoro di cura nei ruoli tradizionali che l’occidente e la cultura patriarcale assegna alle donne, qui ulteriormente ribadita nella sua redistribuzione tra donne emancipate e donne immigrate.
(Fortini 2004, p. 68)
Ma anche incontri con donne più giovani, a volte appena intraviste dal finestrino di una macchina lungo una delle vie consolari, mentre si prostituiscono – rinnovato commercio di corpi femminili che rimette in gioco antichi dibattiti sul significato e sulle condizioni materiali del “lavoro del sesso”, nella forbice tra sfruttamento e possibile scelta. Altre volte conosciute all’Università mentre, nell’arrabattarsi in lavori sottopagati e clandestini, studiano con determinazione per raggiungere i propri obiettivi di vita.
Letture. I giornali, naturalmente, ogni giorno pieni di notizie – per lo più tragiche – sull’immigrazione: dai naufragi su barche vecchie e stracariche agli orrori di luoghi concentrazionari, dalle morti sul lavoro agli episodi di crescente razzismo. Ma ci sarebbero anche i molti studi che analizzano il fenomeno migratorio e le sue cause, sia nelle sue forme presenti che nelle precedenti “ondate”, quando i paesi di destinazione erano gli Stati Uniti e l’Australia, e in Europa la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e la Germania, e dall’Italia invece si partiva. Studi che in anni recenti hanno cominciato a “vedere” le donne e a rendere conto della varietà di motivazioni che le portano a lasciare il proprio paese, delle diversità tra loro – non solo in termini di provenienza, geografica e culturale, ma di storie di vita, livello di educazione, aspettative realizzate o deluse o in mutazione – e dei modi in cui le trasforma l’esperienza di un così profondo cambiamento di vita. Si è cominciato a mettere a tema l’importanza della differenza di genere per capire davvero le forme e i modi in cui si delineano, agiscono e si modificano “confini” reali e simbolici: culturali, nazionali, etnici, religiosi… E a mettere in questione associazioni frequenti nel discorso contemporaneo sulla migrazione, per cui metafore di modernità, scelta e movimento sono invariabilmente legate agli uomini e alla mascolinità, mentre
metafore di tradizione, coercizione e casa vengono associate alle donne e alla femminilità. Gli uomini sono rappresentati come pionieri attivi, in controllo del proprio destino, mentre le donne, speso in combinazione con i bambini (“donneebambini”) sono viste come vittime: sradicate, isolate, piene di nostalgia.
(Davis e Lutz 2000, p. 260)
Nello stesso numero dello European Journal of Women’s Studies dal cui editoriale è tratta questa citazione, numero dedicato alle “Donne in Transito”, l’antropologa palestinese Ruba Salih parla delle donne marocchine che lavorano come colf in Italia, mostrando i differenti modi in cui rinegoziano la propria identità musulmana e criticando da un lato un’idea di “comunità” come corpo definito e omogeneo – secondo la tendenza di un multiculturalismo che si potrebbe definire immobilista se non addirittura reazionario – e dall’altro la celebrazione della figura migrante in funzione anti-essenzialista; entrambi atteggiamenti che non prendono davvero in carico la complessità dei processi di costruzione dell’identità. La rinegoziazione generata dall’incontro reale e concreto tra donne di provenienze diverse investe in modo inedito la riflessione teorica; ancora Ruba Salih, nel suo recente contributo al volume Altri femminismi (2006), articola con finezza il rapporto tra femminismo, laicità, cultura musulmana e fede italica nei dibattiti extraeuropei, che – lungi dall’essere dibattiti “locali” – elaborano criticamente anche la relazione con la modernizzazione di origine occidentale. Ci si rende così conto che l’impegno delle singole donne per l’affermazione e l’espressione della libertà femminile colloca tutte ed ognuna in un mondo comune, ancora a venire, certo, ma già non più riducibile ai luoghi separati e distinti delle singole nazioni o “comunità”*.
Visioni. Lo guardo che portiamo su queste nuove vicinanze conta ormai su una risonanza visiva, che permette un respiro più ampio, anche se talora non meno inquietante, rispetto all’immediatezza dei fatti di cronaca. Negli ultimi dieci anni si sono infatti moltiplicati i film sensibili a questa nuova situazione italiana, che da paese emigrante è diventato paese di immigrazione; situazione che se non esime da una riflessione critica, perlomeno decentra l’Italia rispetto al dibattito che si svolge nei paesi ex coloniali. Difficile infatti separare nettamente gli effetti della migrazione in alcuni film in cui chi mette in immagini partecipa di un mondo comune con chi arriva ora nel nostro paese; basterà a tale proposito ricordare Lamerica di Gianni Amelio. Tra i più recenti, segnaliamo il video di Sara Marinelli, Quadri-fonia di voci migranti, definito dalla stessa autrice “un invito all’ascolto: voci di donne migranti residenti a Napoli che, simultaneamente, raccontano storie in italiano e nella loro lingua madre, suscitando uno spaesamento linguistico e acustico” e – presentati l’anno scorso alla Festa del cinema di Roma, forse casualmente tutti a firma femminile. Le dernier caravanserrail, versione filmica dello spettacolo teatrale di Ariane Mnouchkine; il corto Jamal, di Luisella Ratiglia, che sceglie di seguire un gioco di sguardi, e il suo esito, tra un uomo arabo e una donna italiana; Il mondo addosso di Costanza Quatriglio, che dispiega presente passato e futuro, ovvero l’arrivo, la provenienza e le prospettive di giovanissimi immigrati di diversi paesi; Ritorni di Giovanna Taviani, che restituisce per immagini la ritessitura di una separazione, il viaggio annuale verso il paese d’origine degli immigrati tunisini, dopo la sfida “finita bene” della partenza.
Domande. Tante, che certo potrebbero in buona parte trovare risposta appunto dedicandosi a fondo alle letture sopra appena accennate; ma anche più immediate e perfino confuse, una curiosità senza definizione nel suo carattere di bisogno esistenziale, che è quella che ci ha mosso a pensare questo numero e a pensarlo a partire da alcune voci femminili che potevano aprirci delle prime, parzialissime, “finestre” sulla presenza accanto a noi di tante donne venute da lontano. Un bisogno che già ci aveva spinto ad aperture di indagine su culture diverse – il numero Luci d’oriente, (n. 1, 2005) e i contributi su Werewere Liking e Odile Sankara nei numeri Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo (n. 4, 2005, n. 1, 2006). Non riprendiamo in questo numero la questione davvero spinosa di cui si diceva all’inizio, del rapporto tra “emancipate” e “immigrate” – troppo spesso viste come blocchi senza articolazioni interne – affrontata anche da un libro di qualche anno fa e allora molto discusso, Donne globali. Tate, colf e badanti (Ehrenreich e Hochschild 2004).
Ci è interessato di più ancora una volta, come è nello stile di DWF cercare l’intreccio tra sguardo d’insieme e racconto in soggettiva. Da un lato, dunque, l’appello – denuncia e richiesta – di Aminata Traoré sulle condizioni dei migranti d’Africa, che fa scaturire l’analisi e l’azione politica dagli stessi racconti di scontri e vessazioni alla frontiera di Ceuta e Melilla, e il colloquio tra Maria Vittoria Tessitore, che all’Università degli Studi Roma Tre ha pensato e coordina il Master “Politiche dell’incontro e mediazione culturale in contesto migratorio: pratiche dei saperi e dei diritti per una nuova cittadinanza” e Monica Luongo, che da qualche anno vi insegna. Dall’altro le narrazioni di Tina Hajon, giovane donna croata che dopo anni di problemi e ostinazione ha raggiunto la laurea e il lavoro che voleva, e di Raffaella Fiori, strana migrante che, giunta in Italia ad appena due anni per essere adottata, racconta il suo viaggio al contrario verso la conoscenza dell’India di origine; e il resoconto a due voci di Ferdinanda Vigliani e Daniela Finocchi sul concorso letterario “Lingua madre”, nonché l’appassionata analisi che Lidia Curti offre sulla nuova “letteratura diasporica” di migranti che scrivono in italiano.
(pb, fg)