NOTA EDITORIALE
Voci Migranti
di Paola Bono e Federica Giardini
Leggi l'editoriale in versione integrale
"Pensiamo sia sotto gli occhi di tutte e tutti il paradosso che vede coesistere
conflittualmente due processi. Da un lato quello, costantemente in
fieri (di cui testimoniano ad esempio il recente, sebbene non completo,
ingresso nella UE di Bulgaria e Romania), di allargamento dell’Europa
– e già sulla possibile definizione di questo termine, in prospettiva storica
e di sviluppi e intrecci culturali, si aprirebbe una serie di questioni
assai complesse. Dall’altro la tensione alla sua chiusura difensiva, al suo
farsi “fortezza” di fronte all’impatto crescente di movimenti migratori
legati a situazioni di povertà e di guerra. Sono problemi e fenomeni di
portata mondiale, che in quanto tali necessitano di analisi politiche e
socioeconomiche di largo respiro, ma che hanno anche ricadute nel quotidiano,
nel nostro quotidiano fatto di incontri, di letture, di visioni – e di
domande.
Incontri. Fugaci, come con le molte donne cinesi e indiane che lavorano in
piccole imprese a conduzione familiare: negozi, lavanderie, ristoranti…
Ravvicinati, come con la signora rumena che da alcuni anni assiste la
madre di una di noi, o con le colf che ci puliscono casa – ucraine, colombiane,
filippine… – per lo più donne adulte, già con una vita alle spalle e
ognuna con la sua storia di separazioni e fatica ma spesso anche di scoperta
e emancipazione: storie che vogliono e sanno raccontare quando appena
ne appaia l’occasione, aprendoci orizzonti diversi."...
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Politiche dell'incontro
di Maria Vittoria Tessitore e Monica Luongo
Maria Vittoria Tessitore, coordinatrice del Master in “Politiche dell’incontro” (Università Roma Tre), e la sua collaboratrice Monica Luongo discutono le premesse, le difficoltà, i successi e le modifiche del progetto volto a formare delle professionalità in grado di operare nel campo della mediazione e della consulenza in campi dove l'incontro fra culture gioca un ruolo importante.
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La guerra dei migranti
di Aminata Dramane Traorè
L'autrice, conosciuta per il suo impegno nella politica del new global, denuncia la violenza esercitata contro il popolo africano il popolo africano che cercava di raggiungere l'Europa dai possedimenti spagnoli di Ceuta e Melilla. Convinta dell'importanza del ruolo delle donne nella costruzione di una nuova politica per l'Africa, sostenitrice di un movimento libero dalle imposizioni delle organizzazioni internazionali, le cui politiche hanno effetti negativi sia sugli uomini che sulle donne di ogni Paese africano.
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Letteratura della migrazione tra arte e testimonianza
di Lidia Curti
Analizzando testi di poesia e narrativa e proponendo una riflessione teorica sui campi in gioco, l'autrice traccia una mappa di scrittrici migranti che hanno scelto di usare la lingua italiana: una letteratura diasporica che include sia una letteratura post-coloniale (in relazione alle colonie italiane in Africa), sia quella nata dalla migrazione in generale (in relazione alla presenza in Italia di migranti da diverse aree del mondo).
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Lingua madre - Racconti di donne straniere in Italia
di Ferdinanda Vigliani
I principi guida del Concorso letterario nazionale "Lingua madre" si ispirano alla consapevolezza sia della differenza sessuale come fondamento della libertà della donna, sia delle differenze tra donne con le loro molteplici realtà. Il concorso si svolge in Italia e la lingua è l'italiano ma diventa difficile esprimersi in italiano quando la propria lingua madre è il vietnamita, il bengalese, l'arabo...Chiedere aiuto ad una donna italiana è una consuetudine accettata nell'ambito del concorso senza che questo comporti una perdita di identità; al contrario, nella relazione con l'altra, la propria identità acquista forza e apertura.
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Lingua madre - Le donne si raccontano
di Daniela Finocchi
La spinta motivazionale del Concorso letterario nazionale "Lingua Madre" è quella di offrire un'opportunità alle donne straniere di parlare per e di sé stesse. Le donne straniere e quelle italiane ancora una volta confermano la loro comune appartenenza - oltre le differenze generazionali e culturali - alla genealogia femminile proposta da Irigaray e dalla filosofia italiana della differenza sessuale.
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Migrazione come utopia
di Raffaella Fiori
Leggi l'articolo in versione integrale
L'autrice - indiana di nascita ma adottata da una famiglia italiana quando aveva due anni - riflette sul viaggio compiuto da un ventre a una carenza mediata e ricostruita attraverso i corpi delle donne, fino ad arrivare alla madre (adottiva) che non vorrebbe mai lasciarla. Ma dalla piena consapevolezza di questa condizione l'autrice ha creato un nuovo viaggio, sia simbolico che fisico, dall'Italia all'India.
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Il treno delle meraviglie
di Tina Hajon
Tina Hajon, una giovane croata andata via di casa ai tempi del conflitto politico ed etnico, racconta la storia dei suoi anni a Roma alla ricerca dell'indipendenza e della realizzazione professionale. Si è scontrata con le barriere burocratiche, culturali e linguistiche, affrontando le sue paure e rimettendo costantentemente in discussione sé stessa e i suoi valori, ma lentamente è riuscita a raggiungere i suoi obiettivi.
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Scritture dell'alterità
di Nadia Setti
Il linguaggio è segno e sintomo dell'appartenenza simbolica a un paese simbolico come una complessa rete di identificazioni e disidentificazioni. Partendo da queste premesse, Setti legge una serie di testi (da Cixous, Derrida, Djebar, Mokeddem, Sebbar) che esplorano il significato delle parole per raccontare la relazione di ognuna con le proprie radici perse, moltiplicate, ritrovate.
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Figurazioni del "noi"
di Liliana Maina
Prendendo le mosse dal pensiero di filosofe femministe italiane come Boccia, Cavarero, Muraro, l'autrice analizza la presenza e le modifiche del soggetto plurale - (un gruppo di) donne come un "noi" - nei testi delle scrittrici italiane del ventesimo secolo, sia di racconti (di De Cespedes, Maraini, Ramondino, Santoro, Simonetti) sia di scritti autobiografici di Lonzi, Baeri, Passerini.
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Recensioni
di Curti
GIULIANA BRUNO, Atlante delle emozioni, Milano: Bruno Mondadori, 2006, pp. 471
"Questo libro è tanti libri insieme...La narrazione
dell’esilio dell’autrice diviene testo
filmico accanto ad altri, Rossellini,
Martone… Si ha così la corporeizzazione di
un percorso intellettuale, in cui Giuliana
Bruno ha esposto il suo corpo sulla tavola
anatomica, nella geografia della tenerezza,
su un atlante emotivo.
Punto di convergenza dei discorsi è il
cinema che era al centro dell’altro libro di
Giuliana che vorrei qui ricordare perché a
me molto caro (una lunga recensione su
DWF, n. 17, 1993, che è diventata punto
di incontro tra me e lei) ma anche perché
è molto importante ricordare una poetica,
importante visione di Napoli in questo
momento, a spezzare il cerchio del genere
pernicioso “discorso su Napoli” che di
tanto in tanto per motivi non del tutto onorevoli
si trasforma in uno dei tanti panici
morali, nutrimento dei media e di quella
grande internazionale che è la piccola borghesia...
Il libro esplora l’incontro
tra cinema e architettura, cinema e arte in
tutte le direzioni: arte come architettura filmica,
o cinema come architettura visuale...Per Giuliana la carta della
tenerezza, frutto di una scrittura femminile
in uno spazio collettivo esclusivamente
femminile, indica una topografia dei sentimenti,
delle passioni e materialmente
dipinge lo spazio del grembo femminile,
vasi sanguigni, utero, apparato riproduttivo,
solido e liquido assieme: spazio come
corpo, corpo come mappa; spazio relazionale,
della intersoggettività tra donna e
donna..." (Lidia Curti)
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Le autrici
Maria Vittoria Tessitore insegna nel corso di laurea in Dams dell’Università Roma Tre, dove svolge una intensa
attività nel settore delle Relazioni Internazionali, e dove ha creato e coordina il Master in “Politiche dell’Incontro”.
Ha pubblicato saggi sul teatro elisabettiano e, con Paola Bono, "Il mito di Didone" (Bruno Mondadori, 1998).
Monica Luongo, giornalista, ha lavorato all’Unità. Oggi si occupa di donne e sviluppo per la cooperazione italiana,
è osservatrice elettorale per l’Unione europea e l’Osce, e collabora al Master in “Politiche dell’Incontro” dell’Università Roma Tre. È presidente della “Società italiana delle letterate”, ha contribuito a creare il sito “DeA: donne e altri” e collabora alla rivista Leggendaria.
Aminata Dramane Traoré, tra le fondatrici del Social Forum Africano e del Forum per l’Altro Mali e ex ministra
della cultura del Mali, è consulente per diversi organismi internazionali. Dirige il Centro Amadou Hampâté Bâ
per lo sviluppo umano; ha scritto Le viol de l’imaginaire, Lettre au président des français à propos de la Côte
d’Ivoire et de l’Afrique (Fayard 2005).
Lidia Curti, a lungo docente di Letteratura inglese presso l’Istituto Universitario Orientale di Napoli, è figura di
rilievo nell’ambito degli studi culturali e post-coloniali. È autrice di "Female Stories, Female Bodies" (Macmillan,
1998) e di "La voce dell’altra". Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale (Meltemi, 2006); ha curato con
Silvana Carotenuto, Anna De Meo e Sara Marinelli "La nuova Shahrazad. Donne e multiculturalismo" (Liguori,
2004).
Ferdinanda Vigliani, attiva nella politica delle donne dal 1972, ha partecipato a un gruppo di autocoscienza di
Rivolta Femminile. Dal 1998 tiene seminari per la Facoltà di Psicologia di Torino con cui ha realizzato una ricerca
su giovani e identità di genere (Non è per niente facile, Rosenberg&Sellier, 2003). Tra le fondatrici del Centro
Studi e Documentazione Pensiero Femminile di Torino, ne è presidente dal 2004; ha pubblicato saggi critici, condotto
progetti UE e curato la guida 100 Titoli (Tufani, 1998).
Daniela Finocchi, torinese, giornalista, laureata in Scienze Politiche. Ha fatto parte del Coordinamento Giornaliste
del Piemonte (1979) e del Collettivo “Bollettino delle Donne” (1979-1991), lavorando nella redazione della rivista
omonima; è stata socia fondatrice a Torino del Coordinamento contro la Violenza (1983), di Telefono Rosa (1993)
e del Centro Studi e Documentazione Pensiero Femminile (1995).
Maria Raffaella Fiori, 25 anni, laureata in Filosofia presso l’Università Roma Tre con una tesi su Paulin J.
Hountondji e le origini della filosofia africana. Collaboratrice di DWF, ha partecipato alla messa in opera del XII
Simposio IAPh. Ha un attestato di Mediatrice Interculturale e dedica cura e azione ai problemi politici e sociali
legati ai migranti. Lavora nel Collettivo di Lettere e Filosofia portandovi le istanze di una politica più partecipata
e critica.
Tina Hajon, croata ma nata a Milano nel 1976, dopo aver conseguito il diploma del ginnasio della cultura a
Zagabria si è trasferita a Roma dieci anni fa. Laureanda nel Corso di laurea in Dams (percorso Organizzatore
Cinema e Audiovisivi) presso l’Università Roma Tre, collabora con strutture cinematografiche e televisive.
Nadia Setti, è docente di Letterature comparate e Studi femminili al Centre de Recherche d’Etudes Féminines,
Università Paris 8. Autrice di saggi su scrittura e differenza sessuale (“Figure e transfigure della differenza”, in
Scritture del corpo, a cura di Paola Bono, Sossella, 2000) e su lettura e traduzione (“Transreadings”, in Joyful
Babel. Translating Hélène Cixous, Rodopi, 2004), ha tradotto in italiano testi di Antoinette Foque e di Hélène
Cixous.
Liliana Maina, si è laureata in Lettere all’Università di Torino nel 2005. Attualmente lavora alla Libreria e Centro
culturale La Torre di Abele, sempre a Torino.
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Gli articoli in versione integrale scelti per questo numero
Nota editoriale, di Paola Bono e Federica Giardini
Migrazione come utopia, di Raffaella Fiori
Nota editoriale
Voci migranti
(di Paola Bono e Federica Giardini)
versione
stampabile
Pensiamo sia sotto gli occhi di tutte e tutti il paradosso che vede coesistere
conflittualmente due processi. Da un lato quello, costantemente in
fieri (di cui testimoniano ad esempio il recente, sebbene non completo,
ingresso nella UE di Bulgaria e Romania), di allargamento dell’Europa
– e già sulla possibile definizione di questo termine, in prospettiva storica
e di sviluppi e intrecci culturali, si aprirebbe una serie di questioni
assai complesse. Dall’altro la tensione alla sua chiusura difensiva, al suo
farsi “fortezza” di fronte all’impatto crescente di movimenti migratori
legati a situazioni di povertà e di guerra. Sono problemi e fenomeni di
portata mondiale, che in quanto tali necessitano di analisi politiche e
socioeconomiche di largo respiro, ma che hanno anche ricadute nel quotidiano,
nel nostro quotidiano fatto di incontri, di letture, di visioni – e di
domande.
Incontri. Fugaci, come con le molte donne cinesi e indiane che lavorano in
piccole imprese a conduzione familiare: negozi, lavanderie, ristoranti…
Ravvicinati, come con la signora rumena che da alcuni anni assiste la
madre di una di noi, o con le colf che ci puliscono casa – ucraine, colombiane,
filippine… – per lo più donne adulte, già con una vita alle spalle e
ognuna con la sua storia di separazioni e fatica ma spesso anche di scoperta
e emancipazione: storie che vogliono e sanno raccontare quando appena
ne appaia l’occasione, aprendoci orizzonti diversi.
Sono quelle che un
saggio da noi pubblicato un paio di anni fa (Marchetti 2004) chiamava “le
donne delle donne”, in una lettura del fenomeno che aveva
il sapore, acre e incisivo, di una provocazione [… su] una questione
spinosa, quella della divisione del lavoro di cura nei ruoli tradizionali che
l’occidente e la cultura patriarcale assegna alle donne, qui ulteriormente
ribadita nella sua redistribuzione tra donne emancipate e donne immigrate.
(Fortini 2004, p. 68)
Ma anche incontri con donne più giovani, a volte appena intraviste dal finestrino
di una macchina lungo una delle vie consolari, mentre si prostituiscono
– rinnovato commercio di corpi femminili che rimette in gioco antichi
dibattiti sul significato e sulle condizioni materiali del “lavoro del sesso”,
nella forbice tra sfruttamento e possibile scelta. Altre volte conosciute
all’Università mentre, nell’arrabattarsi in lavori sottopagati e clandestini,
studiano con determinazione per raggiungere i propri obiettivi di vita.
Letture. I giornali, naturalmente, ogni giorno pieni di notizie – per lo più tragiche
- sull’immigrazione: dai naufragi su barche vecchie e stracariche agli
orrori di luoghi concentrazionari, dalle morti sul lavoro agli episodi di crescente
razzismo. Ma ci sarebbero anche i molti studi che analizzano il fenomeno
migratorio e le sue cause, sia nelle sue forme presenti che nelle precedenti
“ondate”, quando i paesi di destinazione erano gli Stati Uniti e l’Australia, e in
Europa la Gran Bretagna, la Francia, il Belgio e la Germania, e dall’Italia invece
si partiva. Studi che in anni recenti hanno cominciato a “vedere” le donne
e a rendere conto della varietà di motivazioni che le portano a lasciare il proprio
paese, delle diversità tra loro – non solo in termini di provenienza, geografica
e culturale, ma di storie di vita, livello di educazione, aspettative realizzate
o deluse o in mutazione – e dei modi in cui le trasforma l’esperienza di
un così profondo cambiamento di vita. Si è cominciato a mettere a tema l’importanza
della differenza di genere per capire davvero le forme e i modi in cui
si delineano, agiscono e si modificano “confini” reali e simbolici: culturali,
nazionali, etnici, religiosi… E a mettere in questione associazioni frequenti nel
discorso contemporaneo sulla migrazione, per cui
metafore di modernità, scelta e movimento sono invariabilmente legate agli
uomini e alla mascolinità, mentre
metafore di tradizione, coercizione e casa
vengono associate alle donne e alla femminilità. Gli uomini sono rappresentati
come pionieri attivi, in controllo del proprio destino, mentre le donne, speso in
combinazione con i bambini (“donneebambini”) sono viste come vittime:
sradicate, isolate, piene di nostalgia.
(Davis e Lutz 2000, p. 260)
Nello stesso numero dello European Journal of Women’s Studies dal cui
editoriale è tratta questa citazione, numero dedicato alle “Donne in
Transito”, l’antropologa palestinese Ruba Salih parla delle donne marocchine
che lavorano come colf in Italia, mostrando i differenti modi in cui
rinegoziano la propria identità musulmana e criticando da un lato un’idea di “comunità” come corpo definito e omogeneo – secondo la tendenza di
un multiculturalismo che si potrebbe definire immobilista se non addirittura
reazionario – e dall’altro la celebrazione della figura migrante in funzione
anti-essenzialista; entrambi atteggiamenti che non prendono davvero in
carico la complessità dei processi di costruzione dell’identità.
La rinegoziazione generata dall’incontro reale e concreto tra donne di provenienze
diverse investe in modo inedito la riflessione teorica; ancora Ruba
Salih, nel suo recente contributo al volume Altri femminismi (2006), articola
con finezza il rapporto tra femminismo, laicità, cultura musulmana e fede
italica nei dibattiti extraeuropei, che – lungi dall’essere dibattiti “locali” –
elaborano criticamente anche la relazione con la modernizzazione di origine
occidentale. Ci si rende così conto che l’impegno delle singole donne per
l’affermazione e l’espressione della libertà femminile colloca tutte ed ognuna
in un mondo comune, ancora a venire, certo, ma già non più riducibile
ai luoghi separati e distinti delle singole nazioni o “comunità”*.
Visioni. Lo guardo che portiamo su queste nuove vicinanze conta ormai su
una risonanza visiva, che permette un respiro più ampio, anche se talora
non meno inquietante, rispetto all’immediatezza dei fatti di cronaca. Negli
ultimi dieci anni si sono infatti moltiplicati i film sensibili a questa nuova
situazione italiana, che da paese emigrante è diventato paese di immigrazione;
situazione che se non esime da una riflessione critica, perlomeno
decentra l’Italia rispetto al dibattito che si svolge nei paesi ex coloniali.
Difficile infatti separare nettamente gli effetti della migrazione in alcuni
film in cui chi mette in immagini partecipa di un mondo comune con chi
arriva ora nel nostro paese; basterà a tale proposito ricordare Lamerica di
Gianni Amelio.
Tra i più recenti, segnaliamo il video di Sara Marinelli, Quadri-fonia di
voci migranti, definito dalla stessa autrice “un invito all’ascolto: voci di
donne migranti residenti a Napoli che, simultaneamente, raccontano storie
in italiano e nella loro lingua madre, suscitando uno spaesamento linguistico
e acustico” e – presentati l’anno scorso alla Festa del cinema di
Roma, forse casualmente tutti a firma femminile. Le dernier caravanserrail, versione filmica dello spettacolo teatrale di Ariane Mnouchkine; il
corto Jamal, di Luisella Ratiglia, che sceglie di seguire un gioco di sguardi,
e il suo esito, tra un uomo arabo e una donna italiana; Il mondo addosso di Costanza Quatriglio, che dispiega presente passato e futuro, ovvero
l’arrivo, la provenienza e le prospettive di giovanissimi immigrati di diversi
paesi; Ritorni di Giovanna Taviani, che restituisce per immagini la ritessitura
di una separazione, il viaggio annuale verso il paese d’origine degli
immigrati tunisini, dopo la sfida “finita bene” della partenza.
Domande. Tante, che certo potrebbero in buona parte trovare risposta
appunto dedicandosi a fondo alle letture sopra appena accennate; ma
anche più immediate e perfino confuse, una curiosità senza definizione
nel suo carattere di bisogno esistenziale, che è quella che ci ha mosso a
pensare questo numero e a pensarlo a partire da alcune voci femminili
che potevano aprirci delle prime, parzialissime, “finestre” sulla presenza
accanto a noi di tante donne venute da lontano. Un bisogno che già
ci aveva spinto ad aperture di indagine su culture diverse – il numero
Luci d’oriente, (n. 1, 2005) e i contributi su Werewere Liking e Odile
Sankara nei numeri Mostrare il cambiamento. Donne politica spettacolo (n. 4, 2005, n. 1, 2006).
Non riprendiamo in questo numero la questione davvero spinosa di cui si
diceva all’inizio, del rapporto tra “emancipate” e “immigrate” – troppo
spesso viste come blocchi senza articolazioni interne – affrontata anche da
un libro di qualche anno fa e allora molto discusso, Donne globali. Tate,
colf e badanti (Ehrenreich e Hochschild 2004).
Ci è interessato di più
ancora una volta, come è nello stile di DWF cercare l’intreccio tra sguardo
d’insieme e racconto in soggettiva. Da un lato, dunque, l’appello –
denuncia e richiesta – di Aminata Traoré sulle condizioni dei migranti
d’Africa, che fa scaturire l’analisi e l’azione politica dagli stessi racconti
di scontri e vessazioni alla frontiera di Ceuta e Melilla, e il colloquio tra
Maria Vittoria Tessitore, che all’Università degli Studi Roma Tre ha pensato
e coordina il Master “Politiche dell’incontro e mediazione culturale in
contesto migratorio: pratiche dei saperi e dei diritti per una nuova cittadinanza”
e Monica Luongo, che da qualche anno vi insegna. Dall’altro le
narrazioni di Tina Hajon, giovane donna croata che dopo anni di problemi
e ostinazione ha raggiunto la laurea e il lavoro che voleva, e di Raffaella
Fiori, strana migrante che, giunta in Italia ad appena due anni per essere
adottata, racconta il suo viaggio al contrario verso la conoscenza dell’India di origine; e il resoconto a due voci di Ferdinanda Vigliani e Daniela
Finocchi sul concorso letterario “Lingua madre”, nonché l’appassionata
analisi che Lidia Curti offre sulla nuova “letteratura diasporica” di migranti
che scrivono in italiano.
NOTA
* Molti altri titoli potremmo citare, la letteratura in proposito si arricchisce ogni giorno di più: tra gli ultimi vanno segnalati almeno Cambi, Campani e Ulivieri (2003), Mariti (2003), Decimo (2006), Pojmann (2006).
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Migrazione come utopia
(di Raffaella Fiori)
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Viaggi per rivivere il tuo passato? era a questo punto la domanda del Kan,
che poteva anche essere formulata così: Viaggi per ritrovare il tuo futuro?
E la risposta di Marco: - L’altrove è uno specchio in negativo. Il
viaggiatore riconosce il poco che è suo, scoprendo il molto che non ha
avuto e non avrà.
(Italo Calvino, Le città invisibili)
Sono nata in India, adottata a poco più di due anni da una coppia italiana
– per me sono mia madre e mio padre – e da allora ho vissuto in Italia; qui
sono cresciuta e mi sono formata, frequentando le scuole italiane, avendo
l’italiano come “lingua madre”, senza davvero consapevolezza di una
diversa origine. Se solo pochi anni fa qualcuno mi avesse chiesto di scrivere
sui migranti, avrei pensato a una lunga dissertazione sul significato
della parola, sulle sue implicazioni sociali e storiche, sul modo di essere
migranti degli italiani e sul loro rifiuto e disconoscimento attuale, quasi
attuassero una rimozione: l’avrei pensato da ragazza italiana di meno di 25
anni, bianca.
Oggi mi guardo allo specchio e mi riconosco nera.
Questo mi porta ad un approccio tutto nuovo alla domanda: “Scrivi sui
migranti?”. Mi costringe a chiedermi io cosa sia, in un girotondo estenuante
di riconoscimenti e sovrapposizioni.
C’è un intrusione costante del mondo esterno, da quando riesco a ricordare,
che ha cercato con perentorietà di riaffermare una mia estraneità
– che io invece non sentivo – all’Italia dei miei genitori, dei miei
nonni, della mia vita. Sono passata da maestre delle elementari
che pretendevano conoscessi la situazione politica indiana a sei anni,
a compagni di classe che con un po’ di confusione ululavano davanti
a me scimmiottando pose da nativi americani, passando per le domande
di extra-comunitari che si riconoscevano nel mio colore ma
non nel mio modo di portarlo, per la curiosità maleducata di chi, credendosi a casa propria, pensa che perché diversa probabilmente non
saprai neanche leggere, fino alla violenza verbale di un poliziotto.
Sarà stato questo affastellarsi di eventi, questo cogente richiamo esterno a
dar voce a qualcosa che mi ribolliva dentro, a farmi compiere quest’estate
un viaggio, una migrazione contraria ai consueti flussi, verso il luogo dove
tutto era cominciato.
L’India mi ha accolto sconcertandomi e infastidendomi come se ci fosse
qualcosa di troppo doloroso da cui mi si dava l’ultima occasione di scappare.
Sarà che lì per lì non l’ho capito, sarà che dentro la voglia era più
forte, sono rimasta.
Per chi la conosce sarà facile immaginare il clima di Mumbay a fine luglio,
ma per chi non vi avesse mai messo piede si immagini il caldo di alcune
serre con l’umidità delle piscine in quel piccolo corridoio che di solito
porta dagli spogliati alle vasche, tutto molto, molto amplificato. Mumbay
alle cinque di mattina si è aperta ai miei occhi appiccicosa, inospitale,
povera e dolorante.
Neanche cinque ore dopo eravamo a Cochin. È lì che è cominciata la mia
storia personale ed è lì che è cominciato il mio migrare per una terra immensa
e fino ad allora vista da lontano, senza sapere né voler sporcarmi le mani.
A Cochin ho cominciato subito a cercare tante piccole me camminare per
strada, cercavo di riconoscermi nei sorrisi e negli occhi di chiunque incontrassi,
camminavo per mano al compagno di viaggio e di vita che ho la fortuna
di avere, sperando di incontrarmi casualmente sul lungomare della
città.
Era stranamente simile quel lungomare a quello su cui ho passato le
mie estati, cu sui mi sono emozionata e sono cresciuta in Italia, un lungomare
come immagino qualunque nel mondo, con gli scogli a ridosso della
strada su cui parlano amici, si perdono nell’orizzonte innamorati, corrono
vocianti i bambini sotto lo sguardo benevolo e accorto dei genitori, imboniscono
i passanti venditori di qualunque mercanzia.
E fra questa varia umanità passeggiavamo curiosi, stanchi ed eccitati, in
quello stato tipico da turisti, lui ed io. Coppia mista, strana qui e anche lì.
Lui chiaramente europeo, come la sua pelle e i suoi occhi, io… io strana
come indiana con i miei capelli corti, i miei jeans, la mia maglietta.
Per tutto il nostro piccolo ed enorme percorso di diciotto giorni sugli autobus
indiani con lo zaino in spalla, con le piogge che incombevano e un
malessere nello stomaco che non era dovuto al cibo, siamo passati su quella
terra. Curiosi e incuriosenti verso chiunque ci vedesse.
Sui pullman abbiamo potuto fare scorpacciate di esperienza visiva ed emotiva su ogni dosso, lentamente impiegando quattro ore per fare sessanta
chilometri ma girando fra parchi e monti, vedendo scimmie sulle strade e
bambini seriosi nelle loro divise che, ufficiali, portavano ancora più il
segno di quella povertà diffusa che passava per i maglioncini bucati, i pantaloni
troppo grandi, i faccini sporchi; donne e uomini che caricavano su
quei grossi trabiccoli a quattro ruote qualunque tipo di mercanzia, a qualunque
ora, per viaggi che li portavano in posti che garantivano la speranza
di una stentata sopravvivenza.
Un giorno un bambino mi ha chiesto di dove fossi e alla mia risposta:
“Sono italiana”, mi ha guardato stupito e arrabbiato come se lo stessi deridendo
– “ma se hai il mio stesso corpo?” – e lasciandomi con una sensazione
di frustrata incapace possibilità di spiegare se n’è andato sulla sua
bici arrugginita.
E io ho continuato a cercarmi, lasciando che piaghe dolorose fossero aperte
da ogni frase che mi riguardava, da ogni spiegazione, da ogni accerchiamento
curioso di bambini che non avevano mai visto un uomo bianco, in
un paesino fuori dalle strade principali nell’immenso centro sud dell’India,
sorridendo all’imbarazzo infastidito di lui che improvvisamente era il centro
calamitante di ogni attenzione, lui che fino ad allora era la consuetudine
e che diveniva in un altro mondo l’eccezione. In un mondo in cui io non
ero più così differente, lui, il più simile a me di tutti i presenti, era contemporaneamente
il più estraneo a tutti, me compresa.
Da quando sono tornata l’India mi manca molto, non come fanno altri luoghi
che ho girato, ma come se avesse ancora molto da dirmi, molto che non
ho capito e che sarebbe stato importante capire, un irrisolto che senza stare
in quel luogo o nel mio stare come passaggio fra due luoghi non mi sarà
possibile comprendere.
Dopo questa migrazione dentro di me e dentro la terra dei miei colori e dei
miei sorrisi ho scoperto con maggiore stridore quanto sia impossibile per
me definirmi in qualche modo. Se culturalmente sono italiana perchè formata
qui, resto apparentemente e per sempre straniera e questa estraneità
resta il mio più grande premio.
Fin da piccola ho imparato a rispondere e a
prevenire le domande di chiunque in una litania che come ogni rituale mi
salvaguardasse dall’entrare completamente nel conflitto fra il mio corpo e
il suo dirsi, la mia ragione e il suo farsi. Oggi, lascio che le domande e gli
sguardi non mi attraversino ma che restino e si depositano su di me.
Sono in Italia con il dissidio tipico delle seconde generazioni dei migranti,
quell’essere apparentemente qualcosa e culturalmente altro, ma ho come deficit nei loro confronti un’appartenenza a quel luogo che è l’origine
che non potrò mai compensare, e un debito di gratitudine e di amore
infinito verso la mia famiglia che non voglio disconoscere.
Al convegno dell’associazione internazionale delle filosofe, svoltosi l’estate
scorsa, sono stata particolarmente colpita e sollecitata dall’intervento
della psicoanalista Manuela Fraire che sosteneva che nel rapporto preverbale
fra madre e figlio/a si giocasse una prima formazione dell’identità.
E la mia allora? Mi sono riconosciuta migrante anche in quel particolare
periodo della mia vita, perché fino ai due anni e mezzo non c’è stata alcuna
figura di solida e immutata certezza ma sono passata fra più donne, che
in modi diversi e con diverse occupazioni impiegavano il loro tempo con
me, pagate. Sottolineo questo aspetto per dire che questa mia migrazione
fra i loro corpi non era neppure data con gratuità simile al rapporto madre/
figlia, ma era un mero assolvimento del compito a cui erano state delegate.
Come quindi io ho potuto costruirmi una qualche identità? Come quei
primi due anni e mezzo della mia vita e i nove mesi precedenti, che la psicologia
infantile scopre come fondanti e necessari per un individuo, hanno
un peso in me? Sollecitata in questo stesso scrivere e dalle esperienze che
ho fatto nel piccolo del mio lavoro come mediatrice culturale, mi delineo
in modo sempre più preciso nella figura di una “migrante” che ha costruito
nel viaggio il modo di esserci.
Il viaggio che come per tutti mi ha portato da un ventre, che sento problematico
definire sicuro e accogliente, a una luce fuori, per un abbandono
non stemperato dalla centralità di nessun abbraccio ma mediato e rimesso
in scena dai corpi di donne che occupavano il mio, per trovare finalmente
chi non mi avrebbe lasciata. Ma per conquistarmi questo stato di non
abbandono ho dovuto compiere un ulteriore viaggio, sia simbolico che
fisico, fra l’India e l’Italia.
La mia memoria inizia da quel viaggio, da quell’aereo di cui ricordo il
cielo percorso e il bagno spaventoso, dai sorrisi di chi mi aspettava all’aeroporto
e in quella che per sempre, più di qualunque altra, sarebbe stata
casa. Corpi che si prendevano cura di me gratuitamente, con il coinvolgimento
assoluto e assolutizzante di cui avevo bisogno.
Tutto quello che ho ricevuto mi ha permesso di cancellare il disagio che
tutti coloro che migrano provano, quel doversi ridire e definire per compiacere
lo sguardo di chi li giudica o per contrastarlo, senza provare mai la
sensazione della sola accettazione.
Ma alcune delle mie scelte mi hanno portato a ridire quella certezza che
avevo maturato; è stato il lavoro nelle scuole con i bambini di “seconda
generazione” e il mio scontro feroce con gli educatori che sostenevano la
necessità di ricordare loro che non erano italiani, e secondo loro dovevo
farlo anch’io. Io dovevo dire ad una bambina di sette anni, che si era detta
italiana ma che aveva la pelle nera e genitori nati in Africa, che non poteva
definirsi così, a lei che qui c’è nata, io che qui neppure ci sono nata.
A questo dissidio non riesco a trovare soluzione e neanche potendolo lo
vorrei. Come problema voglio affrontare il mio rapporto con la cultura che
fino ad ora ho sentito come centrale, con le pratiche che sperimento e con
lo studio della filosofia che caratterizza il mio percorso, non voglio più che
qualcosa suoni come bastante.
Sento inoltre che proprio nel mio corpo di donna si gioca ancora più fortemente
questo essere migrante, come luogo di un possibile passaggio di
un’altra vita, sia che esso avvenga sia che non accada, ma in questa peculiare
specificità dell’essere attraversata da un altro corpo e nel formarlo, vi
è l’attuazione di quella precondizione che segna il mio umano agire.
Oggi sono migrante, in questa situazione di non completa appartenenza a
nessun luogo e a nessun territorio, questo mi permette di fare del mio
corpo UTOPIA da realizzare nella migrazione del mio vivere.
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